IL DECLINO DELL'OCCIDENTE
16 novembre 2023 LA MERAVIGLIOSA UTILITÀ DELL'INUTILE IL MALE ASSOLUTO - SCRITTO DEDICATO AI GIOVANI PERCHÈ SAPPIANO , COMPRENDANO, AGISCANO di Roberto Pecchioli NEI NOSTRI GIORNI C’E’ CHI FA POLITICA PER CONVENIENZA PERSONALE, CHI LA FA PER AMBIZIONE, CHI LA FA PERCHE’ NON SAPREBBE FARE ALTRO E CHI LA FA PER INCOSCIENZA. SCREMANDO I CASI PATOLOGICI RESTANO DUE CATEGORIE DI POLITICI PIU’ NOBILI: QUELLI CHE VOGLIONO GESTIRE AL MEGLIO L’ESISTENTE E QUELLI CHE VOGLIONO TRASFORMARE RADICALMENTE L’ESISTENTE. I MIGLIORI APPARTENGONO CONTEMPORANEAMENTE ALL’UNA E ALL’ALTRA CATEGORIA I FASCISTI DI SICURO APPARTENGONO ALLA SECONDA CATEGORIA
PUNTUALIZZAZIONE PRELIMINARE In tutto questo lavoro useremo sempre esplicitamente i termini “Fascismo” e “fascista”, senza altre circonlocuzioni, quali nazionalrivoluzionario o nazionalpopolare; e non per spirito provocatorio rispetto ad una comune vulgata che vorrebbe il Fascismo superato dalla storia, demonizzato o, nel migliore dei casi oggetto di un nostalgismo senile e fuori dal tempo. Al contrario noi riteniamo che il Fascismo, come sistema di pensiero e visione del mondo, sia una concezione atemporale e, come tale, legittimo così come altri sistemi di pensiero. Certamente, esso è rinnovabile sotto altre forme e in altri contesti storici che potrebbero portare ad una nuova denominazione; ma questo lo stabiliranno gli eventi e le sensibilità delle generazioni future. Per ora, noi rimaniamo aderenti ad un termine e alla sua radice simbolica costituita da un “fascio di verghe stretto intorno ad un’ascia”, che racchiude in sé un mondo di idee, di valori e di proposte; esaltanti o detestabili che si vogliano ma -ripetiamo - legittime. Nel seguente scritto intendiamo rivisitare e attualizzare l’esperienza fascista, specialmente dal dopoguerra in poi, secondo convinzioni e riflessioni personali. Se tutto ciò dovesse configurarsi come reato di apologia del Fascismo – e noi crediamo che non lo sia – ricordiamo a noi stessi e ad eventuali censori che: “Se un uomo non è disposto a correre qualche rischio per le sue idee, o le sue idee no valgono nulla o non vale niente lui” (Ezra Pound). D’altra parte, come è possibile mettere ai ceppi una visione del mondo, per definizione creazione dello spirito umano e come tale inestinguibile e al di là degli uomini che se ne fanno portatori? Ciò detto, cominciamo con la prima apologia. Queste brevi note sono state elaborate nel centesimo anniversario della “Marcia su Roma” e nell’ottantesimo della fondazione della RSI ovvero dell’inizio e del compimento della rivoluzione fascista. In tale circostanza, prima ancora di procedere all’esposizione, non possiamo non rivolgere un deferente pensiero al Duce del Fascismo e a tutti i caduti che lottarono per rigenerare, sotto nuove forme ma nella medesima sostanza, l’antica civiltà italiana ed europea. Quindi la nostra esposizione si muove nel solco del pensiero tradizionale, il quale nel nostro lavoro diventa la chiave di lettura di fatti, eventi e spunti risolutivi. Tale chiave di lettura, riferita al Fascismo storico e al Fascismo del dopoguerra, necessita di una puntualizzazione rispetto ad una aporia, mai risolta, tra azione spirituale e azione sociale, tra aristocrazia spirituale e Nazione, tra avanguardia e popolo, tra retaggio e modernità; risolvendosi spesso in una contrapposizione – a nostro parere fittizia - tra idee e linee politiche che si sono sviluppate all’interno della stessa famiglia di pensiero che in varia misura si richiama al Fascismo. Dal nostro punto di vista, una aristocrazia dello spirito o una élite politica autoreferenziali e staccate dai ceti inferiori sarebbero come uno stato maggiore senza esercito: semplicemente perderebbero la propria funzione: il senso del proprio essere soggetto politico. Analogamente un popolo o una nazione che non riconoscessero o non fossero in grado di esprimere una guida politico – spirituale, in nome di un egualitarismo infondato, si ridurrebbero a pure masse umane acefale e informi, facili prede di ogni illegittima oligarchia parassitaria e demagogica. D’altra parte, come possiamo applicare i principi dello Stato organico e della gerarchia funzionale se neghiamo dignità al tutto per esaltare solo la parte? Dunque, i termini di comunità, di appartenenza, di partecipazione, di equità (a ciascuno il suo) hanno un senso all’interno del pensiero tradizionale, sono traducibili in una azione politica conseguente o si tratta solo di una vuota utopia sconnessa da ogni legame trascendente? Ebbene, se una risposta definitiva a questo problema è difficile rintracciarla all’interno della produzione letteraria tradizionalista, al contrario, ce la fornisce proprio il Duce in folgoranti proposizioni che troviamo all’interno della sua “Dottrina del fascismo”: “Così il fascismo non s'intenderebbe in molti dei suoi atteggiamenti pratici, come organizzazione di partito, come sistema di educazione, come disciplina, se non si guardasse alla luce del suo modo generale di concepire la vita. Modo spiritualistico…. L'uomo del fascismo è individuo che è nazione e patria, legge morale che stringe insieme individui e generazioni in una tradizione e in una missione, che sopprime l'istinto della vita chiusa nel breve giro del piacere per instaurare nel dovere una vita superiore libera da limiti di tempo e di spazio …” (sottolineature nostre) In prima battuta il Duce, rivendicando una concezione spirituale della vita, pone esplicitamente la prassi del Fascismo nel solco di un sentire tradizionale, eleva l’individuo e lo concepisce come portatore di una idea non naturalistica di patria e di nazione; demandando tale compito all’educazione, alla disciplina, Ma non solo ... “Quindi l’alto valore della cultura in tutte le sue forme (arte, religione, scienza), e l'importanza grandissima dell'educazione. Quindi anche il valore essenziale del lavoro, con cui l'uomo vince la natura e crea il mondo umano (economico, politico, morale, intellettuale). Concepisce la vita come lotta, pensando che spetti all'uomo conquistarsi quella che sia veramente degna di lui, creando prima di tutto in sé stesso lo strumento (fisico, morale, intellettuale) per edificarla…” (sottolineature nostre) E siamo al valore della formazione, che parte dalla cultura, generalmente intesa, e arriva alla sublimazione del lavoro, inteso non come mera pratica economico – produttiva, ma in tutti i suoi aspetti come umanesimo del lavoro, mezzo di elevazione individuale e (ci permettiamo di aggiungere) di responsabilità nella prospettiva partecipativa all’interno della comunità nazionale e dello Stato. Ma ogni elevazione morale e materiale non si acquisisce se non attraverso la lotta, che investe ogni aspetto della vita e assegna a ciascuno un rango e una propria funzione gerarchica. Quindi il Duce insiste a più riprese sulla concezione dello Stato fascista: “la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l'individuo in quanto esso coincide con lo stato…” “...il Fascismo riafferma lo stato come la realtà dell’individuo …” “...per il fascista, tutto è nello Stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dallo stato …” “...non è la nazione a generare lo Stato … anzi la nazione è creata dallo Stato, che da al popolo consapevole della propria unità morale,una volontà…” Va da sé che non essendo lo Stato una vuota astrattezza, esso si intende edificato e retto dall’aristocrazia della rivoluzione fascista. Ma, soprattutto, con queste proposizioni il duce pone le basi dello Stato totalitario dove “tutto e tutti” sono nello Stato; anche il mondo del lavoro e i ceti produttivi non più ridotti al rango servile di proletari ma elevati a partecipi della vita dello Stato, in ordine al livello gerarchico interno all’economia e alla produzione. Quindi lo sbocco inevitabile diventa il corporativismo; anzi il corporativismo diventa il criterio organizzativo e partecipativo di tutti i ceti e di tutti i corpi intermedi. Su questo tema il Duce nella sua “dottrina” è chiarissimo: “...Il fascismo vuole lo stato forte, organico e al tempo stesso poggiato su una larga base popolare. Lo stato fascista ha rivendicato a sé anche il campo dell'economia e, attraverso le istituzioni corporative, sociali, educative da lui create, il senso dello Stato arriva sino alle estreme propaggini e nello stato circolano, inquadrate nelle rispettive organizzazioni, tutte le forze politiche, economiche, spirituali della nazione.” In conclusione, meglio di qualsiasi dottrinario, il Duce concretizza nel Fascismo l’idea di Stato organico e gerarchico, ovvero compiutamente tradizionale e pragmaticamente possibile nel contesto di quei tempi e dei nostri tempi. Potremmo fare le stesse considerazioni per il processo di modernizzazione di cui fu protagonista il Fascismo. Tradizione non vuol dire vivere in un passato idealizzato e rifiuto della modernità in tutti i risultati materiali raggiunti. La modernità (o la contemporaneità) va rifiutata per la visione del mondo ad essa sottesa e le ricadute che il produttivismo e la tecnica, divenuti strumenti delle logiche capitalistiche, hanno avuto sull’ambiente naturale e soprattutto sulla qualità umana, sui modelli esistenziali e sulla mentalità corrente. Anche rispetto a questa problematica nel Fascismo si avviò il superamento di questa aporia nella prassi governativa e oltre, armonizzando tradizione e modernità, innovazione e conservazione. Pensiamo, per esempio e per sommi capi, alla forte spinta ruralista, sostenuta da una ricerca e una tecnologia moderna, agli stilemi dell’architettura fascista a cavallo tra classicità e contemporaneità; al fervore innovativo nel campo scientifico e tecnologico nel mondo produttivo, soprattutto, a seguito delle sanzioni, a sostegno dell’antico principio autarchico; al simbolismo del mito di Roma calato e agente nell’epoca della mobilitazione delle masse; e infine, al riformismo legislativo (moderno corporativismo, socializzazione dei fattori produttivi come comunitarismo nell’era delle macchine). Per non parlare della corrente artistica più vicina al fascismo: il futurismo, che nelle sue opere proiettate in un futuro sprezzante di ogni passato, allo stesso tempo erano intrise di una ethos - dinamico, virile, volitivo – estraneo allo spirito dei nostri tempi. Tutto ciò avveniva non mediante un piano preordinato, di tipo ideologico, che solo a posteriori sarà dottrina; ma era il risultato di una spinta interiore che incamminava, prima l’Italia e poi l’Europa verso il sentiero di una nuova rivoluzione tradizionale. La riprova di quanto andiamo dicendo, ancora una volta la possiamo rintracciare nella “Dottrina del Fascismo”: “...non c'era nessuno specifico piano dottrinale nel mio spirito...” “...La mia dottrina, anche in quel periodo, era stata la dottrina dell'azione…” E a confermare – qualora ce ne fosse ancora bisogno – l’essenza spirituale del suo Fascismo, il Duce ribadisce: “...Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l'uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l'individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale...” Ora, qualcuno potrebbe obiettare che al Fascismo e al Duce mancavano la “legittimità dall’alto” per poter creare un autentico movimento di restaurazione tradizionale. Certamente le radici culturali del Duce e del fascismo non erano di natura prettamente tradizionali. Anzi, considerate le origini socialiste e massimaliste del Duce, la sua stupefacente “conversione” ideale, probabilmente, va individuata prima nelle varie opere e correnti del sindacalismo rivoluzionario soreliano e poi nella tempesta politico – culturale dei primi decenni del secolo scorso, che culminò nella prima guerra mondiale, fino alla marcia su Roma. L’effetto di quel conflitto fu assolutamente dirompente per la gran parte dei suoi protagonisti che diverranno, da allora, irriducibili e irrecuperabili ad una mentalità e ad una idealità di tipo borghese e, come dicevano i futuristi, passatista. Si potrebbe quasi parlare di una trasformazione antropologica; all’emersione di un Humus umano su cui germogliò prima il dannunzianesimo e l’avventura fiumana, in chiave vitalistica e dionisiaca e specularmente il fascismo come principio ordinatore e apollineo delle energie umane, spirituali e ideali liberatesi del vecchio mondo. Quindi, come si può dedurre facilmente, se certamente il Duce non fu un Avatar - un Dio sceso in terra- egli ebbe l’istinto intellettivo – esso sì divino – di far propria una idealità trascendente e sfidare il mondo moderno mettendo in atto principi e soluzioni, originali e originari, di natura tradizionale. Nell’eterna lotta tra Tradizione e sovversione, il Fascismo prese il testimone di una visione del mondo incarnatasi ripetutamente nella storia conosciuta. Questo testimone è ora passato alle nuove generazioni che si richiamano al Fascismo; c’è da chiedersi se esse ne saranno degne. La via è tracciata.
PREMESSA “Il Fascismo è il male assoluto”. Questo concetto viene affermato sia in forma perentoria –e questo è il tipico modo della sinistra – oppure in modo sfumato, con tutti i dovuti distinguo e minimizzazioni- dai cosiddetti moderati di centrodestra. Il Fascismo quale male assoluto è dunque il dogma primario del pensiero dominante in questa fase storica, ed è un “atto di fede” che consacra, di converso, la democrazia, quale migliore dei sistemi politici possibili. Qualcuno si ricorderà che Churchill disse, più o meno, che la democrazia è una porcata ma che non riusciva ad immaginare un regime migliore. Churchill se lo poteva permettere in quanto aveva combattuto e vinto la sua guerra al Fascismo e al Nazionalsocialismo anche in nome della democrazia; ma la pletora di personaggi della politica, della cultura, dell’informazione, della scuola e compagnia delirante che ripetutamente va affermando la propria fede democratica e antifascista è di ben altra e “bassa” statura. La loro pigrizia mentale, il manicheismo e l’ignoranza che si auto infliggono sono gli alibi per il loro confortevole conformismo quando non una necessità di sostentamento personale nella società sedicente democratica, che sempre più diventa “democratura”; cioè ibrido tra democrazia e dittatura (1). Peraltro il vuoto nichilismo e il deserto di valori che li distingue sono surrogati dal blasfemo fideismo antifascista. Ma di questo cortocircuito psicologico, indotto a livello di massa - prima ancora che essere motivato da ragioni ideologiche e politiche - ne parleremo in seguito.
