Cattolicesimo
07 aprile 2024

La compunzione: il dolore che avvicina a Dio


Una meditazione da non perdere. L’autore di questo articolo è un monaco del monastero di San Benedetto in Monte a Norcia, che resta anonimo in ossequio a un antico uso benedettino.



C'è una cattiva tristezza (malinconia), piena d'amarezza e che conduce all'inferno, ma ce n'è una buona (compunzione) che non si rattrista per la perdita di cose temporali, ma della perdita di Dio e che ci apre le porte del cielo


«Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno, così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna» (Regola di San Benedetto, 72). Con queste parole San Benedetto introduce il penultimo capitolo della Regola (RB). Nel nostro sforzo di comprendere cosa sia la compunzione, potremmo semplicemente sostituire la parola "zelo" con "tristezza": proprio come c'è una cattiva tristezza, piena d'amarezza, che separa da Dio e conduce all'inferno - e la chiamiamo malinconia -, così c'è una buona tristezza che separa dai vizi e conduce a Dio e alla vita eterna: la compunzione. Parlando di questi due tipi di tristezza, San Paolo dice che «la tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza, del quale non c'è mai da pentirsi; ma la tristezza del mondo produce la morte» (2 Cor 7,10).

Come si fa a capire la differenza tra le due? Per cominciare, dovremmo riconoscere che tutta la tristezza deriva da una perdita, reale o percepita: di qualche oggetto importante, di un lavoro, di una casa o di un'auto, di un animale domestico, dell'affetto e del rispetto degli altri, di una relazione importante, dell'amore, di una persona cara. Nelle sue fasi iniziali, tutta la tristezza è moralmente neutra, ma siamo noi a guidarla verso la compunzione o la malinconia.

Ora, se la nostra disposizione fondamentale è quella della fede in Gesù Cristo, allora saremo in grado di considerare ragionevolmente se possiamo fare qualcosa per riguadagnare ciò che abbiamo perso e, in tal caso, pregheremo per avere la saggezza e la fortezza per farlo. Se, tuttavia, l'oggetto perduto non è recuperabile, vedremo che ciò che è stato perso non era così importante, come inizialmente pensavamo; oppure saremo in grado di accettare la nuova realtà con fede nell'amore provvidenziale di Dio e nella sottomissione alla sua santa volontà.

Inoltre, lasceremo che Dio stesso si sostituisca a ciò che era perduto, così che si realizzino in noi le parole della Madonna: «ha ricolmato di beni gli affamati» (Lc 1,53).


Le lacrime buone e quelle cattive

«Vanno bene le lacrime, dice Sant'Ambrogio, se tu riconosci Cristo» (Esposizione del Vangelo secondo Luca, X, 161), cioè se ti addolori nella verità e nell'amore di Dio. Tale dolore si trasforma felicemente in una santa compunzione. Se, invece, non si piange nella fede, ma si cerca di fare da soli, senza Dio, ne deriva la confusione mentale e si è incapaci di trovare il sentiero che conduce fuori dalla selva oscura. Al posto della rassegnazione alla volontà di Dio che dona pace, c'è una rabbia costante che rifiuta di accettare qualsiasi perdita, un'amarezza che tratta tutti come fossero una qualche sorta di nemico. Tale dolore è purtroppo diventato malinconia. La malinconia di questo tipo rifiuta di accettare la realtà e quindi non ha fine; nasce dall'orgoglio e spesso porta a un'autocommiserazione paralizzante che incolpa gli altri per le perdite subite. La malinconia può derivare dall'orgoglio anche sotto forma di odio verso se stessi. In questo stato vediamo noi stessi come un fallimento secondo gli standard del mondo (non di Dio) e di conseguenza ci disprezziamo. Questa malinconia frutto dell'odio di sé può apparire una forma di umiltà, un santo disprezzo di sé; ma quanto sia lontano dall'umiltà è dimostrato dalla freddezza, anzi, dal disprezzo, che questa persona prova per Dio. La genuina umiltà, al contrario, è sempre legata a un profondo amore per Dio e alla sottomissione alla sua volontà: «Ci sono alcuni che piangono, ma non sono umili; piangono perché sono afflitti, tuttavia pur fra le lacrime si levano contro il prossimo e contestano le disposizioni del Creatore» (Gregorio Magno, Moralia, IX, 56).

C'è un altro tipo di malinconia, quella che desidera i beni terreni, ed è rattristata dalla loro assenza o perdita. Le persone afflitte da questa malinconia si sottomettono devotamente ai gioghi più duri della schiavitù per ottenere queste cose e, quando riescono nel loro scopo, sono ancora più infelici, poiché ogni bene mondano deve essere affannosamente protetto dalla perdita e vi si deve infine comunque rinunciare quando si muore.


