Scienza
08 ottobre 2024

GLI SCIENZIATI ITALIANI SCOPRIRONO IL MOPLEN CON UN COLPO DI FORTUNA
INTERVISTA A GIANNI FOCHI – “Ma signora guardi bèn / che sia fatto di moplèn!”


Con Gianni Fochi, chimico alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ora in pensione, nonché saggista e pittore, è un gran piacere conversare, e non solo di chimica – materia che, ove lo si tocchi, lui suona – ma di tutto: la precisione matematica del suo linguaggio, scandito in perfetto accento toscano, ti dà la perfetta cognizione di cosa significhi parlare in italiano. Collaboratore diretto di Piero Pino, primo allievo di Giulio Natta, Fochi è la persona ideale per commemorare la scoperta del moplen.


Professore, quest’anno ricorrono i 70 anni dalla scoperta del polipropilene, che ha fruttato il premio Nobel al milanese Giulio Natta. Vogliamo parlarne insieme?


«Con piacere. Scusi la pignoleria, ma Natta, pur di formazione e carriera milanese, era ligure d’origine. Anche se apparentemente alla lontana, è doveroso cominciare nel 1939, oltre Manica, ove i laboratori delle Imperial Chemical Industries avevano avviato la produzione di polietilene, materia plastica che dava una netta superiorità come isolante dei cavi elettrici. La produzione costava un occhio della testa: richiedeva temperatura e pressione molto alte, sicché consumava una quantità immensa d’energia e bisognava trovare la via per risparmiare».


Il che ci porta in Germania…


«Al Max Planck di Mülheim, ove nel 1949 faceva ricerca il chimico Karl Ziegler che, baciato dalla fortuna, trovò quella via. Un giorno, in una delle autoclavi (di robusto acciaio, per via della pressione, che doveva essere necessariamente elevata) si trovò polietilene che si era formato, inspiegabilmente, a pressione relativamente bassa: un grattacapo. Alla fine, risultò che il recipiente – che di solito prima dell’uso veniva lavato con acidi forti e poi risciacquato – quella volta era stato risciacquato male, cosicché quando fu riempito con etilene, il gas risultò in contatto con residui della reazione dell’acido di lavaggio con l’acciaio dell’autoclave. Bingo! Quei residui facevano da catalizzatore alla reazione di formazione del polietilene, che così procedeva in condizioni meno severe (e meno costose)».


E la polimerizzazione del propilene?


«Gasato dal successo con l’etilene, Ziegler provò col propilene che, se fosse stato polimerizzato, avrebbe fornito un nuovo prodotto dalle proprietà tutte da scoprire; ma ogni suo tentativo fallì. Ci volle un altro colpo di fortuna, ma stavolta dobbiamo spostarci a Milano. Io sentii il racconto di questa storia nel 1977, a Zurigo, dalla viva voce di Piero Pino, chimico triestino che, al tempo della grande scoperta, nel 1953, poco più che trentenne, era numero uno nella squadra di Giulio Natta, al Politecnico. L’anno precedente Pino accompagnava Natta ad una conferenza della Società di chimica tedesca, ove rimasero favorevolmente impressionati dai risultati che Ziegler aveva presentato. Tornato a Milano, Natta andò a parlare a Piero Giustiniani, amministratore delegato della Montecatini, per cercare finanziamenti. Giustiniani, che si fidava di Natta, l’incoraggiò a invitare Ziegler a Milano».


Altri tempi…


«Eh, sì. La Montecatini era stata fondata nel 1888 per lo sfruttamento delle miniere di Caporciano presso Montecatini in Val di Cecina, nella parte meridionale della provincia di Pisa, e già dal primo dopoguerra s’era ingrandita, divenendo importante anche nella chimica. Dall’incontro con Ziegler nacque un accordo: la Montecatini acquistava i diritti per sviluppare industrialmente in Italia le scoperte del chimico tedesco, il quale s’impegnava a comunicare al gruppo di Natta i suoi risultati».


Piena fiducia, quindi…


«Beh, quasi. Nell’ambito dell’accordo, a partire dal febbraio 1953 alcuni giovani chimici italiani furono ospitati nei laboratori di Ziegler a Mülheim. E che ci fosse una sorta di “controllo” lo fa intuire un articolo del 1999 di Luigi Cerruti, apprezzato storico della chimica». 


