Una
meditazione da non perdere. L’autore di questo articolo è un
monaco del monastero di San Benedetto in Monte a Norcia, che resta
anonimo in ossequio a un antico uso benedettino.
C'è
una cattiva tristezza (malinconia), piena d'amarezza e che conduce
all'inferno, ma ce n'è una buona (compunzione) che non si rattrista
per la perdita di cose temporali, ma della perdita di Dio e che ci
apre le porte del cielo
«Come
c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta
all'inferno, così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e
conduce a Dio e alla vita eterna» (Regola di San Benedetto,
72). Con queste parole San Benedetto introduce il penultimo capitolo
della Regola (RB). Nel nostro sforzo di comprendere cosa sia la
compunzione, potremmo semplicemente sostituire la parola "zelo"
con "tristezza": proprio come c'è una cattiva tristezza,
piena d'amarezza, che separa da Dio e conduce all'inferno - e la
chiamiamo malinconia -, così c'è una buona tristezza che separa dai
vizi e conduce a Dio e alla vita eterna: la compunzione. Parlando di
questi due tipi di tristezza, San Paolo dice che «la tristezza
secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza, del
quale non c'è mai da pentirsi; ma la tristezza del mondo produce la
morte» (2 Cor 7,10).
Come
si fa a capire la differenza tra le due? Per cominciare, dovremmo
riconoscere che tutta la tristezza deriva da una perdita, reale o
percepita: di qualche oggetto importante, di un lavoro, di una casa o
di un'auto, di un animale domestico, dell'affetto e del rispetto
degli altri, di una relazione importante, dell'amore, di una persona
cara. Nelle sue fasi iniziali, tutta la tristezza è moralmente
neutra, ma siamo noi a guidarla verso la compunzione o la malinconia.
Ora,
se la nostra disposizione fondamentale è quella della fede in Gesù
Cristo, allora saremo in grado di considerare ragionevolmente se
possiamo fare qualcosa per riguadagnare ciò che abbiamo perso e, in
tal caso, pregheremo per avere la saggezza e la fortezza per farlo.
Se, tuttavia, l'oggetto perduto non è recuperabile, vedremo che ciò
che è stato perso non era così importante, come inizialmente
pensavamo; oppure saremo in grado di accettare la nuova realtà con
fede nell'amore provvidenziale di Dio e nella sottomissione alla sua
santa volontà.
Inoltre,
lasceremo che Dio stesso si sostituisca a ciò che era perduto, così
che si realizzino in noi le parole della Madonna: «ha ricolmato di
beni gli affamati» (Lc 1,53).
Le
lacrime buone e quelle cattive
«Vanno
bene le lacrime, dice Sant'Ambrogio, se tu riconosci Cristo»
(Esposizione del Vangelo secondo Luca, X, 161), cioè se ti
addolori nella verità e nell'amore di Dio. Tale dolore si trasforma
felicemente in una santa compunzione. Se, invece, non si piange nella
fede, ma si cerca di fare da soli, senza Dio, ne deriva la confusione
mentale e si è incapaci di trovare il sentiero che conduce fuori
dalla selva oscura. Al posto della rassegnazione alla volontà di Dio
che dona pace, c'è una rabbia costante che rifiuta di accettare
qualsiasi perdita, un'amarezza che tratta tutti come fossero una
qualche sorta di nemico. Tale dolore è purtroppo diventato
malinconia. La malinconia di questo tipo rifiuta di accettare la
realtà e quindi non ha fine; nasce dall'orgoglio e spesso porta a
un'autocommiserazione paralizzante che incolpa gli altri per le
perdite subite. La malinconia può derivare dall'orgoglio anche sotto
forma di odio verso se stessi. In questo stato vediamo noi stessi
come un fallimento secondo gli standard del mondo (non di Dio) e di
conseguenza ci disprezziamo. Questa malinconia frutto dell'odio di sé
può apparire una forma di umiltà, un santo disprezzo di sé; ma
quanto sia lontano dall'umiltà è dimostrato dalla freddezza, anzi,
dal disprezzo, che questa persona prova per Dio. La genuina umiltà,
al contrario, è sempre legata a un profondo amore per Dio e alla
sottomissione alla sua volontà: «Ci sono alcuni che piangono, ma
non sono umili; piangono perché sono afflitti, tuttavia pur fra le
lacrime si levano contro il prossimo e contestano le disposizioni del
Creatore» (Gregorio Magno, Moralia, IX, 56).
C'è
un altro tipo di malinconia, quella che desidera i beni terreni, ed è
rattristata dalla loro assenza o perdita. Le persone afflitte da
questa malinconia si sottomettono devotamente ai gioghi più duri
della schiavitù per ottenere queste cose e, quando riescono nel loro
scopo, sono ancora più infelici, poiché ogni bene mondano deve
essere affannosamente protetto dalla perdita e vi si deve infine
comunque rinunciare quando si muore.