CENNI DI UNA STORIA CONTROVERSA “I buoni devono crocifiggere colui che arriva a scoprire la sua propria virtù! Questa è la verità” F. Nietsche - Così parlò Zarathustra
Ora ripercorriamo sinteticamente le fasi attraverso le quali si è dipanato il rapporto tra Fascismo e antifascismo dal dopoguerra in poi. E’ risaputo che il primo atto di antifascismo lo troviamo nella costituzione della presente repubblica, precisamente nelle norme transitorie (2); la qual cosa consente agli antifascisti militanti di dichiarare fuorilegge - o quantomeno un parìa sociale - chiunque si dichiari Fascista o da costoro sia dichiarato tale; con tutto il corollario di proibizione di saluti, inni, immagini o altri richiami al Fascismo storico. Naturalmente, secondo un principio logico elementare, tutto ciò è in palese contraddizione con gli altri articoli della (loro) costituzione che affermano le libertà individuali, sotto tutti gli aspetti, che tutelano il cittadino e la persona. Tra le altre cose, se si possono condannare persone ed anche movimenti politici rei di aver violato una qualche legge morale o universale, non si possono certo condannare il pensiero e le concezioni che da esso scaturiscono. Ogni idea è per definizione innocente a meno che non sia una aperta apologia di malvagità, sanzionata da qualsiasi codice. Invece, con la messa al bando del fascismo si è imposta proprio la discriminazione di una precisa visione del mondo, legittima quanto le altre, come cercheremo di dimostrare in seguito. Fatto sta che tale discriminazione, nel corso del dopoguerra è servita, di volta in volta, ai giochi di palazzo e di potere; ed oggi ha contribuito alla nascita del pensiero unico e della “polizia del pensiero”. Di questa contraddizione si resero ben conto i costituenti, i quali, nel dichiarare transitorie le norme antifasciste, presupponevano appunto una abolizione di esse nel corso del tempo, dopo, presumibilmente, una riappacificazione nazionale, maturata in un clima di reciproca tolleranza e comprensione. Possiamo anche comprendere – ma non giustificare – che una tale normativa fosse necessaria nell’immediato dopoguerra, quando le ferite della guerra civile erano ancora aperte e molti settori sociali erano permeati di spirito e idee fasciste; in un contesto nel quale, peraltro, il mondo reducistico sognava e tentava una possibile rivalsa. Il ché avvenne con esiti politici minimi e tanto romanticismo estetico (3) Fatto sta che a distanza di oltre 80 anni tali norme ancora non “transitano”; anche se tutta quella generazione ancora intimamente legata al Regime Fascista, insieme ai suoi oppositori storici, è quasi del tutto estinta per ragioni naturali. Questa situazione non fa che perpetuare un clima di separatezza e conflittualità tra le istituzioni, politiche e sociali - unitamente agli antifascisti militanti - contro una tenace minoranza che si ispira ancora a valori che furono propri del Fascismo. In che termini lo vedremo nel corso di queste brevi note. Ma vi è dell’altro. Una costituzione così congegnata appare incongruente sul piano giuridico sostanziale, in quanto qualsiasi costituzione moderna deve essere una tavola di principi e valori sulla quale possano convergere tutte le famiglie di pensiero, senza nessuna esclusione aprioristica, fermo restando i principi politico – culturali, morali ed etici largamente condivisibili e alcune condizioni di fondo previste da qualsiasi codice penale. E’ una precondizione, questa, ineludibile per popoli che si costituiscono in nazioni e si danno uno Stato. Pertanto “la più bella costituzione del mondo” lascia il tempo che trova e legittima il mondo neofascista a non riconoscersi in essa. A questo punto, per comprendere quali siano stati i fattori di evoluzione e di involuzione dell’azione e del pensiero Fascista nel corso del dopoguerra, anche in rapporto all’antifascismo connaturato al sistema che si andava consolidando, dobbiamo ancora indugiare sul primissimo dopoguerra: diciamo dal referendum istituzionale del 2 giugno 1946 fino alla legge Scelba n° 645 del 20 giugno 1952. Tre furono gli eventi che condizionarono le scelte del mondo neofascista: il primo fu il succitato referendum istituzionale del 2giugno 1946 in cui molti fascisti votarono per la Repubblica, in odio a quella monarchia Sabauda traditrice che aveva disonorato la Nazione tutta. Il pragmatismo del fronte repubblicano accolse di buon grado questo insperato aiuto e si allentò la morsa repressiva sul mondo reducistico, se non altro in termini psicologici, tant’è che il 26 dicembre dello stesso anno poteva nascere il MSI senza particolari reazioni, nonostante il clima persecutorio e vendicativo nei confronti dei fascisti; conseguente anche alle azioni dimostrative di questi ultimi (3). Tra le altre cose il 22 giugno di quell’anno venne varata la famosa amnistia del guardasigilli Togliatti che rimise in libertà moltissimi Fascisti ospiti delle patrie galere. Inutile ricordare che l’amnistia fu ideata principalmente per mettere in libertà i tanti criminali partigiani e mettere una ipoteca, ancora oggi attiva, sulle ricostruzioni e le valutazioni storiche a posteriori. Certo, il referendum si era tenuto venti giorni prima, ma la voce del prossimo provvedimento era corsa nell’ambiente Fascista ed aveva contribuito a far propendere per la scelta repubblicana. Quindi in quel momento i fascisti non erano il “nemico assoluto” o almeno la loro presenza era tollerata come parte del panorama politico italiano, anche se in un clima di polemica e conflittualità strisciante tra i fronti opposti. Anche con l’attentato a Togliatti del 14 luglio del 1948, dopo i primi accenni insurrezionali da parte della base del partito comunista, il MSI e tutto l’ambiente neofascista ne uscirono sostanzialmente indenni (4). In fondo era già stata promulgata la costituzione (22 dicembre 1947) e, se si fosse voluto, si sarebbe potuto, strumentalmente e con qualche forzatura, subito applicare la XII disposizione transitoria e finale. In sostanza la XII disposizione – ed è questo il secondo fatto cruciale – insieme alle leggi successive ad essa ispirate (legge Scelba, 1952) e legge Mancino (1993), dovevano servire –e servono ancora - solo come arma di ricatto e ghettizzazione di un’area politica e ideale che – come vedremo nel prosieguo di queste note – non si può racchiudere nelle vicende del Fascismo storico e nei suoi epigoni post-bellici. Ci ripetiamo, esso2 esprime e rappresenta un’autentica visione del mondo, per definizione a-storica e a-temporale, (5) quindi una espressione dello spirito e dall’animo umano, laddove essa si manifesta come qualcosa di connaturato. Restiamo per il momento sul piano storico e vediamo quale fu il terzo evento che condizionò le sorti del mondo neofascista. Facciamo riferimento alla “guerra fredda” tra gli opposti blocchi geopolitici: quello occidentale a guida USA, sotto l’ombrello della nascente NATO, e quello sovietico. Fin dagli accordi di Yalta (11 febbraio 1945) l’Italia era stata assegnata al blocco occidentale; ma in Italia esistevano anche il più forte partito comunista dell’area occidentale e –cosa non trascurabile affatto- la sede papale quale centro di un cristianesimo tradizionale ancora influente e decisamente, all’epoca, anticomunista. Quindi al fine di mantenere un equilibrio necessario ai rapporti di potenza mondiali, anche il MSI, in virtù del suo anticomunismo radicale, poteva e doveva essere reclutato alla causa atlantista, smorzando nel contempo ogni velleità di rivalsa e di sommovimento del quadro politico interno centrato sul potere democristiano. Più o meno la stessa cosa avvenne sul versante di sinistra. Vista l’impossibilità di instaurare un regime comunista in Italia, il PCI di quegli anni, soprattutto nella figura di Togliatti, fu ben lieto che sorgesse una forza neofascista, a cui opporsi nel nome della retorica resistenziale, oltre che per dare un senso politico e una ragione di lotta alla base del partito. Da quel momento il PCI inizio la lunga marcia nel sociale diventando preminente nel sindacalismo, nell’associazionismo, nell’assistenzialismo e soprattutto nella cultura. Il che avveniva grazie alla tacita intesa con la DC che, a sua volta occupava invece il cuore del potere nazionale, con il sostegno ecclesiastico, gli ambiti politico - amministrativi, militari, finanziari e burocratici; attraverso i quali andava a costruire le proprie clientele. Tale appariva, allora, la mappa del potere reale, che il MSI non seppe o non volle comprendere, né denunciare, né opporvisi, nonostante potesse ancora contare su un reducismo ancora giovane e una massa di giovani che non aveva fatto in tempo a vivere l’epopea della RSI, ma era impregnata di valori patriottici e di orgoglio nazionale. La riprova si ebbe nei fatti di Trieste del 5 e 6 novembre del 1953, allorché i giovani nazionalisti che manifestavano per l’italianità di Trieste lasciarono sul selciato 6 morti: i primi di una serie che si allungherà negli anni ‘70. Furono gli anni in cui il MSI tentò di conquistare un proprio ruolo all’interno delle istituzioni: si astenne nella votazione per la nascita del governo Pella (1953) e, in seguito, sostenne apertamente il governo Zoli (1957-58). Nel 1960, il successivo tentativo di appoggiare il nascente governo Tambroni fu vanificato dalla rivolta del PCI, prima a Genova per impedire il congresso del MSI e poi a Reggio Emilia, dove vi furono ben 11 morti negli scontri tra la polizia e i comunisti insorti. Da allora non si ebbe mai più la tentazione di coinvolgere il MSI in governi dichiaratamente anticomunisti e di centrodestra e incominciò in quel partito una crisi di identità e di strategia che durerà a lungo e lo ridurrà a ruolo di testimonianza, men che meno coerente con le proprie radici. In questo contesto, parallelamente alla diaspora del CLN verso i vari partiti che lo componevano, quindi tra quelli centristi, di destra e di sinistra, iniziò anche la crisi nell’area neofascista tra una componente “entrista” (la maggioranza del MSI) disposta ad abbandonare ogni aspirazione antisistema e partecipare da destra al gioco democratico, una componente di “sinistra”, decisa a riaffermare una linea politica costruita intorno alle leggi sociali, prima del Regime e poi della RSI (corporativismo, socializzazione, autarchia) e una componente giovanile e rivoluzionaria in cerca di una identità profonda, esistenziale e culturale al tempo stesso, che desse significato alla propria radicale avversione alla democrazia. Queste tre anime convissero nel primo dopoguerra sotto l’ombrello del MSI, a sua volta tacitamente tollerato e ammesso alla compagine anticomunista nonostante le declamazioni antifasciste di circostanza. Ma fin da quando il MSI decise di votare in parlamento per l’adesione dell’Italia alla NATO, seguita, come abbiamo visto, dalla scelta di adeguarsi al gioco democratico, la separazione tra le tre componenti politico-culturali fu inevitabile; anche se nel corso del tempo le ragioni della politica portarono ad avvicinamenti e allontanamenti periodici.
IRROMPE LA CULTURA TRADIZIONALE Fu questo il periodo della riscoperta della tradizione metafisica che aveva avuto un suo momento di fulgore tra le due guerre. Ispirati dalle opere di un maestro assoluto quale è stato Julius Evola, e da tutta una letteratura di contenuto spirituale e metafisico, i giovani rivoluzionari trovarono il significato autentico e profondo di una “rivolta contro il mondo moderno” che avevano solamente intravisto nel Fascismo storico e nei movimenti analoghi di tutta Europa. Comunque il tentativo di creare una struttura politico – culturale di impronta tradizionale, capace di incidere nella società, ebbe vita breve e si dissolse con il processo ai FAR (fasci di azione rivoluzionaria), nel 1951 che vide tra gli imputati lo stesso Evola nelle vesti di “cattivo maestro”. Come si può dedurre dal corso degli eventi nei decenni successivi, mentre la componente moderata ed entrista del primo neofascismo è involuta in una destra vagamente nazionalista e occidentalista fino alla completa implosione; la componente sociale, dopo le elaborazioni dottrinarie e programmatiche degli anni ’60 e ’70, non ha trovato né gli uomini né le strutture per un’azione efficace nel politico e nel sociale. A nostro parere il fallimento della componente sociale, altrimenti detta “Sinistra Fascista” va fatta risalire all’epilogo della RSI. Esiste tutta una ampia letteratura e gli atti legislativi che dimostrano come durante il ventennio la componente sindacale e quella corporativa abbiano dato un contributo determinante nel percorso di costruzione del nuovo Stato sociale, nonostante le resistenze degli ambienti confindustriali e borghesi. In sostanza, la “Sinistra fascista” si rifaceva, nello spirito e nelle proposizioni all’esperienza del Sindacalismo Rivoluzionario del primo anteguerra, che partendo da Sorel aveva visto emergere figure dal calibro di Corridoni, Alceste De Ambris, A. O. Olivetti, Sergio Panunzio e altri, che con le loro elaborazioni dottrinarie auspicavano una prassi di attiva sintesi dell’idea nazionale con quella sociale. Il sindacalismo rivoluzionario e i suoi uomini furono la spina dorsale dell’interventismo prima e del Fascismo sorto successivamente. Quelle idee tornarono nuovamente in auge nella RSI la quale, fino all’ultimo, con la legge sulla socializzazione e le sue prime applicazioni aveva cercato di portare a compimento la rivoluzione sociale e nazionale; se non altro come una esperienza unica, un “prototipo” da tramandare alle generazioni future. Con il crollo della RSI e la sconfitta dell’Asse, nel dopoguerra,addirittura, una parte importante della sinistra fascista tentò di trasferire i principi sociali e socializzatori del Fascismo all’interno della sinistra sindacalista e dello stesso PCI. Tra questi, alcuni (vedi Stanis Ruinas) tentarono un rapporto organico e di inserimento all’interno dello stessa area politica di sinistra. Un tale tentativo, tanto ingenuo che fallimentare andò a scontrarsi con la natura e l’ortodossia ideologica del PCI e della sinistra massimalista, con le ferite di una guerra civile mai più risanate e con le mutate condizioni politiche e sociali interne e internazionali. Meglio sarebbe stato trasferire con convinzione tutto il bagaglio dottrinario e rivoluzionario della Sinistra fascista all’interno della CISNAL; per fare di tale sindacato la testa d’ariete in grado di scompaginare il fronte compatto del sindacalismo di sinistra. E da qui, dalle istanze operaie del tempo, dalla capacità di dare ad esse risposte più concrete e più radicali, riprendere la marcia della rivoluzione sociale fascista. Ma così non fu. A nostro parere, il fallimento e la deriva sinistrorsa di prima e dopo la guerra di tale componente vanno rintracciati nella assenza di solidi radici tradizionali che, in linea con le proposizioni organicistiche del Duce, avrebbero potuto condurre ad una elaborazione dottrinaria e programmatica più originale e solida di quanto poi si è dimostrata. Insomma se la meta prefigurata dal fascismo di sinistra poteva essere un “socialismo nazionale”; la volontà di incidere nel sociale della “sinistra nazionale” finì invece per degenerare in un ibrido “social – comunista” senza speranze. Al contrario l’anima tradizionale è stata quella che maggiormente ha consolidato e rinnovato nel tempo il pensiero anti sistema di derivazione storica fascista; facendosi forza anche delle esperienze esistenziali di quelli che negli anni ’60 e ’70 furono in prima linea nel dare “l’assalto al cielo” per una rivoluzione politicamente impossibile nella società moderna, ma sempre vincente su se stessi, sul proprio demone interiore, in quella che la dottrina tradizionale chiama “grande guerra santa”. Indipendentemente dai risultati politici, negletti e rifiutati per intima coerenza, l’area tradizionale ha saputo quindi rielaborare una cultura alternativa e rivoluzionaria (6), una analisi del sistema di potere mondiale- alla quale solo oggi altre componenti culturali si avvicinano- oltreché una revisione storica e filosofica quale precondizione per la comprensione del presente; senza trascurare soluzioni originali e coerenti per ogni problema affrontato. Ma soprattutto ha risollevato simboli, miti e liturgie, condensati in uno stile esistenziale che continua ad attrarre nuove componenti generazionali, come il magnete attrae il metallo; ovvero come l’ idea forza di una visione del mondo attrae la corrispondente razza dello spirito. Nel nostro caso –è palese- si tratta di una razza dello spirito irriducibile al mondo moderno e alle sue suggestioni ora false, ora debilitanti, ora sovvertitrici di ogni ordine naturale. Ma torniamo ad analizzare quegli eventi che nel corso del tempo hanno influenzato il pensiero e l’azione dell’area neofascista in rapporto al sistema e all’antifascismo.