Torniamo a Natta e al suo colpo di fortuna…


«Da grande chimico, Natta aveva capito che la via catalitica doveva funzionare anche col propilene, e ordinò di imboccarla a Pino e agli altri suoi collaboratori. Costoro – consapevoli che Ziegler aveva già fallito – ci lavorarono di cattiva voglia. Anche perché il catalizzatore – una miscela di sali di titanio e di alluminio-alchile – doveva essere maneggiato con molta cura e senza contatto con l’aria. In particolare, l’alluminio-alchile reagisce con l’ossigeno e l’umidità dell’aria e s’infiamma. Insomma, preparare e maneggiare l’alluminio-alchile è un compito difficile, non privo di rischi d’ustioni, incendi, esplosioni. Allora, per evitare la fatica di prepararlo fresco come, secondo “scienza”, avrebbero dovuto, decisero di usare un residuo che avevano di una vecchia preparazione e accontentare comunque il loro capo, convinti dell’insuccesso. Invece, quando aprirono il reattore dove avevano messo propilene e catalizzatore, vi trovarono, con grande meraviglia, una pappa dall’inequivocabile aspetto di polimero grezzo». 


Cos’era successo?


«All’inizio non lo capirono neanche loro. Tanto più che quando decisero di ripetere l’esperimento – stavolta con catalizzatore preparato “fresco” – fallirono come aveva tante volte fallito Ziegler. Non gli ci volle molto per capire che fosse una questione di dose. Infatti, il residuo di catalizzatore “vecchio”, usato nel primo esperimento, col tempo s’era degradato, lasciando intatta solo una piccola quantità di catalizzatore “buono”. Per farla breve, nel primo esperimento, di catalizzatore “buono” ne era stato di fatto introdotto, anche se involontariamente, pochissimo. Ma questa era la condizione affinché avvenisse la polimerizzazione, che non avveniva senza catalizzatore e non avveniva con troppo catalizzatore. Rifecero l’esperimento con catalizzatore preparato fresco ma in quantità piccole, ed ebbero di nuovo successo: era l’11 marzo 1954».


E con Ziegler?


«La strepitosa novità veniva tenuta ovviamente segreta all’interno del gruppo milanese e della Montecatini. Che comportamento tenere con Ziegler? Il metodo catalitico l’aveva creato lui, ma a fare il polipropilene non c’era riuscito. Bisognava o no renderlo partecipe della scoperta? Fu deciso di prender la faccenda da lontano. Con dissimulazione e con l’aria di parlare di un’eventualità puramente immaginaria, nel mezzo d’altri discorsi gli chiesero come avrebbe reagito se una delle aziende con cui lui collaborava fosse stata capace di polimerizzare il propilene. “Unmöglich!” (impossibile) fu la sua risposta secca e sicura. A quel punto la Montecatini si sentì svincolata da obblighi contrattuali o morali, partì coi brevetti e, nel 1957, con la produzione commerciale del polipropilene, col marchio Moplen. Quelli della nostra età ricorderanno gli sketch (a quei tempi non si diceva spot) di Carosello: in mezzo a bacinelle, catini, tinozze e altri oggetti di plastica, Gino Bramieri declamava due ottonari tronchi e rimati, dalla forte capacità d’inculcare un messaggio nelle menti dei telespettatori: “Ma, signora, guardi bèn/ che sia fatto di Moplèn!”».


E pensare che oggigiorno vogliono vietare la plastica… Però il Nobel del 1963 fu dato anche a Ziegler.


«Giustamente, ma Ziegler al momento ci restò molto male. Per rabbonirlo e garantirsi contro possibili processi internazionali, l’azienda italiana gli offrì un terzo dei diritti. Il tedesco accettò, ma conservò tutto il suo malumore. Si racconta che il 10 dicembre 1963, a Stoccolma, lui e Natta si scambiarono solo saluti di circostanza». 


Lei ha lavorato con Piero Pino, il pupillo di Natta…


«Sì, ma dopo che mi laureai. Io entravo matricola all’università di Pisa nel 1968, quando lo sconquasso politico-sociale era in pieno ribollire. Piero Pino, che teneva moltissimo al suo impegno di scienziato e docente e all’inizio di quell’anno aveva fiutato i sommovimenti che stavano per esplodere in Italia, lasciò Pisa per la cattedra offertagli dal Politecnico di Zurigo, dove io andai a lavorare, proprio con lui nel 1976».


Però tornò in Italia, alla Normale…


«Nell’ambiente svizzero-tedesco io in realtà mi trovavo bene: era indenne dal marasma politico di quegli anni e dagli scioperi generali, selvaggi o a singhiozzo, che in Italia devastavano la vita sociale, le aziende, i trasporti. Per giunta, all’età di ventott’anni guadagnavo quanto non potevo sperare di guadagnare in patria né allora né per molti anni a venire. Poi mi innamorai, mi sposai, e alla mia giovane e bella moglie pisana non andava giù la vita zurighese, la lontananza dal mare e un clima troppo diverso da quello mite della Toscana». 


Franco Battaglia


Articolo pubblicato sul quotidiano LA VERITÀ il giorno 8 ottobre 2024








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