Compunzione contro malinconia

Il dolore della compunzione, tuttavia, è lontano dalla malinconia come l'Oriente lo è dall'Occidente. Chi è pervaso da compunzione non è rattristato dalla perdita delle cose temporali, ma dalla perdita di Dio. Come il Salmista, questa persona trova consolazione in Dio solo e merita la beatitudine da Lui pronunciata: «Beati coloro che piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,5). Tali anime si considerano semplici viandanti e vedono questa vita per quello che è: un luogo di pellegrinaggio e una valle di lacrime, e sono quindi piene di quel dolore che, secondo San Gregorio Magno, è l'amarezza dei saggi (amaritudo sapientium) e il dolore del cuore degli eletti (luctus cordis electorum) (cfr. Moralia, XVIII, 66; XV, 68). San Gregorio distingue due tipi fondamentali di compunzione: una di paura e una di amore. La prima è una purificazione dal peccato e una protezione contro di esso; l'altra è una forza del desiderio spirituale che ci trascina verso il Cielo. Due tipi e quattro motivi: «Quando ricorda le proprie colpe, considerando dov'era (ubi fuit); quando teme la sentenza del giudizio di Dio e interrogandosi pensa dove sarà (ubi erit); quando esamina seriamente i mali della vita presente, con tristezza considera dov'è (ubi est); quando contempla i beni della patria eterna che ancora non ha raggiunto, piangendo si rende conto dove non è (ubi non est)» (Moralia, XXIII, 41). I primi due nascono dal timore di Dio, che è il primo e fondamentale dono dello Spirito Santo. Ma è soprattutto attraverso il dono della scienza che la compunzione della paura matura e cresce in noi, perché ci permette di vedere noi stessi come siamo, con i peccati che ci allontanano da Dio, ma anche creati a sua immagine e somiglianza, redenti dal sangue di suo Figlio e chiamati nell'amore ad essere santi come Lui. Vedendo la nostra peccaminosità e ingratitudine verso Dio, siamo pieni di disgusto verso noi stessi e arriviamo a odiare i nostri peccati; ma vedendo il prezzo che il Figlio di Dio ha pagato per la nostra salvezza, ci viene data la speranza di cambiare le nostre vite e diventare santi come Lui è santo.


Il timore del Signore

Così il dono del timore del Signore ci ispira a «essere sempre consapevoli di tutto ciò che Dio ha comandato» e porta i nostri pensieri a «meditare costantemente sul fuoco dell'Inferno che brucerà per i loro peccati coloro che disprezzano Dio»; e così ci protegge ogni momento «dai peccati e dai vizi». Questa santa paura ci dà la certezza che «Dio ci guarda sempre dal cielo e che le nostre azioni sono ovunque visibili agli occhi divini e vengono costantemente segnalate a Dio dagli Angeli» ; ci fa sentire «in ogni momento la colpa dei nostri peccati in modo tale che ci consideriamo già difronte al tremendo Giudizio e diciamo costantemente nel nostro cuore ciò che il pubblicano del Vangelo ha detto con gli occhi fissi sulla terra: Signore, sono un peccatore e non sono degno di alzare gli occhi al cielo» (Regola di San Benedetto, 7)

Le anime pervase da questa duplice compunzione di paura provano una profonda contrizione per i loro peccati e temono di finire con i dannati alla sinistra di Cristo. Fanno proprie le richieste del Miserere, insuperabile preghiera di pentimento e contrizione; e chiedono misericordia come se fossero già di fronte al Giudizio Universale, in sentimenti che sono perfettamente espressi nel Dies Irae, quel capolavoro poetico della Messa da Requiem. In queste preghiere, vediamo da un lato un timore servile che ha paura della punizione, dall'altro un timore filiale che rabbrividisce al pensiero di offendere Dio. Il primo diminuisce man mano che il secondo aumenta, poiché il timore filiale è espressione della carità, di «quell'amore perfetto di Dio che scaccia il timore servile» (RB 7; 1 Gv 4,18).

Con la crescita del timore filiale, entriamo nella terza compunzione: il nostro amore per Dio e il nostro desiderio di essere con Lui danno origine a una disponibilità a soffrire in questa vita per meritare la beatitudine eterna nella prossima. Una grande fonte di consolazione per chi si trova in questo stato è la bella preghiera della Salve Regina, nella quale ci rivolgiamo alla Madonna perché ci consoli tra le inevitabili afflizioni di questa vita. I nostri occhi, dal suo volto materno, ritornano di nuovo su questo mondo. E lo vedono per quello che è: un luogo di esilio e tentazione, di fatica e sofferenza, giusta penitenza per il peccato originale e per i nostri molti peccati personali. Ma Dio nella sua misericordia ci permette di considerare queste sofferenze come benedette, perché con esse «condividiamo le sofferenze di Cristo e meritiamo di avere una parte anche nel suo regno» (RB, Prologo). E così si comprende la "legge" dei santi: «quanto più in questo mondo l'anima del giusto è afflitta dalle avversità, tanto più acuta diventa la sua sete di contemplare il volto del proprio Creatore» (Moralia, XVI, 32).

Divenuti così cari a Dio per le fatiche, possiamo stabilirci nella quarta compunzione, in cui non c'è più dolore, ma solo gioia penetrante, perché sente Dio vicino e disponibile ogni volta che si prega. San Benedetto ci dice che questo può accadere anche a noi, perché «quando avrai fatto queste cose, gli occhi del nostro Padre celeste saranno su di te e le Sue orecchie saranno aperte alle tue preghiere; e prima che tu Lo invochi, ti dirà: eccomi» (RB, Prologo).-

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