L’OCCASIONE MANCATA Superato il primo dopoguerra, così come l’abbiamo sunteggiato precedentemente; mentre si conclude la diaspora neofascista con la nascita di molteplici organizzazioni extraparlamentari (le più importanti tra le quali “Ordine Nuovo” e “Avanguardia Nazionale” ) la società italiana e occidentale conosce il cosiddetto boom economico: un nuovo benessere che ebbe ripercussioni anche sul piano sociale e del costume. L’avvento della televisione, la prima motorizzazione, la diffusione di una nuova musica e di una nuova moda giovanile, il desiderio di una vita non convenzionale, senza tralasciare la prima diffusione delle droghe - viste allora come opportunità di esperienze extrasensoriali - condussero a quella che è nota alle cronache come la contestazione giovanile. Quanto questo fenomeno fosse spontaneo o eterodiretto è tutt’altra storia, che ci porterebbe troppo lontano. In ogni caso Il nuovo clima di rinnovamento, di rigenerazione culturale, di rivolta generazionale coinvolse anche i settori giovanili vicini alla Destra e al Neofascismo; i più accorti dei quali videro l’opportunità di far circolare, senza subire pregiudizi, le proprie idee e giungere finalmente al confronto con una più ampia platea di giovani che nutrivano lo stesso impeto di rivolta contro il sistema socio-politico dominante; la qual cosa condusse ad una paradossale tregua tra i fronti contrapposti, pur nel prosieguo delle iniziative, dell’attivismo quotidiano e delle polemiche politiche. Chi scrive ricorda che in quel periodo (siamo ai primi anni ‘60) più volte i ragazzi della Giovane Italia, l’organizzazione giovanile del MSI, del paese natio si incontrarono nella sede del MSI locale con quelli della FGCI, per elaborare – con l’ingenuità propria dell’idealismo giovanile – rivendicazioni da sottoporre alle autorità locali. Quando poi nel 1965 fu ventilata la riforma universitaria, nota come riforma Gui, vi fu la prima protesta studentesca di massa. Per giorni interi, ragazzi di destra e di sinistra o di nessun colore politico, fianco a fianco, condussero uno sciopero ad oltranza e nei cortei che sciamavano nelle città erano assenti tutti i simboli e le bandiere di parte, assumendo così i connotati di una autentica rivolta generazionale. Il 1965 fu , dunque, il preludio del ‘68: di un sogno rivoluzionario che poteva assumere esiti imprevedibili, dipendenti solo da quale avanguardia fosse riuscita a mettersi alla testa di quel movimento giovanile e studentesco e dalle idee-forza che meglio avessero affascinato e risultate convincenti nei confronti di una massa giovanile desiderosa di un profondo cambiamento sociale e di costume. E in questa ottica, il bagaglio culturale del fascismo poteva essere, se ben utilizzato e attualizzato, l’arma vincente. Tale sogno si infranse a Valle Giulia dove proprio il MSI intervenne pesantemente nell’università, in quel momento occupata, con una comune ma fragile intesa, dagli studenti fascisti e dal movimento studentesco di sinistra; palesando, qualora ce ne fosse stato bisogno, il proprio ruolo organico all’assetto di potere in chiave anticomunista e di destra; ma non certo come “alternativa al sistema”. Anche le fiammate di rivolta popolare che negli anni appena seguenti si accesero nel Sud: a Battipaglia, a L’Aquila e soprattutto a Reggio Calabria, sebbene guidate con successo da una avanguardia neofascista e di destra, non ebbero ulteriori esiti politici nazionali oltre ad un certo successo locale, man mano riassorbito nel corso del tempo, soprattutto per la mancanza di una strategia e di una immaginazione rivoluzionaria a più ampio e lungo raggio. Arriviamo così alla stagione dei golpe e del terrorismo stragista. Comunque si vogliano analizzare quegli eventi: che siano stati effetti degenerativi della dialettica politica, oppure ultime fiammate di una possibile rivalsa antidemocratica e anticomunista o eventi eterodiretti da forze “oscure” ed esterne che avevano il solo obiettivo di stabilizzare l’opinione pubblica a favore delle forze di governo, scongiurando ogni possibile eversione del quadro politico, è ancora tutto da scoprire e da analizzare (7).
GLI ANNI ‘70 E L’ASSALTO AL CIELO Si precipitò così per oltre un decennio in una guerra civile a “bassa intensità” che è stata ben descritta nei suoi uomini, nelle sue organizzazioni e nelle forze in campo (8). In questo contesto mentre a destra e a sinistra si contavano i morti, il MSI – Destra Nazionale rafforzava la sua immagine di partito d’ordine, millantandola come “alternativa al sistema”. Lo stesso slogan: “non rinnegare, non restaurare”, riferito ovviamente alle radici fasciste, era concettualmente come una operazione algebrica a somma zero, quindi mistificante, che poteva convincere solo quella piccola fetta di elettorato, più che altro, ancora sentimentalmente legata al periodo fascista, che non ad un progetto politico originale, scaturente da quelle idee forza proprie del Fascismo e rispondente alle urgenze del momento storico-politico. Su quest’ultima necessità invece si misurarono le forze radicali di avanguardia, che mentre fronteggiavano nelle piazze l’anticomunismo militante, combattevano non solo per il proprio diritto di esistere ma anche per legittimare di fronte alla Nazione la propria visione del mondo e la propria sfida ad un mondo in crisi. Si assistette quindi ad un nuovo impeto rivoluzionario, non più revanscista, come era stato nel dopoguerra ma con l’animo innovativo e contestativo della gioventù di quei tempi; nel segno- si sarebbe potuto dire di “attualizzare senza rinnegare”; ben diverso, come già detto, dal vuoto “né rinnegare né restaurare”. In questa evoluzione, sicuramente ebbe un ruolo determinante proprio la lezione tradizionalista che, tra le altre cose, invitava a rintracciare le proprie radici oltre il Fascismo storico e la propria identità nelle migliori pagine della storia e nei miti europei intrisi di una spiritualità sovraordinata ad ogni dato politico. Si andava così riattualizzando il senso della milizia che pure era stato un dato portante del Fascismo; e proprio l’idea di Imperium veniva assunta come superamento del nazionalismo piccolo borghese di astrazione giacobina. In questo percorso di revisione storico-spirituale non meravigli che molti riscoprirono le “patrie carnali” (9) come precondizione per far evolvere la “patria storica” (in questo caso l’Italia nata dal Risorgimento) verso la “Patria ideale”: l’Imperium europeo. Quindi fu proprio in quegli anni- che vanno dal 1968 ai primi anni ’80- che si rilanciò il mito dell’”Europa Nazione” contro quella che stava nascendo come una Europa tecnocratica, fu allora che si cominciò a prestare attenzione ai movimenti di liberazione nazionale che in tutto il mondo rivendicavano la propria autodeterminazione; analizzati in quel contesto come nazionalismi da sostenere al di là dei colori politici contingenti. Anche in questo caso vi fu una convergenza con il movimentismo di sinistra; ma per motivi opposti, in quanto la sinistra vedeva in quelle lotte nazionalistiche non altro che una fase transitoria per la comunistizzazione di quelle società. Quindi fu in quella temperie che con più forza si rivendicava la terza via contro gli opposti imperialismi di USA e URSS; fu in quegli anni febbrili che si cominciò a parlare di ecologia con un taglio olistico e come leva per la lotta al capitalismo, o di comunitarismo come premessa ad ogni tentativo di socializzazione dell’economia, e di unità organica di popolo; ovvero di un nuovo “socialismo nazionale” radicale e popolare di contro ad ogni concetto classista teorizzato e praticato (10). Parimenti non possiamo dimenticare il ruolo che ebbe nella formazione delle nuove generazioni la riscoperta della cultura nazionalrivoluzionaria, fascista o più ampiamente tradizionalista, che aveva avuto il suo fulgore nell’anteguerra. Tra gli anni ‘60 e ‘70 vi fu una autentica esplosione di nuove iniziative editoriali, palestre di giovani autori, di riviste piccole o grandi che approfondivano e divulgavano gli ambiti più disparati di quel sapere controcorrente, sistematicamente negletto dalla vulgata del sistema. E nascevano così nuove librerie e centri librari militanti che diffondevano quel sapere tra una gioventù desiderosa di dare una forte sostanza alla loro appartenenza. Fu così che – a titolo di esempio – dopo un periodo di eclissi, anche i più giovani scoprirono Evola, Guenon, Medrano, Savitri Devi o De Giorgi, tra i principali maestri del tradizionalismo; oppure i tanti protagonisti della rivoluzione conservatrice tedesca, da Spengler a Moeller van der Bruck, i nostri Gentile e Spirito, Marinetti e il futurismo, i propugnatori del sindacalismo rivoluzionario e del corporativismo e i tanti esponenti della destra francese, da Mourras a Drieu La Rochelle, da Brasillach a Celine; tutti assurti a miti politico – culturali. Nomi e idee corrispondenti che rimbalzavano dalle loro opere alle riviste, agli articoli divulgativi fino alle fortunate monografie sintetiche - utili per i più giovani - ad opera delle “edizioni Volpe”. Si andava così a formare quel Pantheon culturale da contrapporre orgogliosamente all’asfittica cultura democratica e marxista. Nello stesso tempo, in tale temperie culturale, muoveva i primi passi una giovane generazione di intellettuali organici ai movimenti neofascisti, tra i quali spiccava il mai troppo compianto Adriano Romualdi (10a). Ma soprattutto si poté capire come “il Fascismo immenso e rosso” fosse tale per la sua dimensione europea. La sua portata rivoluzionaria aveva investito tutto il continente con le varie organizzazioni nazionali e i suoi uomini più rappresentativi: dallo spagnolo primo De Rivera al rumeno Cornelius Zelea Codreanu, dal belga Leon Degrelle, e dal francese Doriot all’inglese Arthur Mosley. A tutte le latitudini il Fascismo incarnava l’unità della nuova e antica civiltà europea, la quale andò a concretizzarsi nel pieno del secondo conflitto mondiale nelle Waffen SS: il primo esercito europeo dopo la battaglia di Lepanto. E proprio attraverso il mito di quel fascismo europeo si superavano le contraddizioni del piccolo patriottismo nazionalista, tale da poter affermare: “la nostra Patria è laddove si combatte per la nostra idea” Non solo: si prese anche di petto il problema della comunicazione attraverso gli strumenti della modernità; quindi nascevano le radio libere di area, e muovevano i primi passi gruppi che attraverso la musica rock e folk (11) richiamavano le nostre idee e il nostro modo di essere; si creò altresì una nuova grafica ugualmente evocativa (11a) ed anche delle modalità estetiche, ancora oggi evidenti, che distinguessero il giovane fascista sia dal piccolo borghese omologato che dal lerciume della sinistra. Fu in questo contesto e in questo impulso a creare un proprio mondo che fu riscoperto la fantasy, come genere letterario che adombrava miti e suggestioni tradizionali (12). Insomma si cercava evangelicamente di “essere nel mondo senza essere del mondo”. Gli stessi simboli riprodotti dai gadgets con cui i giovani fascisti marcavano la propria identità (cosa che ancora oggi continua) erano molteplici e variavano dai simboli runici a quelli di gloriosi reparti militari, a quelli dei migliori fascismi europei. Ma il simbolo che si impose su tutti fu- e lo è ancora- la Croce Celtica. Variamente interpretata, chi scrive ama credere che sia la sintesi di un cerchio solare, simbolo delle radici indeuropee e di una croce simbolo della Cristianità (13), a indicare la continuità spirituale della civiltà delle genti europee. Il nero del simbolo richiama la milizia sacrificale di chi combatte per essa; il campo bianco la dimensione spirituale verso cui trascendere; il fondo rosso la sostanza popolare da ordinare come unità di destino gerarchicamente organizzata. La Croce Celtica ebbe la sua apoteosi nei tre “campi hobbit” che si tennero alla fine degli anni ’70, allorché tutti i gruppi, tutto un mondo giovanile di area, si riunì, si confrontò e festeggiò sotto il simbolo unificante della bandiera con la celtica. Da allora il significato unificante e rivoluzionario di questo simbolo è rimasto nell’immaginario e nella prassi di quanti ancora rivendicano la propria radicalità tradizionale e di conseguenza l’assoluta alterità al sistema. In particolare proprio durante il terzo campo hobbit potremmo, per la prima volta, emozionarci alle note e ai versi del brano musicale “il domani appartiene a noi”. Esso divenne presto un inno – bandiera di ogni militante, un manifesto ideale più efficace di qualsiasi discorso. Tuttavia in quegli anni il nuovo assalto al cielo si scontrò con lo “spirito del tempo” ovvero una diffusa mentalità, inculcata nelle masse da tutte le centrali del potere (14), che rendeva refrattari ad ogni discorso rivoluzionario. In questo clima culturale e attivistico nacque l’ultima esperienza politica con connotati rivoluzionari; ovvero “Terza posizione”, che anche nella denominazione ribadiva la necessità di una terza via tra capitalismo e comunismo, da praticare nella quotidianità attivistica, con temi sociali aderenti ai bisogni della popolazione.