Compunzione
contro
malinconia
Il
dolore della compunzione, tuttavia, è lontano dalla malinconia come
l'Oriente lo è dall'Occidente. Chi è pervaso da compunzione non è
rattristato dalla perdita delle cose temporali, ma dalla perdita di
Dio. Come il Salmista, questa persona trova consolazione in Dio solo
e merita la beatitudine da Lui pronunciata: «Beati coloro che
piangono, perché saranno consolati» (Mt 5,5). Tali anime si
considerano semplici viandanti e vedono questa vita per quello che è:
un luogo di pellegrinaggio e una valle di lacrime, e sono quindi
piene di quel dolore che, secondo San Gregorio Magno, è l'amarezza
dei saggi (amaritudo sapientium) e il dolore del cuore degli
eletti (luctus cordis electorum) (cfr. Moralia, XVIII,
66; XV, 68). San Gregorio distingue due tipi fondamentali di
compunzione: una di paura e una di amore. La prima è una
purificazione dal peccato e una protezione contro di esso; l'altra è
una forza del desiderio spirituale che ci trascina verso il Cielo.
Due tipi e quattro motivi: «Quando ricorda le proprie colpe,
considerando dov'era (ubi fuit); quando teme la sentenza del
giudizio di Dio e interrogandosi pensa dove sarà (ubi erit);
quando esamina seriamente i mali della vita presente, con tristezza
considera dov'è (ubi est); quando contempla i beni della
patria eterna che ancora non ha raggiunto, piangendo si rende conto
dove non è (ubi non est)» (Moralia, XXIII, 41). I
primi due nascono dal timore di Dio, che è il primo e fondamentale
dono dello Spirito Santo. Ma è soprattutto attraverso il dono della
scienza che la compunzione della paura matura e cresce in noi, perché
ci permette di vedere noi stessi come siamo, con i peccati che ci
allontanano da Dio, ma anche creati a sua immagine e somiglianza,
redenti dal sangue di suo Figlio e chiamati nell'amore ad essere
santi come Lui. Vedendo la nostra peccaminosità e ingratitudine
verso Dio, siamo pieni di disgusto verso noi stessi e arriviamo a
odiare i nostri peccati; ma vedendo il prezzo che il Figlio di Dio ha
pagato per la nostra salvezza, ci viene data la speranza di cambiare
le nostre vite e diventare santi come Lui è santo.
Il
timore del Signore
Così
il dono del timore del Signore ci ispira a «essere sempre
consapevoli di tutto ciò che Dio ha comandato» e porta i nostri
pensieri a «meditare costantemente sul fuoco dell'Inferno che
brucerà per i loro peccati coloro che disprezzano Dio»; e così ci
protegge ogni momento «dai peccati e dai vizi». Questa santa paura
ci dà la certezza che «Dio ci guarda sempre dal cielo e che le
nostre azioni sono ovunque visibili agli occhi divini e vengono
costantemente segnalate a Dio dagli Angeli» ; ci fa sentire «in
ogni momento la colpa dei nostri peccati in modo tale che ci
consideriamo già difronte al tremendo Giudizio e diciamo
costantemente nel nostro cuore ciò che il pubblicano del Vangelo ha
detto con gli occhi fissi sulla terra: Signore, sono un peccatore e
non sono degno di alzare gli occhi al cielo» (Regola di San
Benedetto, 7)
Le
anime pervase da questa duplice compunzione di paura provano una
profonda contrizione per i loro peccati e temono di finire con i
dannati alla sinistra di Cristo. Fanno proprie le richieste del
Miserere, insuperabile preghiera di pentimento e contrizione;
e chiedono misericordia come se fossero già di fronte al Giudizio
Universale, in sentimenti che sono perfettamente espressi nel Dies
Irae, quel capolavoro poetico della Messa da Requiem. In queste
preghiere, vediamo da un lato un timore servile che ha paura della
punizione, dall'altro un timore filiale che rabbrividisce al pensiero
di offendere Dio. Il primo diminuisce man mano che il secondo
aumenta, poiché il timore filiale è espressione della carità, di
«quell'amore perfetto di Dio che scaccia il timore servile» (RB 7;
1 Gv 4,18).
Con
la crescita del timore filiale, entriamo nella terza compunzione: il
nostro amore per Dio e il nostro desiderio di essere con Lui danno
origine a una disponibilità a soffrire in questa vita per meritare
la beatitudine eterna nella prossima. Una grande fonte di
consolazione per chi si trova in questo stato è la bella preghiera
della Salve Regina, nella quale ci rivolgiamo alla Madonna
perché ci consoli tra le inevitabili afflizioni di questa vita. I
nostri occhi, dal suo volto materno, ritornano di nuovo su questo
mondo. E lo vedono per quello che è: un luogo di esilio e
tentazione, di fatica e sofferenza, giusta penitenza per il peccato
originale e per i nostri molti peccati personali. Ma Dio nella sua
misericordia ci permette di considerare queste sofferenze come
benedette, perché con esse «condividiamo le sofferenze di Cristo e
meritiamo di avere una parte anche nel suo regno» (RB, Prologo).
E così si comprende la "legge" dei santi: «quanto più in
questo mondo l'anima del giusto è afflitta dalle avversità, tanto
più acuta diventa la sua sete di contemplare il volto del proprio
Creatore» (Moralia, XVI, 32).
Divenuti
così cari a Dio per le fatiche, possiamo stabilirci nella quarta
compunzione, in cui non c'è più dolore, ma solo gioia penetrante,
perché sente Dio vicino e disponibile ogni volta che si prega. San
Benedetto ci dice che questo può accadere anche a noi, perché
«quando avrai fatto queste cose, gli occhi del nostro Padre celeste
saranno su di te e le Sue orecchie saranno aperte alle tue preghiere;
e prima che tu Lo invochi, ti dirà: eccomi» (RB, Prologo).-
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