L’ESPERIENZA DELLA NUOVA DESTRA La migliore risposta a questo problema di affermazione nella società, la diede, allora, il sodalizio che prese la denominazione di “Nuova Destra” e successivamente di “Nuova Sintesi”. Seconda la Nuova Destra ogni tentativo di trasformazione socio-politica doveva necessariamente passare attraverso un nuovo paradigma culturale, rispetto a quello sottostante la mentalità dominante. Occorreva quindi andare oltre le parole d’ordine, i programmi e le strategie a corto raggio e cominciare ad acquisire, quindi, una egemonia laddove si modellano le convinzioni e le idee - quali i mass media - e laddove si dà indirizzo e valore alla conoscenza, cioè nella scuola e nelle università. Proprio come aveva fatto la sinistra che era diventata dominante se non nella politica corrente certamente nel sistema di valori diffusi nella società. Il cosiddetto “gramscismo di destra” se correttamente inteso era il richiamo appunto ad una strategia di lenta e continua trasformazione socio-culturale; quindi una strategia metapolitica destinata alla lunga a ripercuotersi anche nel campo politico. Coerentemente con tale impostazione si cominciò a rivisitare tutta la grande cultura della prima metà del ‘900, si cominciò a parlare di ecologia, di sovranità monetaria, si valorizzarono nuovi ambiti scientifici come l’etologia, la sociologia, l’antropologia e in genere si diede spazio ad una epistemologia scientifica improntata a criteri olistici e organici più aderenti alle verità tradizionali e naturali, ma anche forieri di ripercussioni in ambiti più vasti: da quelli extra scientifici fino a quelli sociologici e filosofici. In sostanza veniva ripresa e attualizzata tutta la cultura anti – illuministica con le sue derivazioni razionalistiche e deterministiche, del XIX e XX secolo, facendo ricorso anche alla lezione di Eisenberg e al suo “principio di indeterminazione” e alla fisica quantistica che insieme ai modelli olistici e gestaltici (14a) davano spazio ad una nuova e più profonda visione del reale incompatibile con lo scientismo dominante. Insomma si trattava di battere in breccia tutto il pensiero materialista e riduttivo che partendo dalle scienze positive andava poi ad influenzare gli ambiti, prima filosofici, poi quelli culturali e infine, inevitabilmente, quelli politici e sociali. Tali ricerche riuscirono ad influenzare soprattutto la corrente giovanile rautiana che attraverso la fortunata rivista “linea” proponeva tematiche proiettate ad un futuro da protagonista e da antagonista al pensiero moderno. Fu in tali ambienti che nacque il fortunato slogan “la biopolitica è tradizione del domani” che sinteticamente alludeva ad una ecologia profonda, non separabile dall’identità profonda biopsichica che connota l’essere umano. Fu sull’onda di queste appropriazioni culturali che, sempre dall’ambito della corrente rautiana del MSI, nacquero i GRE (Gruppi di Ricerca Ecologica) come prima organizzazione ecologista di una destra più vicina al Fascismo; con una visione dell’ambiente naturale come immanenza di un ordine cosmico di cui l’uomo – unico essere senziente - è chiamato ad esserne custode e fruitore al tempo stesso. Quindi una cultura ecologica lontana e alternativa all’ambientalismo di maniera, regressivo e antiumano, che ancor oggi parla di anti specismo mettendo l’uomo sullo stesso piano di qualunque altro essere vivente, che immagina una naturalità utopica e una natura “museo” dalla quale la presenza e l’azione umana vanno espulse. Non a caso, un certo ecologismo pseudo rivoluzionario agita gli stessi temi e le stesse soluzioni che propaganda quella oligarchia apolide e multimilionaria che pretende di dettare l’agenda del futuro del mondo. Quella stessa oligarchia che, come le proprie avanguardie di straccioni, inventano pseudo emergenze, riducono la scienza ad ideologia scientifica e auspicano un distopico pauperismo “felice” per le masse. Per concludere questo capitolo, una ultima notazione riguardante gli stimoli culturali provenienti dalla Nuova Destra. I più sofisticati cominciarono anche a parlare di “teoria delle catastrofi” applicata all’azione metapolitica. Secondo tale teoria la sommatoria di piccoli cambiamenti, raggiunta una certa massa critica avrebbe portato appunto alla “catastrofe” di un dato sistema (nel nostro caso il sistema socio – politico vigente) e alla repentina assunzione di una nuova fisionomia (nuovo paradigma di civiltà) (15). Insomma nulla, né di teorico né di pratico, veniva tralasciato per avviare l’auspicata rivoluzione neofascista o, come poi si preferì, anti – sistema.
LO SPARTIACQUE DEL 1980 Nel 1980, con la strage di Bologna e la susseguente repressione si chiudeva un arco di tempo di dodici anni, aspro, fortemente conflittuale, talvolta luttuoso ma anche ricco di fermenti e analisi innovativi e radicali al tempo stesso. Intanto si avviava al suo epilogo anche la tragica avventura esistenziale dei NAR e la tentazione di rispondere in armi alla repressione del sistema e all’antifascismo militante. Con il teorema della strage fascista e la conseguente repressione giudiziaria, tutte le realtà organizzate in breve tempo si dissolsero e molti militanti rifluirono nel privato, così come avveniva più in generale nelle masse giovanili, di destra e di sinistra, avviate ad una spoliticizzazione repentina. Qua e là resistevano sparuti nuclei che mantenevano viva l’idea nazionalrivoluzionaria; ma l’onda lunga dei fermenti e delle elaborazioni del decennio precedente portò al successo di numerose pubblicazioni e riviste di un certo valore (16) che continuarono ad analizzare i fenomeni degenerativi della società moderna e a tracciare le linee di un’autentica alternativa al sistema, diventando quasi i punti di raccordo di quanti non volevano deporre le armi della politica e non rinunciavano a rendere incisive le proprie idee. Fu in questo periodo che si approfondì l’analisi su quelle forze e su quelle organizzazioni dal carattere apolide e di natura economica e finanziaria che, operando fuori dai riflettori dei media, ovvero condizionandoli dalle quinte della società, riuscivano a implementare o a incentivare tutte quelle dinamiche volte a trasformare il mondo in senso mondialista e globalizzante; perciò stesso avversi ad ogni idea di appartenenza di radicamento culturale e di autonomia nazionale. Senza dimenticare che la ripresa degli studi geopolitici fu una delle armi più significative per una controffensiva antimondialista (17). In verità già all’indomani della seconda guerra mondiale, l’ONU e le organizzazioni satelliti avevano cominciato ad operare in senso mondialista dietro la facciate di istituti per l’”armonia e la pace” tra i popoli e nel nome degli interessi generali (18). Quindi iniziammo a prendere confidenza con sigle quali CFR, Trilaterale, Bildenberg, Club di Roma ed altre, che in verità pur operando da tempo non venivano mai presi in considerazione come centri di potere antinazionali e antitradizionali, attardandosi nella solita polemica antimassonica e antiebraica come se le logge, i vari sinedri e b’nai b’rith (19) fossero i soli e determinanti soggetti della sovversione in atto; pur rappresentando essi l’elemento primigenio e metafisico del capovolgimento e della corruzione della visione del mondo scaturente dallo spirito tradizionale.
L’ULTIMA OCCASIONE MANCATA E LA “RESISTENZA GIOVANILE” Poi la storia si rimise di nuovo in moto offrendo al mondo neofascista e nazional-rivoluzionario l’occasione di un maggior peso specifico nella politica della nazione. In sintetica successione: nel 1989 cade il muro di Berlino, seguito nel 1991 dallo scioglimento dell’URSS. Nello stesso 1991 si ha il primo massiccio sbarco di clandestini albanesi sulla costa pugliese. Questo evento vide la pronta reazione del nostro mondo che sembrò trovare un minimo comune denominatore nella difesa della nostra identità bio -psichica e culturale da ogni presenza allogena; ma non si riscontrò nessun risultato organizzativo e quindi politico (20); anzi nel 1993 venne varata la legge Mancino che sulla scorta della legge Scelba andava a punire anche supposti reati di natura razziale, colpendo di fatto l’espressione di ogni principio identitario. Intanto nel 1992 con “mani pulite” tutta la classe dirigente della cosiddetta prima repubblica veniva spazzata via. In quel momento di sbandamento e di sfiducia nelle istituzioni democratiche, per il MSI-DN, unico partito non coinvolto nella crisi, si presentò l’opportunità di cominciare ad incidere nella nazione e ad imporre progressivamente una svolta in senso nazionale, sociale e identitario, secondo i presupposti di una dottrina fascista aggiornata e calata nella realtà moderna. Ma questo partito, fedele alla sua svolta destrorsa e antifascista, fino ad allora abilmente dissimulata per interessi elettorali, con il congresso di Fiuggi comincia il suo completo inserimento nel sistema. Se consideriamo che anche a sinistra ebbe inizio un percorso simile, di fatto in Italia venne a mancare una qualsiasi forza significativa di opposizione e di alternativa al sistema, che perdura a tutt’oggi. Coloro che invece seppero cogliere i primi frutti della loro semina furono quelle forze dalla profonda natura sovversiva, nichilista e antitradizionale che in tutta Europa accelerarono i processi di finanziarizzazione dell’economia, della globalizzazione produttiva e del trasferimento di ogni potere decisionale ad oscure oligarchie e entità supernazionali. I primi a cedere la loro sovranità furono i più importanti popoli europei con la loro adesione alla UE e l’accettazione dell’Euro come moneta unica, sostanzialmente privata e usurocratica (21). Emblematico a questo riguardo l’incontro che, sempre nel 1992, avvenne a bordo del Britannia (panfilo della corona britannica), finalizzato ad avviare la svendita del nostro patrimonio industriale e finanziario. Ma per stritolare qualcosa di duro occorrono due ganasce: una l’abbiamo vista è quella della globalizzazione in tutte le sue sfaccettature, l’altra è quella della sovversione di ogni costume tradizionale e di ogni dato naturale; ovvero quei valori antropologicamente fondati che affermano distinzioni, identità, gerarchie e complementarietà. E’ bene ribadire che solo in questo humus di principi atemporali germogliano i semi del sentimento comunitario, i valori positivi - virili e materni - di ogni tradizione e una tensione anagogica dell’essere. Solo in una società ancorata, bene o male, a valori naturali, non attecchisce la mala pianta dell’individualismo, dell’egoismo, della perdita di sé e del tragico nichilismo dell’uomo globale che si vorrebbe modellare. Un uomo neanche più consumista o edonista, come era stato nei decenni passati, ma un soggetto massa depauperato, senza memoria del passato e senza impulsi verso il futuro, vivente in un “eterno” presente e in una solitudine “affollata”, controllato e facilmente manipolabile dall’apparato mass – mediale che lo sovrasta, deprivato delle proprie facoltà psicofisiche da tutto l’armamentario tecnologico che pervade oltremisura la quotidianità: un omuncolo, il vero volto dell’ultimo uomo nitzschiano. Se questa dovesse essere veramente la fine della storia e la nascita della dittatura democratica (democratura), il fascismo di oggi, per intima natura e indipendentemente dai numeri che può mettere in campo, appare refrattario ad ogni suggestione proveniente dal sistema; e solo da quel mondo può venire la spinta per rimettere in moto la storia. Paradossalmente proprio mentre il neofascismo sembra aver perso ogni peso politico-culturale l’antifascismo del sistema in tutte le sue componenti politiche, culturali e mass-mediali opera una metamorfosi e uno slittamento che lo porta nel campo del libertarismo radicale dei diritti civili, del nichilismo di massa e del sistema capitalistico,archiviando definitivamente ogni questione sociale. In questo contesto – e siamo ai nostri giorni - l’antifascismo si fa più parossistico. Si accentua il dispotismo del “politicamente corretto”, al punto tale che chiunque, in qualsiasi campo, esprima idee dissonanti dalla vulgata corrente è tacciato di Fascismo o razzismo nel modo più spregiativo e squalificante possibile (22). Non sappiamo se questo atteggiamento demonizzante nei confronti di un Fascismo, immaginato nelle menti più malate dei “padroni del discorso”(23), non abbia attirato verso una idea di Fascismo stesso le simpatie delle anime più irrequiete e ribelli, soprattutto i giovani più refrattari al clima sociale mefitico e mellifluo, teso a castrare ogni slancio virile e spirituale. Noi amiamo credere- e speriamo che sia così- nell’immagine metaforica del “magnete dell’Idea” che attrae la “limatura di ferro” di un’anima per affinità antropologica e razza dello spirito. Così mentre sparute forze che si richiamano al Fascismo, secondo diverse declinazione e accenti, tentano ancora la via dell’organizzazione politica, con risultati alla lunga modesti (vedi Forza Nuova e Casa Pound), si assiste al fenomeno di gruppi giovanili che si muovono su altri registri. Quindi assistiamo a gruppi che eleggono per patria una curva da stadio oppure un pub o un angolo di una piazza; luoghi che vengono occupati per rimarcare una appartenenza ideale e una estraneità al sistema innalzando soprattutto i simboli del Fascismo. A marcare le distanze non mancano neanche una certa prevalenza per la musica (in particolare la musica Oi), uno stile estetico differenziante e una pratica comunitaria, ad accentuare ancora di più una forte identità che riesce ad imporsi a dispetto di ogni azione repressiva (24). Il resto è storia dell’oggi; ma riteniamo che solo da questo Humus umano, distinto e distante dal sistema, possa riprendere la lunga marcia del nuovo Fascismo; soprattutto perché è inscritto nel proprio destino e nel dna di chi ad esso ancora si richiama.
IL NUOVO ANTIFASCISMO E LA NOSTRA RISPOSTA Prima di passare oltre chiediamoci il perché del parossismo antifascista nei termini in cui accennavamo poco prima. Come abbiamo visto, con il collasso del comunismo soprattutto sul piano ideologico e culturale (25), il Fascismo, comunque lo si voglia interpretare, è rimasto l’unico sistema di pensiero alternativo al mondo moderno e alle sue dinamiche. Se prima si poteva giocare sul Fascismo/destra in chiave anticomunista e sul comunismo/sinistra in chiave antifascista, in modo da stabilizzare il vecchio sistema su una base centrista o liberal democratica, oggi il sistema può essere configurato come un “tavolino a tre gambe”: la prima gamba è la globalizzazione economica e il mondialismo supernazionale, la seconda gamba attiene al politicamente corretto e alla morale libertaria dell’indistinto, la terza gamba è proprio l’antifascismo e l’antirazzismo vero o supposto. Ora se solo una delle tre gambe cede, si comprende che “il tavolino” non sta più in piedi. Se ciò avvenisse le ipotesi potrebbero essere due: o la ruota della storia comincia di nuovo la sua fase ascendente verso una rinata civiltà o si accelera il moto di caduta nell’abisso di una distopia dagli esiti imprevedibili e inimmaginabili. Qualunque sia il futuro che si prospetta noi dobbiamo sapere come e in che direzione muoverci, avendo ben presente che la via vale più della meta e sulla via, dentro di se, l’uomo di milizia combatte e vince la grande guerra santa, quella che si combatte entro di sé, premessa necessaria per vincere anche la piccola guerra santa contro il nemico esterno. Più prosaicamente il fascista del nostro tempo prima di uscire dal “bosco” dove non si è ritirato, ma è stato ricacciato, deve affilare le armi della formazione personale, ad un tempo fisica, spirituale, intellettiva e etica. Veniamo ora alle accuse che vengono mosse al Fascismo storico per squalificare quello attuale e chiunque ad esso si ispiri. Fondamentalmente le accuse che vengono mosse al Fascismo sono tre: il fascismo fu dittatura, violenza e razzismo. Premettiamo che non intendiamo cadere nella trappola del confronto storico con altri regimi (per esempio quello sovietico), per stabilire chi è stato più dittatoriale e violento dell’altro. Tra l’altro basta un minimo di sguardo disincantato per vedere che nessun sistema politico, quando vede seriamente messa in gioco la propria esistenza o i propri obiettivi vitali, si esime dal porre in atto tutti quei “ceppi” alle libertà personali e la violenza che, di solito, si attribuiscono solo alle dittature e ai sistemi totalitari (26). Premettiamo ancora che, di solito, quando si giudica un fenomeno o un evento storico-politico del passato bisognerebbe mettere sulla bilancia del contesto storico, da un lato i fatti “positivi” e sull’altro piatto quelli “negativi”. Ma noi rigettiamo questo metodo perché, come vedremo, il Fascismo non fu una parentesi istituzionale o un momento di crisi del processo democratico diretto verso le sorti “magnifiche e progressive”, ma fu l’irruzione nella storia dell’Italia e dell’Europa di forze ancestrali che manifestarono, nel divenire del momento storico, l’eterna lotta tra le due polarità antitetiche dell’essere e del divenire, dell’umano e del sovrumano, del logos e dell’hybris (27). Il Fascismo dunque va assunto o rigettato nella sua totalità, senza remore o distinguo: esso è la parte manifesta di quella storia che, come diceva Evola, si svolge dietro le “quinte” tra le forze dell’oscuramento dello spirito e quelle della luce. Non a caso il conflitto metafisico che si manifestò negli atti del Fascismo (ma a questo punto dovremmo parlare di Fascismi) fu ben percepito dai più eminenti tradizionalisti del tempo, i quali - primi tra tutti Evola - vollero emblematicamente far dono al Duce, quale pegno di lotta e vittoria, di un fascio etrusco appena riportato alla luce in quegli anni. In quest’ottica il Fascismo è stato solo l’ultima manifestazione temporale della Tradizione, in una catena ininterrotta che, pur nel generale decadimento verso il Kali Yuga e la chiusura del ciclo di civiltà che stiamo vivendo, si è incarnata periodicamente nella storia per riaffermare in forme diverse, ma nella stessa sostanza, i principì organici gerarchici e anagogici che formano i pilastri di una visione tradizionale. Una catena che va dalle civiltà primordiali indoeuropee, alla Grecia dorica, alla Roma prisca e imperiale, alla rinascita susseguente del principio imperiale, al medioevo dei monaci guerrieri e della cavalleria, all’ecumene della cristianità europea per quattrocento anni in lotta contro la minaccia turco-islamica, alle lotte antigiacobine e legittimiste, fino alle trincee della prima guerra mondiale e appunto al Fascismo storico. Oggi il nuovo Fascismo, qualunque denominazione si vorrà dare ad esso e in qualsiasi forma si andrà a manifestare, è un ulteriore anello di questa “catena” storica, destinata a non interrompersi mai; così come permanentemente vi saranno manifestazioni della sovversione in tutte le sue forme possibili. Se ne deduce – qualora fosse ancora necessario sottolinearlo – che siamo parte di un conflitto che ha tutti i connotati di una lotta metastorica e metafisica. Quindi il Fascismo fu una rivoluzione, non nel significato sovversivo corrente, di una presa del potere con il solo risultato di accelerare il moto di caduta verso il basso ma, secondo una corretta etimologia, come un ritorno alle origini, ad una condizione primigenia. A parte il fatto che non si è mai visto una rivoluzione realizzarsi nelle urne democratiche o con i plebisciti, l’uso della forza con il ricorso alla violenza è giustificato dallo stato di guerra che ogni rivoluzione instaura con il sistema che si vuole abbattere e i nemici che si trova a combattere. Anche in questo caso non accettiamo lezioni da chicchessia, non facciamo la conta dei morti, anzi li rivendichiamo, e non facciamo alcun confronto giustificativo. In questa ottica si comprende anche la necessità dell’entrata in guerra, in un momento in cui si arriva allo scontro decisivo, non solo tra due blocchi politici ma, in chiave metastorica, tra due visioni del mondo irriducibili. In caso contrario - ovvero nel caso di una opportunistica neutralità - la spinta propulsiva rivoluzionaria si sarebbe arenata e involuta in un sistema destrorso e paternalistico, destinato a sparire, come infatti è avvenuto in Spagna e Portogallo. Invece, a dispetto della sconfitta, proprio dalle fiamme di Berlino e dall’epopea della RSI, simboli ultimi del sacrificio della milizia tradizionale nella lotta anti - sovversiva, sorse il mito di un eroismo di fede e fedeltà, che rende orgogliosi le nuove generazioni che ad esso si ispirano; giovani sempre più animate da uno spirito refrattario e non conforme, che orienta psicologicamente e da senso all’azione del nuovo Fascismo. In ogni caso, ogni rivoluzione è pur sempre una cesura temporanea, la quale prima o poi, raggiunti gli obiettivi prefissati, lascia il passo ad una nuova normalità politico-istituzionale e socio-economica. Non possiamo sapere quale sarebbe stata l’evoluzione di un Fascismo vincente; ma chi scrive, anche alla luce della presente riflessione dottrinaria, ama immaginare uno Stato organico retto da una aristocrazia dell’intelletto e dello spirito (28), all’interno della quale riconoscere un primus inter pares in funzione di rappresentante supremo della Nazione e dello Stato (29). Ad un grado inferiore, l’ implementazione di un sistema corporativo e amministrativo a tutti i livelli territoriali, per attuare la partecipazione responsabile di ogni soggetto sociale sia alla gestione dell’amministrazione pubblica che alla vita economica, nella triplice funzione di cittadino, produttore e fruitore di beni e servizi; armonizzando nello stesso tempo tutti i settori economici, nel bene supremo dello Stato e della compagine sociale. Se ll capo dello Stato si trovasse ad incarnare anche ai massimi livelli l’autorità etico -spirituale si avrebbe il perfetto quadro della società organica tradizionale, secondo la classica triripartizione tra “oratores”, “bellatores”, “laboratores”; cioè l’unità gerarchica con al vertice l’autorità spirituale, custode e garante dei valori e dei principi fondanti, anche in chiave simbolica e rituale; quindi in subordine la funzione politica, anche nella sua articolazione armata (bellatores) e alla base l’organismo produttivo popolare reificato in una milizia del lavoro (laboratores). In questo quadro dottrinario, il concetto di “Stato Nazionale del Lavoro” verrebbe inglobato e fatto evolvere verso la forma dello Stato “Organico-Tradizionale” in cui il lavoro, in senso lato, è funzione e non fine della comunità nazionale. Sotto altro riguardo, potremmo immaginare l’avveramento della profezia di Nietzsche secondo la quale: “sorgerà una nuova, ferrea aristocrazia, una specie di Ordine che dominerà su di una classe lavoratrice benestante come la borghesia” (29 a) Ma onde evitare utopiche fughe in avanti, occorre precisare che qualsiasi forma istituzionale risulterebbe un guscio vuoto senza la sostanza umana corrispondente; ovvero nel nostro caso senza la creazione prioritaria dell”uomo nuovo - così come l’abbiamo prima delineato – attraverso un’azione educativa di massa volta, etimologicamente, (30) a far emergere il rango spirituale di ciascuno, l’etica e i valori derivanti dalla legge naturale e il senso patriottico dell’appartenenza ad una comunità nazionale e ad una patria (terra dei padri), ad una storia, ad una cultura e ad un determinato ceppo sanguigno. E veniamo all’accusa più bruciante quella che viene profferita senza ammettere obiezioni: l’essere il Fascismo foriero di razzismo, soprattutto in ragioni delle leggi razziali e antiebraiche del 1938. Ebbene non abbiamo nessuna difficoltà a dichiararci fautori di una dottrina razziale che, però, non ha nulla a che vedere con il razzismo “zoologico”, cioè quello unicamente basato sul colore della pelle e sui caratteri fenotipici, che caratterizzò per lungo tempo il razzismo di matrice anglosassone (31). La dottrina razziale che rivendichiamo è quella elaborata da J. Evola che, dopo aver distinto le razze del corpo e dell’anima (l’indole psichica), pone l’accento sulla razza dello spirito; quella che maggiormente dà l’impronta ad una specifica civiltà, alle particolari forme culturali e nel complesso alla visione del mondo che ne scaturisce; nel nostro caso caratterizzata da una tensione verticale verso la trascendenza. E’ bene precisare che la razza,in senso generico, non è qualcosa di statico ma è assolutamente dinamica: una buona razza dello spirito (corrispondente ad una determinata civiltà, ad una idea dell’essere e a un retaggio) va a influenzare positivamente i livelli inferiori della razza dell’anima e a ricaduta, probabilisticamente, della razza del corpo; viceversa è probabilisticamente possibile che una buona razza del corpo possa essere l’humus per valorizzare, attraverso l’educazione e un ambiente sociale positivo, prima la razza dell’anima e da questa la razza dello spirito. Quando noi ci opponiamo istintivamente ad una invasione allogena scriteriata e senza senso, al di là di ogni ragionamento sociale, politico o economico - assolutamente secondari dal nostro punto di vista - ciò che agisce nel profondo è la voce inconscia di una identità razziale. Anche in questo caso potremmo usare la metafora del magnete e della limatura di ferro: in questo caso il magnete è la razza dello spirito e la limatura è l’uomo di razza. Va da sé che questo criterio dottrinale vale per tutte le razze della specie umana: quelle palesi e quelle che potrebbero teoricamente formarsi per isolamento genetico. Quindi chi è portatore di una sana dottrina razziale riconosce il valore delle altre razze che si sono sviluppate nei propri territori di elezione, secondo una propria indole culturale e nel solco di una propria storia (32). In quanto poi ad una supposta superiorità di una razza sull’altra, ci vorrebbe un criterio univoco di valutazione, reso impossibile proprio dai differenti criteri di valore delle diverse culture. In ogni caso e in modo pragmatico, la storia e i suoi esiti si sono incaricata di creare una gerarchia tra le razze; anche se, a giudizio di chi scrive, scevro da ogni moralismo e dal senno di poi, non sempre le componenti razziali - segnatamente quelle che potrebbero ancora oggi apparire al vertice dell’ecumene umana - si sono alla lunga mostrate degne della loro apparente (fenotipica) fisionomia razziale. E sempre la storia potrebbe dimostrare come sia possibile ribaltare qualsiasi gerarchia razziale qualora intervenga una astenia spirituale foriera di ogni altra forma di involuzione. La decadenza di ogni civiltà si accompagna sempre all’involuzione della razza dello spirito che l’aveva espressa, e gli esempi non mancano. In altri termini, al giorno d’oggi, un hezbolla semita mostra di essere di una razza dello spirito superiore a quella di uno svedese caucasico, modernamente sfaldato e decadente (33) Quest’ultimo inciso richiama un altro aspetto della fenomenologia razziale e su questo aspetto si basa l’attacco sovversivo al principio razziale. Con il mescolamento razziale che si va auspicando e praticando, il risultato finale non è l’Evoliano “lussureggiamento delle razze” che si potrebbe avere da una minima contaminazione mirata, la quale potrebbe rigenerare aspetti razziali decadenti di un determinato popolo ma presenti nei popoli in cui si viene a contatto (ipotesi, questa, oggi assolutamente inattuale e di valore meramente accademico). Un esempio per tutti: il lussureggiamento di cui potrebbero giovarsi i popoli europei dal contatto con il profondo spirito religioso che caratterizza il mondo islamico ed assolutamente in crisi nei popoli occidentali. Al contrario, l’esito finale del mescolamento indiscriminato e disordinato di culture e modelli esistenziali troppo distanti, è inevitabilmente un totale sradicamento, la perdita dell’identità più profonda; cioè l’incapacità di avere una coscienza di sé che si riflette e si riconosce in un ambiente urbano o naturale elettivo, in una propria cultura materiale e immateriale e infine nei propri simili. Ciò vale sia per le popolazioni che emigrano che per quelle che accolgono. infatti sul piano pratico si avrebbe la formazione di quel soggetto planetario sradicato e uniformato totalmente: il consumatore e il nichilista duttile e programmabile secondo le dinamiche globaliste, in ossequio alla ragione economicistica e alle parole d’ordine del nuovo ordine mondiale che si va vagheggiando. Quindi la dottrina razziale che avvaloriamo è una dottrina “differenzialista” che pone le basi per ogni altro genere di differenze -culturali, religiose, antropologiche – che riteniamo essere una ricchezza del genere umano contro ogni deriva omologante. In ogni caso, se i processi di omogeneizzazione razziale dovessero arrivare al termine, noi siamo convinti che una volta sparite “le razze degli uomini”, prima o poi emergerebbero gli “uomini di razza”; quelli destinati a dar vita ad un nuovo ciclo di civiltà oltre il Kali yuga. Ci siamo dilungati sulla dottrina razziale per dimostrare che non siamo noi i razzisti, intesi secondo la vulgata corrente, ma lo sono proprio quelli che discriminano – negandole e depotenziandole- tutte le razze dell’ecumene umana. Ma questo inciso vale più per chiarire le idee ai nuovi fascisti che per giustificarci di fronte alla canea antifascista; anzi chi scrive pensa di rivendicare il termine razzista, sic et sempliciter, senza nulla concedere al nemico. Altra questione che si rinfaccia al Fascismo è quella delle leggi razziali del 1938 e più in generale la politica anti ebraica dei governi e dei movimenti fascisti della prima metà del ‘900 nonché del cosiddetto olocausto. Anche in questo caso dobbiamo fare appello all’acuirsi del processo rivoluzionario; con l’aggravante che l’ebraismo è stato sempre un corpo estraneo a qualsiasi altra civiltà in ragione del mito del “popolo eletto”, che fa di esso un “sacerdote” di tutta l’umanità, da redimere e da “guidare” in attesa della venuta del Messia. Probabilmente da questo mito religioso, radice della forte identità ebraica, è scaturita la propria estraneità da ogni altra popolazione in cui si sono insediati; prontamente contro cambiata dalla diffidenza delle popolazioni e delle reggenze locali. E’ da riconoscere che nell’ebraismo è presente una dottrina esoterica interna, legittimamente tradizionale (Kabbalah), ma il fatto religioso ha contribuito sicuramente alla conflittualità secolare, ben conosciuta, con le società cristiane in passato e oggi, per motivi politici, con quelle islamiche. Conseguentemente, per indole o costrizione, hanno sempre privilegiato alcune tipologie di attività legate alla mercatura e alle attività finanziarie, fino ad oggi, ovvero fino alla corruzione liberal - capitalista, proibite, non comprese o rigettate dalle genti cristiane, specialmente quelle cattoliche. Nel tempo e fino ai nostri giorni, le lobbies ebraiche hanno così potuto acquisire un enorme potere; se a questo si aggiunge l’atavico o necessitato cosmopolitismo, il senso di libertarismo affaristico e la superficiale aderenza alle altre culture in cui sono insediati, si comprende come l’ebraismo sia stato il “lievito” della modernità, della liberal-democrazia, del comunismo internazionalista trotskista e del capitalismo apolide. Anzi, oggi più di ieri - ma non da sole - troviamo le lobbies ebraiche in tutti i gangli che reggono il sistema a livello mondiale: oltre che nella finanza, nelle grandi holdings economico-produttive, nell’informazione, nel cinema, nei networks televisivi e informatici. Ingranaggi perfettamente rifiniti culturalmente e antropologicamente per essere conformi ad una macchina (il sistema globale odierno) che procede e si accresce per autopoiesi (34). A questo punto, allora, facciamoci una domanda: le leggi razziali furono del tutto ingiuste e eccessive? La risposta è no. Nel clima di guerra epocale che montava, i potenziali nemici interni andavano neutralizzati in qualche modo. D’altra parte fin dall’inizio della guerra una sorte non tanto diversa, con internamenti e discriminazioni, toccò ai cittadini statunitensi di origine nipponica o tedesca e ai cittadini italiani e germanici residenti nel Regno Unito (35). Probabilmente sarebbe stato più opportuno trovare altre forme di neutralizzazione, verosimilmente selettive, cominciando prima dalle guide politiche e culturali del mondo ebraico, tra quelli che si mostravano più ostili al Fascismo e i potenziali sabotatori “dietro le linee”. Peraltro dobbiamo riconoscere che la stessa campagna di educazione razziale rivolta agli italiani fu, per la maggior parte, condotta nel segno di un razzismo zoologico lontano dalla dottrina evoliana della “razza dello spirito”; e questo fu un errore che denotò la mancanza di una corretta dottrina razziale. Sotto altro aspetto non dobbiamo dimenticare che, come riportava il Daily Express, il 24 maggio del 1933 , la comunità ebraica aveva dichiarato guerra al nazionalsocialismo prima ancora che questi incominciasse la politica di repressione antigiudaica (35a). Di conseguenza, con la creazione dell’asse Italia – Germania del 1 novembre 1936, la comunità ebraica internazionale diventava di fatto nemica anche dell’Italia fascista. Una di quelle premesse – e non la meno importante – della guerra epocale che si annunciava. La seconda domanda riguarda l’olocausto: fu genocidio? La nostra risposta è affermativa: non si può negare che nel Terzo Reich vi fu la precisa volontà di espellere gli ebrei dall’Europa. Ma l’ allocuzione di “soluzione finale”, assurta a mito sacrificale, redentivo dell’umanità, come il sacrificio di un “Cristo collettivo”, va intesa, più prosaicamente, come ultima soluzione dopo il fallimento di altre proposte meno cruenti, quali il favorire le emigrazioni dall’Europa e dalla Germania, la creazione di una enclave ebraica in terra palestinese, fino all’ipotesi di una deportazione di massa nel Madagascar. Per quanto poi riguarda lo scopo secondario (o primario) degli internamenti (manodopera in primis ed eliminazione dei soggetti meno adatti), la questione del numero di ebrei eliminati, le modalità applicate, la documentazione storica in merito e quant’altro, esiste una vastissima letteratura revisionista (e non negazionista). Il problema sta nel fatto che questa letteratura storica non è mai confutata attraverso un confronto e un dialogo socratico ma è semplicemente condannata in blocco insieme ai suoi autori, fino alla messa all’indice, alla condanna penale e alla carcerazione di questi ultimi (35b). Il che legittima ogni dubbio in merito alla narrazione olocaustica e chiama ogni intelletto in ordine alla difesa e al sostegno degli autori colpiti dalla “damnatio”. E non si tratta di negazionismo, anzi confermiamo che fu tecnicamente un genocidio e come tutti i genocidi riprovevole. Ora, nella storia, l’olocausto ebraico non è stato l’unico né l’assoluto: si ricorda ogni tanto quello armeno; ma abbiamo avuto anche genocidi per motivi religiosi, come le reciproche mattanze tra cristiani e saraceni o le persecuzioni di catari e albigesi; per volontà di dominio, rapina e sete di potere, quali i genocidi dei popoli amerindi e dei nativi nord americani; per motivi politici – ideologici, e la storia del comunismo ce lo conferma; per non parlare degli etnocidi che – accade nella contemporaneità- uccidono le culture particolari e lasciano i popoli come larve vuote. In questo quadro, scevri da ogni caduta moralistica e ribadendo la contrarietà ad ogni tipo di genocidio - non degno dell’uomo di milizia- affermiamo che quello a danno degli ebrei è, alla fine, non più rivoltante di altri genocidi anche se commesso in nome di un principio razziale mal digerito e peggio applicato. Un errore e una colpa fatale, che ha oscurato, peraltro, il valore dell’epocale lotta dei Fascismi europei per l’instaurazione di un nuovo ordine nazional rivoluzionario, in difesa di una civiltà, quella europea, dai connotati millenari e da una fisionomia spirituale incompatibile con quella ebraica, come è incompatibile con quella dei popoli annichiliti dal materialismo economicistico e dall’individualismo nichilista sradicante. Dopo questo excursus sugli eventi che, dal dopoguerra in poi, hanno determinato la storia del neofascismo e sui tratti evolutivi e involutivi che lo hanno caratterizzato, veniamo alla classica domanda sul che fare. Ma prima ancora è necessario focalizzare un principio che traspare da tutto quanto affermato finora, che ci rende refrattari alla democrazia, così come è, nella sua essenza e in tutte le sue forme e specificazioni particolari (liberale, socialista, ecc.), che non ci possono interessare. Partiamo sempre da dati dottrinari: se rispetto alla dimensione politica i democratici non sanno andare oltre una assialità orizzontale dividendosi in destra, sinistra e centro con tutte le risibili posizioni intermedie, la concezione tradizione, anche nella specificazione politica, appare verticale e unitaria in un continuum tendente alla dimensione trascendente. Insomma anche a voler considerare una possibile azione politica i diversi e opposti orientamenti assiali (concettualmente definiti), ci rendono estranei e incongrui al gioco democratico dei numeri; ovvero della quantità a detrimento della qualità. Quindi ogni velleità elettoralistica può essere solo un’azione tattica per un migliore riposizionamento e per una maggiore agibilità politica; ma dobbiamo sempre avere la lungimiranza di comprendere che la gestione del potere in ambito democratico non è la rivoluzione auspicata: la democrazia va abbattuta in quanto irriformabile. Dopo questa digressione non peregrina torniamo alle nostre considerazioni pratiche; non senza aver prima ricordato come tonico spirituale e quale premessa introduttiva, il motto di Guglielmo I° d’Orange detto il taciturno: Non c’è bisogno di sperare per intraprendere né di riuscire per perseverare
CHE FARE? “Tutto ciò che i buoni chiamano male deve confluire per far nascere una verità: fratelli siete abbastanza cattivi per questa verità?” F. Nietzsche: “Così parlò Zarathustra”
Non avendo una risposta -sarebbe patetico il contrario- che sia al tempo stesso realistica, risolutiva e aggregante: essa sta nella realtà in atto. Oggi il mondo che, celiando o meno, si richiama al Fascismo è frantumato in una miriade di micro - realtà: alcune più grosse e strutturate hanno tentato l’inserimento nella politica nazionale abbacinate da un consenso che, alla prova dei fatti, è risultato effimero: più mediatico che reale; altre realtà si sono coagulate in base alle spinte volontaristiche più diverse: ricreare comunità militanti o semplicemente cameratesche, puntare su uno stile di vita non conforme o sulla volontà di essere presenti e attivi in un determinato territorio, coltivare una cultura alternativa, assecondare i movimenti protestatari che periodicamente emergono nella società e così via. Il comune denominatore che unisce le varie realtà e i singoli che le animano è ovviamente il legame con un passato - e un immaginario di tale passato - che ci ha lasciato opere sociali ineguagliate; ma anche l’ orgoglio di appartenenza ad una storia e ad una civiltà, l’idea di unità di popolo disciplinata nello Stato Nazione, l’aderenza religiosa alla legge naturale. Ora, non è detto che tale frammentazione sia necessariamente negativa: si sono liberate e attivate energie, e si sono moltiplicate esperienze che - è sperabile - possano un giorno fare massa critica nel contrasto al sistema; quasi una sorta di “solve et coagula” alchemico; più prosaicamente, per dare eventualmente l’ultima spallata al sistema che va collassando. Su questo tasto è meglio essere più precisi e propositivi. Noi riteniamo che, nella situazione presente, ogni tentativo di proporre agli italiani e agli europei una politica coerente con i nostri postulati dottrinari e rivoluzionari sia velleitario e fallimentare. Andare a parlare di Europa delle patrie contro la UE, di uscita dalla NATO, di sovranità monetaria contro gli oligopoli finanziari, di un sistema economico partecipato e socializzato, di ecologia profonda, di difesa del tessuto produttivo nazionale contro le mire delle multinazionali e delle logiche globaliste, di difesa di una società ordinata secondo valori umani naturali contro la deriva nichilista di una società cosiddetta fluida e libertaria, mettere in guardia contro il grande reset e il transumanesimo che ci viene prospettato; questo o quant’altro sarebbe destinato a cozzare contro il muro della disinformazione e del lavaggio del cervello che gli apparati propagandistici del sistema mettono in atto da decenni per il controllo delle masse inebetite. Al di là della sensatezza di ogni singola proposta scatterebbe subito, come un riflesso condizionato, la pregiudiziale antifascista. E per certi versi avrebbero ragione da vendere: il nostro obiettivo ultimo non è la riforma del sistema ma, è bene ribadirlo, il suo abbattimento. Nella stessa misura, andare a denunciare le manipolazioni genetiche in atto di virus, batteri e insetti da utilizzare nei futuri scenari di guerra oppure la cosiddetta “ingegneria terrestre” in grado di condizionare attraverso particolari aerosol l’irraggiamento solare e quindi il clima; più in generale parlare di poteri sovranazionali (il deep state) che controllano con le buone o con le cattive governi e parlamenti, non risparmierebbe nessuno dall’accusa di complottismo e Fascismo (...interessante l’accoppiata … no?). D’altra parte oggi, nei paesi occidentali assistiamo ad una generale disaffezione dalla politica: il “partito dell’astensione” dal voto è ovunque il partito maggioritario e le compagini politiche che si avvicendano ai governi sono, nel giro di breve tempo, oggetto di discredito e disprezzo. Ma guai a proporre un diverso sistema di selezione del ceto dirigente (fosse anche con i bussolotti o più seriamente, ma altrettanto provocatoriamente, con i curricula culturali e giudiziari). Ormai, nei cervelli delle masse, trapanati, da decenni, dai miti della libertà individuale, del governo dal basso e dall’ egualitarismo democratico, non vi è più alcuna capacità logica e conseguenziale, ma solo una contraddizione che li lega ad un sistema, più immaginato e desiderato, che non a quello che realmente esso è. Quindi, il corto circuito da attuare è far sì che il nostro popolo conosca il Fascista e la sua prassi prima ancora che il Fascismo in sé. Pertanto, a scanso di ogni equivoco impolitico, dobbiamo sempre mantenere la presenza sul territorio e il contatto con i nostri connazionali, secondo le modalità e i campi di intervento che ogni comunità militante riterrà opportuni; con spirito di servizio, calati nella realtà che ci circonda ma senza mai perdere di vista i postulati dottrinari e politici della nostra rivoluzione. Insomma, essere tanto fermi nei principi quanto duttili nell’azione. A questo punto si pone il problema di quale debba essere la fisionomia del militante. Al riguardo le stesse realtà organizzate di cui dicevamo prima possono diventare palestre dove formare l’uomo differenziato tanto auspicato. Però, restando nella metafora dell’allenamento spirituale, vi sono “palestre” più o meno attrezzate e “istruttori” più o meno bravi; quindi ci corre l’obbligo di far ricorso a due maestri del pensiero: all’Evola di “Cavalcare la Tigre” e ad Junger del “Trattato del ribelle” dove elabora il concetto del “Passaggio al Bosco”, per delineare le possibili vie lungo le quali si forma e agisce l’uomo differenziato. Entrambi i testi furono elaborati nel 1951(36) e di fronte all’involuzione politica etica e spirituale che sembrava inarrestabile, fornivano le indicazioni per una resistenza strategica. Evola, rivolgendosi a quanti mostravano una volontà attivistica ricorse all’immagine - desunta da una antica lezione spirituale cinese - del sistema come una tigre: invincibile se la si affronta direttamente ma messa in condizione di non nuocere verso di sé, se cavalcata fino al sopraggiungere dello sfinimento, allorché l’uomo differenziato che ha resistito interiormente e non si è lasciato travolgere dallo spirito del tempo può entrare in azione. Junger sostanzialmente si pose lo stesso problema, ma ponendo più attenzione alla tenuta interiore di fronte alla minaccia del nichilismo. In un paesaggio decadente e contaminante, propose il “passaggio al bosco” dell’estraneità e dell’irriducibilità al mondo moderno, dove, al riparo da ogni contaminazione, coltivare e preservare il proprio essere differenziato. Ma in cosa si sostanzia l’essere differenziato? Proviamo a desumere le indicazioni di massima dai principi tradizionali e naturali. Anzitutto “Il corpo deve essere il tempio dell’anima”; ovvero va curato e sostenuto affinché sia il supporto più degno dello spirito che vi alberga. Ben vengano dunque una sana e sobria alimentazione, l’astensione da sostanze che alterano la mente e l’anima, la pratica di attività sportive, in special modo quelli di squadra che rinforzano il senso comunitario e cameratesco, e le arti marziali; queste ultime in quanto discipline che coinvolgono l’essere nella sua totalità. Non vanno trascurate neanche le escursioni e i lunghi percorsi negli ambienti naturali dove, come nuovi vanderwogel,(36a) unire lo spirito di avventura con l’amore per la natura e la propria terra. Va da sé che la cura del corpo implica anche una igiene mentale fatta di sobrietà, controllo delle emozioni, una bassa soglia del piacere e tutto quanto contribuisca a formare un nobile profilo. L’atteggiamento spirituale, a sua volta, deve essere improntato ad una religiosità scevra da devozionismo passivo. A tal proposito occorre precisare che religiosità non vuol dire necessariamente adesione ad una qualche forma di religione ma coltivare i principi della legge naturale per una sana conduzione della propria vita, con l’applicazione possibile dei valori tradizionali che rimandano nella prassi ad una etica dell’onore, della fedeltà e della lealtà; ed infine nel praticare lo spirito comunitario, sublimandolo nei momenti cerimoniali come nei Solstizi, nelle commemorazioni dei nostri caduti di ieri e di oggi, nel ritorno al tempo qualitativo delle feste e delle ricorrenze. Altro elemento che caratterizza l’essere differenziato è la “volontà di potenza”. Essa è Desunta dal pensiero di Nietzsche ed è spesso equivocata in quanto associata all’espansionismo produttivo, al dominio crescente della tecnica e alla pervasività demonica delle pratiche finanziarie. In tal caso ci troviamo di fronte ad una volontà di potenza orizzontale, avviluppata nella materialità. Al contrario, la volontà di potenza che auspichiamo è di tipo anagogica, verticale, volta a dare potenza all’essere, a formare il miles della Tradizione votato a costruire una società tradizionale moderna (37). Lo spirito di milizia, nella prassi si sostanzia in atteggiamenti virili, disciplinati, rituali, camerateschi, mai remissivi e rinunciatari, anche di fronte ai pericoli esterni, sempre da tener presenti nell’agone politico. Per i democratici e gli antifascisti tali atteggiamenti, sono la prova della violenza connaturata all’essere Fascisti. Hanno perfettamente ragione perché per i sinceri democratici e antifascisti lo stile fascista è un pericolo, tanto fascinoso quanto atterrente. La loro “moralina” borghese li rende tanto accoglienti e tolleranti verso tutte le bassezze umane quanto urticati e intolleranti verso ogni principio superiore. Essendo debilitati e conformi allo spirito del tempo sbracato e miseramente edonistico, vedono ogni slancio verso l’alto e il sublime e ogni azione conseguente come un atto di violenza contro la loro misera essenza umana e psichica ( dire spirituale sarebbe troppo). Non possiamo certo dar loro torto. L’ultimo carattere dell’uomo differenziato attiene alla cultura in chiave antropologica. Se oggi il paradigma mentale dell’uomo moderno è definito dall’utile e dall’edonismo, occorre sostituirlo con il paradigma della bellezza che fu la chiave di volta della filosofia e della civiltà greca. Per la grecità classica l’idea di bellezza non era una percezione soggettiva ma qualcosa di oggettivo, regolata dalla “misura” e dall’armonia”. Tutto ciò che non rispecchiava questi canoni era “hybris”, cioè smisurato, tracotante, senza limiti e forma, quindi “brutto”. L’idea di bellezza dal piano delle arti veniva poi traslato a tutti gli altri ambiti della vita pubblica e si faceva etica (est-etica), abito mentale, fattore educativo e valoriale. E infine un atteggiamento religioso verso la natura e il cosmo dove maggiormente appaiono riscontrabili i principi di un ordine superiore e armonioso. La stessa bellezza che riscontriamo nella natura e nelle sue leggi, venendone a contatto, hanno l’effetto di riverberarsi nel nostro microcosmo umano e dare senso al nostro essere qui, ora e perché. Per concludere una ultima notazione di tipo operativo. Avendo a punto di riferimento la triplice polarità della nostra essenza psicologica e spirituale (volontà di potenza, sensibilità estetica, religiosità metafisica) essa va coltivata attraverso una prassi di informazione, formazione e azione. Infatti non ci può essere formazione senza la consapevolezza e quindi lo studio e la conoscenza in senso lato e secondo le inclinazioni personali. Nessun ambito del sapere: dalla filosofia alla storia, dalla letteratura all’epistemologia scientifica, deve essere lasciato al riduttivismo e alla mistificazione della cultura dominante, tardo illuministica, che ci ammorba. Nella stessa misura la formazione conseguita diventa sterile se non si sostanzia nell’azione e nella militanza attiva. A tale scopo le nostre sedi, le nostre famiglie, le comunità cameratesche devono diventare “abbazie” di formazione etico- spirituale e politica; e al tempo stesso “capisaldi” di attività lanciate all’esterno per affermare che i Fascisti non hanno mai deposto le “armi”; nella certezza che i simili saranno attratti dai simili, marcando la differenza e l’estraneità dal mondo moderno. Prima di chiudere questa parte, ancora un accenno al problema della formazione, con particolare riferimento a quelli destinati ad essere i capi delle comunità militanti di cui dicevamo. E’ bene precisare che oltre e al di sopra della cultura libresca- in senso lato e, come detto, pur essa necessaria e propedeutica, si situa la “sapienza”. In questo contesto, sarebbe assolutamente fuori luogo alludere alla sapienza trascendente o esoterica. Facciamo piuttosto allusione ad una “sottospecie” della sapienza,ovvero alla “saggezza”, una forma di conoscenza formativa che prescinde dal metodo razionale ma si acquisisce soprattutto attraverso l’esperienza, lo studio, l’intuito illuminante, la riflessione e l’istinto; per poi riflettersi sul carattere, sulle qualità personali, sulle capacità di iniziativa e sull’equilibrio interiore. Riteniamo che queste siano le doti che danno ai capi autorevolezza e riconoscimento; attuando quell’“essere esempio” che è l’attributo maggiore di ogni capo. In sostanza si tratta di attuare in embrione quella Società Organica: gerarchica, funzionale e comunitaria, che la Milizia di oggi prepara per il Fascismo di domani (38).
SECONDA PARTE Nelle pagine precedenti, dopo avere inquadrato le vicende del Fascismo e la sua dottrina all’interno del pensiero tradizionale e dopo aver ripercorso il neo Fascismo del dopoguerra in rapporto con il nuovo sistema democratico e con le velleità delegittimanti dell’antifascismo, abbiamo cercato di delineare la fisionomia dell’uomo “differenziato” e i criteri organizzativi di resistenza al sistema, sulla scorta delle esperienze culturali e politiche che hanno segnato la storia del neofascismo dal dopoguerra ad oggi. Tuttavia, tutto ciò non basta se non si elabora nel contempo un progetto complessivo di alternativa alla democrazia e al globalismo economicistico che la sostanzia. Mettiamo subito le mani avanti. I paragrafi che seguiranno potranno sembrare un mero esercizio intellettuale, completamente avulsi dalla realtà in atto; probabilmente contestabili e emendabili in più punti; sicuramente - lo ammettiamo - frutto di una mentalità visionaria. Ma questo ultimo aspetto è quello che maggiormente ci conforta perché, etimologicamente inteso, il termine “visionario” rimanda ad una visione politica rivoluzionaria complementare alla visione dell’uomo e della società tradizionale di cui siamo immeritatamente portatori, anch’essa frutto di una mentalità, appunto visionaria. Ciò detto, quando si affrontano i problemi economici noi riscontriamo la frequenza di due errori speculari e paralleli: il primo, in cui solitamente cade il pensiero social – democratico, ma anche quello conservatore, è quello di poter porre rimedio alle miserie e alle ingiustizie del sistema capitalistico nella sua attuale versione globalista, con una azione riformatrice, anche profonda, ma che non metta in discussione l’impianto politico e culturale in cui si radica e prospera il capitalismo, ovvero il liberismo e la democrazia. Il secondo errore, di cui è affetta una certa destra che si autodefinisce sociale, con o senza esplicito riferimento all’esperienza del vecchio MSI se non del ventennio, è quello di credere che basti un nuovo sistema economico, da imporre attraverso una serie di riforme per dar vita automaticamente ad un nuovo modello di Stato e società. Niente di più riduttivo. Noi invece crediamo che la trasformazione dello dello Stato e dell’economia debbono essere due aspetti inscindibili di un unico processo rivoluzionario. Nel nostro caso si tratterebbe di una rivoluzione restauratrice che ripristini un ordine originario; ovvero – ribadiamo - espressione di una particolare concezione dell’uomo e della società che rintracciamo nella Tradizione metafisica occidentale, la quale, in varia misura, ha segnato la cultura e l’identità dei popoli europei. Il vero sforzo di immaginazione e progettuale è riuscire a calare i principi e i valori di riferimento nella realtà storica che ci troviamo a vivere e ad affrontare, rintracciando anche i percorsi risolutivi per renderli agenti e fattori di trasformazione rivoluzionaria della società. Noi cominciamo a provarci
IL SISTEMA DOMINANTE E’ LA CONTRAFFAZIONE IMPERIALISTA DELL’IDEA DI “IMPERIUM” ESSO NON SUPERA LE IDENTITA’ MA LE DISSOLVE NELL’OMOLOGAZIONE PLANETARIA NON VA OLTRE IL TEMPO MA ANNULLA NELL’ETERNO PRESENTE IL PASSATO E IL FUTURO NON TRASCENDE LE FORME DEL MONDO MA RIDUCE TUTTO ALL’INFORME DEL “DEMOS” IN QUEST’OPERA DI DECOMPOSIZIONE UNA OLIGARCHIA APOLIDE CONCENTRA IN SE’ UN ENORME POTERE NELL’ILLUSIONE DI ASSUMERE UNA VERA “POTENZA” USUROCRAZIA La caratteristica saliente dell’economia mondiale moderna è la sua finanziarizzazione. che ha assunto la forma ipertrofica di sistema usurocratico proprio in relazione alla pratica del prestito ad interesse. Nello stesso tempo e in modo conseguenziale, l’usurocrazia va a condizionare tutto il sistema produttivo, fino a snaturarne la funzione, la quale non è altro che quella di creare beni e servizi a beneficio delle comunità umane. In sostanza si assiste all’inversione di ogni sano rapporto funzionale tra finanza e produzione in quanto non è più la finanza ad essere al servizio dell’apparato produttivo (raccolta di capitali d’investimento) ma è tutto l’apparato produttivo che appare sempre più condizionato e dominato dall’esigenza di profitti puramente contabili, cioè monetari. Tale degenerazione si è sviluppata, nel clima liberal – democratico dei nostri tempi, dalla convergenza di due assunti ideologici, propri di una visione borghese, impregnata di individualismo antisociale e di di utilitarismo amorale, che possiamo riscontrare nel pensiero e nelle azioni dei “signori” dell’alta finanza, che dettano l’agenda alle nazioni avanzate. I due assunti di cui sopra sono, dunque, i seguenti: -la virtualità del libero mercato mondiale - il monetarismo come criterio economico Se il primo punto attiene più in generale alla globalizzazione economica (cui specificheremo in seguito), il secondo riguarda la fisionomia del sistema finanziario che dopo aver espropriato gli Stati della sovranità di battere moneta(40), fonda i propri enormi profitti sull’indebitamento ad usura di aziende famiglie e degli stessi Stati; drenando in questo modo ricchezza reale in cambio di simboli monetari creati dal nulla. Oggi, purtroppo le concezioni usurocratiche sono accettate quasi unanimamente. Grazie alla diffusione tra le masse di una etica individualistica e utilitaristica, anche i ceti medi sono coinvolti nelle pratiche usurocratiche alla loro portata (fondi di investimento, speculazioni con monete virtuali, titoli borsistici, ecc.), nell’illusoria speranza di difendere il proprio patrimonio o di accrescerlo, senza rendersi conto che essi vanno a costituire il cosiddetto “parco buoi”: gli apportatori di denaro fresco che altri manovrano a proprio beneficio. In quanto poi alle popolazioni nel loro insieme, esse accettano tali perversioni finanziarie come qualcosa di naturale e normale; qualcosa che riguarda l’economia, ritenuta materia di esperti; senza riflettere che sono tenute scientemente all’oscuro dall’informazione e dal sistema scolastico affinché nessuno disturbi il manovratore. In sostanza si è creato un clima sociale e culturale favorevole all’azione usurocratica e alla diffusione di un capitalismo straccione che perpetua la divisione classista nell’epoca dell’economia finanziarizzata. Il sistema usurocratico (termine coniato da Ezra Pound), così instaurato e in rapida espansione planetaria, costringe tutti – famiglie, aziende, Stati - a produrre, a vendere e a consumare sempre di più a causa di un costante ipoteca (l’usura dei tassi di interesse) che pesa costantemente sulla ricchezza prodotta. Così, se l’incremento annuo del PIL è la condizione primaria per ripianare bilanci ed esposizioni debitorie, in primis quelli degli Stati, nondimeno la crescita auspicata può avvenire solo ricorrendo a nuova esposizione debitoria, in una spirale perversa di indebitamento, anche quando si ricorre alle diverse modalità di finanziamento proposte dalle “sale giochi” delle borse o dal risparmio gestito (40 a) La creazione di moneta dal nulla: la moneta virtuale della finanza moderna è un surplus che va anche oltre il concetto di plusvalore capitalistico dell’analisi marxista, il quale è comunque basato su beni reali. In ogni caso anche Marx aveva intuito che, oltre ai problemi di redistribuzione del reddito prodotto, la parte di plusvalore trasformata in rendita finanziaria e non in nuovi investimenti o redistribuita a beneficio delle popolazioni, quindi sterile dal punto di vista economico e produttivo, avrebbe finito per impoverire ancor di più i ceti più deboli. Oggi, in una economia globalizzata, la massa monetaria creata artificiosamente e superiore di molte unità il PIL mondiale, si riversa sul mercato globalizzato senza regole producendo il solito effetto di sottrarre ricchezza reale ai popoli e ai ceti che producono. Nello stesso tempo, il surplus finanziario è una minaccia per tutto l’apparato produttivo e la stabilità socio – economica. Se per qualsiasi motivo si ostruisse la girandola finanziaria (massicce conversione di titoli in moneta convenzionale, crisi di fiducia nelle pratiche speculative, moratoria unilaterale dei debiti sovrani, ecc.) si svilupperebbe una crisi finanziaria prima recessiva e poi dagli esiti incalcolabili. Ecco perché il sistema usurocratico è destinato ad espandersi senza soste, a cercare incessantemente occasioni di affari e investimenti, ovvero vie di fuga per la “bolla speculativa” che sovrasta l’economia mondiale. Si spiega così anche la massiccia invasione della finanza nelle strutture sociali statali: la tendenza alla privatizzazione degli apparati economici dello Stato, lo smantellamento degli istituti previdenziali e degli altri servizi sociali (dalla scuola alla sanità), senza pensare prima ad un loro risanamento. Tutti questi enti, ritenuti improduttivi in quanto aventi finalità sociali e non di lucro, devono divenire ulteriori occasioni per il rastrellamento di capitali, da un lato, e per investimenti redditizi, dall’altro. In questa ottica vanno valutate tutte le privatizzazioni: non interessa l’attività produttiva degli enti e delle aziende; essi diventano patrimoni finanziari; avulse dal loro contesto umano, nazionale e sociale; soggette, secondo le necessità, ad essere smantellate, vendute, trasferite e riorganizzate, secondo le necessità e i disegni del momento, da parte degli enti finanziari che le controllano. La mancanza di un controllo e di un indirizzo politico alle attività finanziarie fa sì che si possa parlare di economie “drogate” di capitali; i quali però in regime di libera circolazione con la stessa facilità di afflusso possono anche defluire presso aree economiche ritenute al momento più sicure e redditizie. Peraltro il drenaggio di capitali si avvale anche dell’imposizione agli Stati di politiche di bilancio restrittive affinché il capitale privato non affluisca verso i titoli di Stato; senza dimenticare in questa corsa alla ricerca di capitali speculativi il riciclaggio di capitali derivanti da attività criminali (traffico di droghe e armi in primis). Apriamo un inciso non avulso dalle argomentazioni di questo capitolo. Il giogo delle prassi usuraie su tutto il sistema socio -economico ha suscitato in tal modo una infernale spirale usurocratica assimilabile ad una sorta di modello fisico – matematico che vede l’accelerazione dell’arco di flusso entropico “risorse – produzione – consumo” e il rallentamento dell’arco di flusso nega – entropico che dovrebbe riportare dal consumo alle nuove risorse attraverso il riuso, il riciclaggio in materia prima - seconda e i cicli naturali (41). Di fatto, nella società moderna il ciclo della materia segue due ritmi diversi, manifestando una forte discrasia tra tempi “culturali” e tempi “naturali” la qual cosa, tra parentesi, si riflette in altri epifenomeni della vita moderna come la continua accelerazione di ogni attività, l’alterazione della cognizione di tempo, la simultaneità fenomenica. Sul piano più strettamente socio – economico, la gabbia usurocratica impedisce ogni realistica riforma qualitativa della produzione e dei consumi e ogni diverso assetto economico in grado di fronteggiare le cause vere o presunte del dissesto ambientale. In sostanza, qualsiasi ricerca scientifica o qualsiasi progetto che non siano subito convertibili in merce o in qualcosa di mercificabile risultano necessariamente accantonati, in quanto questo sistema economico – finanziario non tollera investimenti che comportino tempi lunghi di realizzo o la valorizzazione di beni immateriali non traducibili come le merci in moneta sonante. Se le dinamiche appena accennate (spirale usurocratica e crescita esponenziale di beni e servizi) costituiscono il sistema nervoso del turbo – capitalismo possiamo anche comprendere l’enorme divario tra Paesi sicuramente poveri e paesi cosiddetti ricchi, nonché l’enorme accumulo di ricchezza nelle mani di una ristretta cerchia di gestori della finanza mondiale. Nella logica perversa che guida le dinamiche politiche ed economiche susseguenti alla fine del colonialismo storico, ai paesi poveri o in via di sviluppo è assegnato il ruolo di fornitori di materie prime e manodopera dequalificata – entrambe a basso costo – mentre ai paesi del cosiddetto primo mondo è riservato il ruolo di produttori qualificati, gestori di servizi e consumatori. Infatti, il generale processo di modernizzazione e globalizzazione del terzo mondo si è arenato a quelle frontiere per l’incompatibilità culturale e caratteriale di quelle popolazioni con le doti e l’indole richieste dal sistema tecno – industriale occidentale. E questi paesi si trovano oggi nel guado tra l’abbandono delle vecchie forme economiche agro – pastorali e la conversione a quelle industriali; in un modernismo malsano o se i preferisce uno stato di equilibrio instabile (o meglio: squilibrio stabile). Da qui due fenomeni che si armonizzano perfettamente con i disegni globalisti. Il primo riguarda le migrazioni di massa; con la messa a disposizione nelle aree del nord del mondo di manodopera a basso costo in concorrenza con i prestatori d’opera locali. L’effetto collaterale è lo sviluppo di un’area di consumo per beni di scarso valore qualitativo o di significato economico praticamente nullo (abitazioni fatiscenti, auto usurate, abbigliamento di scarsa qualità, alimentazione inadeguata, ecc.). Il secondo fenomeno è dato dai processi di delocalizzazione verso aree a basso costo di lavoro e a bassa tutela dei lavoranti di intere filiere produttive ( abbigliamento, calzature, accessori, elettronica, ecc.), con la conseguente alienazione di ampi settori del patrimonio industriale dell’occidente e una insulsa deindustrializzazione che colpisce soprattutto i ceti produttivi più bassi. Il tutto si inscrive perfettamente nella logica capitalistica della divisione internazionale del lavoro; ovvero la prassi di appropriarsi gratuitamente del patrimonio tecnico - scientifico dei popoli, rapinare, a furia di corruzione e sangue, le materie prime più importanti, produrre dove la manodopera costa meno e vendere dove c’è una domanda favorevole. Quanto tutto ciò vada a pesare anche in termini di impatto ambientale – pensiamo soltanto al volume dei trasporti che ne consegue – è facilmente intuibile; ma sulla questione ecologica ci ritorneremo a più riprese. In ogni caso, l’ andamento fondamentale dell’economia mondiale resta la standardizzazione planetaria dei prodotti e delle forme di consumo affinché i flussi finanziari siano al riparo da un mercato troppo diversificato, quindi mantengano il proprio trend di accrescimento e il sistema usurocratico continui ad espandersi. A questo punto, prima di passare oltre ci sembrano necessari alcuni cenni di approfondimento di quelli che ci appaiono come i vettori di sviluppo del sistema liberal – democratico, focalizzato come sistema usurocratico. Essi sono: il mondialismo, la globalizzazione e la complessificazione tecnostrutturale.
MONDIALISMO e GLOBALIZZAZIONE Per mondialismo si intende la tendenza ad unificare e pacificare il mondo sotto un unico governo mondiale, in grado di intervenire in ogni angolo del globo per riportare un supposto ordine internazionale violato o per rendere esecutive norme ritenute arbitrariamente universali (ci riferiamo alle molteplici carte dei “diritti” e alle leggi “internazionali” stabilite, tutto sommato, arbitrariamente). Formalmente questo governo ancora non esiste; concretamente lo possiamo ravvisare nell’ONU, il quale è diventato il paravento di tutte le operazioni militari e diplomatiche, dirette o per interposti soggetti, volte a perseguire gli interessi degli USA e di quello che viene definito “lo stato profondo” di una oligarchia sostanzialmente apolide. Comunque il disegno di giungere ad unico governo mondiale, benché negli ultimi tempi trovi l’opposizione di altri “giocatori” sulla scacchiera mondiale, continua ad essere perseguito sotto traccia. Esso si avvale di un apparato ideologico (egualitarismo, democrazia, umanitarismo, universalismo, laicismo, individualismo) che da almeno due secoli va preparando le coscienze a tale eventualità. Tant’è che nel recente passato si è parlato a più riprese – e senza ipocrisia – di “operazioni di polizia internazionale”, proprio come si direbbe nel caso di violazione di una legge di uno Stato sovrano; da intendersi in tal caso come stato a giurisdizione mondiale con le singole Nazioni ridotte a province dell’impero planetario. Il mondialismo rappresenta, quindi, lo strumento politico – ideologico del sistema usurocratico. Se si preferisce, esso può intendersi come una versione aggiornata e supernazionale della plutocrazia del secolo scorso che, al contrario, si radicava e si serviva di Nazioni sicuramente affidabili per fedeltà al capitalismo e alla democrazia. L’interventismo militare della simbiosi USA – NATO - ONU è la dimostrazione che, se risulta pur vero che le ideologie viaggiano con le teste degli uomini, è ancor più vero che viaggiano meglio sulla punta dei fucili e con i cingolati. In ogni caso, siamo nell’ordine di strategie perseguite per raggiungere obiettivi di tutt’altra natura rispetto al semplice controllo imperialistico di aree del mondo ricche di materie prime essenziali alle società a capitalismo avanzato. Il mondialismo, in sostanza, mira ad una omologazione planetaria secondo il modello di vita e di pensiero liberal – democratico a guida anglo – sassone, nella speranza, neanche tanto nascosta di una “fine della storia” e di una pacificazione universale, come preconizzava un celebre testo di F. Fukuyama (“la fine della storia e l’ultimo uomo”). Naturalmente, di fronte ad una tale prospettiva sradicante e omologante gli internazionalisti sinistrorsi vanno in deliquio e in delirio prestandosi, attraverso gli apparati mass mediali che controllano, a rinforzare e a radicalizzare ogni assunto mondialista. Ma questo è un altro discorso. A noi sembra di individuare l’ obiettivo ultimo dell’ideologia mondialista - di lungo termine e di più vasta e definitiva implicazione - nella globalizzazione produttiva, procedente di pari passo con l’internazionalizzazione finanziaria guidata dal dollaro. Per imprese o apparati economici globalizzati si intendono forme produttive auto sussistenti, senza alcun vincolo di appartenenza nazionale (appunto multinazionali) e di identità che non sia l’azienda stessa, i suoi prodotti e il suo marchio come bandiera (il brand). Si tratta di un processo di estrema razionalizzazione delle economie di scala (42) e di massimizzazione del profitto, che riduce il mondo a segmenti di mercato ed a siti più o meno opportuni per determinate attività produttive, da abbandonare per altri luoghi qualora i piani aziendali non siano soddisfatti. Ovviamente, tali processi non tollerano barriere doganali, problemi monetari, complicazioni normative, vincoli sociali o ambientali. In ultima istanza, la politica, le armi e l’imposizione del modello ideologico mondialista si avviano a preparare l’avvento compiuto di questa estrema forma ipertrofica di economia capitalistica. Ma quando si afferma che il mondialismo e la globalizzazione distruggono tutte le culture e vogliono omologare il mondo ad un unico modello di vita si afferma solo una mezza verità. Poiché il sentimento di appartenenza e le differenze individuali e di gruppo, affondano le loro radici nel patrimonio bio-psichico inscritto nei nostri geni - avvalorati poi dalle esperienze di “imprintig” ambientale (43) – essi sono pulsioni ineludibili. Si procede allora a sostituire una realtà naturale identificante con un’altra che la possa surrogare. La Patria, la comunità, la cultura, la religiosità vengono soppiantate dal marchio (brand) dell’azienda, dal culto della sua immagine, dal feticcio della sua potenza e del suo prestigio; e l’azienda, proprio come farebbe uno Stato, accoglie i propri componenti, li tutela e ne plasma le istanze. Le stesse caratteristiche psico – attitudinali che distinguono le etnie e i popoli sono ben accette dall’economia globalizzata, a condizione che siano recise da ogni radice culturale e spirituale, da ogni memoria storico – genetica e sfruttate come automatismi di forme larvali (o meglio ancora robotizzate) dall’organizzazione flessibile e efficiente che muove il ciclo produzione – consumo globale. Portiamo un esempio emblematico di come il principio di identità, che dovrebbe arginare ogni deriva mondialista, venga piegato ai moderni criteri produttivi. L’operaio giapponese che prima era abituato a cantare gli inni della propria Patria, oggi canta l’inno dell’azienda nel nome di una grandezza nazionale, domani canterà quello dell’azienda … e basta. In sostanza si prepara una forma di addomesticamento più sottile e profonda, che anestetizza le coscienze più di ogni forma di propaganda, disorienta gli impulsi naturali e prepara una involuzione verso forme di primitivismo materialistico. Va da sé ed è cosa nota, che in questo sistema economico globale, alligna il peggio di quello che viene anche definito “turbo capitalismo”: sfruttamento dei prestatori d’opera, lavoro minorile, inquinamento incontrollato di aria e acqua, e massa abnorme dei rifiuti, scarsa qualità dei consumi di massa, l’ obsolescenza programmata degli apparati tecnologici, e via di questo passo. E a sentir loro, noi (europei) dovremmo farci carico di tutte le contraddizioni del sistema; in nome di un colonialismo storico che ormai, e da tempo, ha ceduto il passo a nuove e peggiori forme di condizionamento e sfruttamento che andiamo descrivendo e che portano tutte il “brand” – è il caso di dirlo – della democrazia e del liberal-capitalismo. Ne deriva anche che l’omologazione e il disordine razziale, da intendersi “dentro” e “tra” le razze, ci appaiono, di conseguenza, più come epifenomeni, conseguenze di un meccanismo avviato da tempo, che non finalità scientemente conseguite. Che i fenomeni di meticciato, mondialismo culturale, omologazione generalizzata possano anche avere un più profondo significato metafisico, tanto da far parlare dell’attuale Occidente come di un mondo satanico, volto, cioè, alla dissoluzione verso l’elemento caotico e informe – senza alcuna allusione metaforica ma proprio come del sistema antitradizionale per eccellenza – nulla toglie ad un analisi che intende muoversi volutamente sul piano economico e sociale. COMPLESSIFICAZIONE E TECNOCRAZIA Insieme alla finanziarizzazione dell’economia un altro aspetto perverso è la suddivisione e l’interconnesione di tutte le funzioni economiche del produttivismo moderno. Questo fenomeno ha la sua origine nel tipo di sviluppo tecnologico che ha preso forma dalla prima rivoluzione industriale in poi. La forma tecnologica allora dominante ha consentito, inizialmente, la divisione del lavoro produttivo in una serie di operazioni distinte e successive, preorganizzate sulla catena di montaggio secondo un criterio di massima efficienza e velocità, definito “taylorismo” (nota). In quella prima fase, la funzione produttiva si trasferisce da un singolo soggetto (l’artigiano e la sua bottega) a una pluralità di soggetti (gli operai) e di conseguenza il lavoro si suddivide in una serie di fasi connessi dalla macchina. A quel tempo, tuttavia, l’azienda in quanto unità produttiva presenta ancora, nel suo complesso, una certa autosufficienza: produce talvolta l’energia di cui ha bisogno; possiede mezzi di trasporto propri; si muove in un mercato che gestisce direttamente. Oggi questo tipo di complessità, di funzioni sempre più parcellizzate e interdipendenti, si è esteso dalla azienda a tutta la struttura socio – economica, sicché ogni singola funzione produttiva o sociale (produrre, trasportare, distribuire, comunicare, progettare, offrire servizi ecc.) può essere raffigurata come un “nodo” di una serie di relazioni di natura tecnica sempre più fitte e rigide e, in quanto tali, poco resilienti (per esempio: tutti possiamo immaginare i disagi e i danni economici che possono derivare da un black – out di energia elettrica che, nella fattispecie si configura come un nodo tecno – strutturale che condiziona una infinità di altri “nodi”). Quindi, un insieme di “nodi” formano un reticolo tecno – strutturale di relazioni che, se in passato appariva a “maglie” larghe ed elastiche, oggi appare a “maglie” fitte e anelastiche. Tutto ciò non è una pura analisi accademica fine a se stessa, in quanto la complessificazione tecno -strutturale appare oggi come il sistema vascolare attraverso il quale circola il flusso usurocratico di beni e servizi vitali per i singoli e le comunità e rende problematico qualsiasi progetto di trasformazione socio – economica rivoluzionaria senza immaginare, nello stesso tempo, una tecnologia che non sia solo a misura d’uomo o a misura dell’ambiente - come vanno vagheggiando “i sinistri” del pensiero debole - ma una tecnologia che sia soprattutto a misura della libertà e della sovranità dei popoli. Questo è un altro immane compito che il nuovo Fascismo dovrà affrontare per quel processo rivoluzionario che è nel suo destino. Peraltro l’immersione in tale tecno -struttura si sintetizza nel tecnomorfismo delle cosiddette società avanzate; con esiti nefasti che vanno ben oltre il piano socio – economico: la tecnica e i suoi prodotti, dominando ogni aspetto della vita sociale e individuale, è diventata essa stessa un fenomeno autopoietico. Essa si accresce e si afferma senza alcun vincolo etico o politico e senza rispondere a bisogni oggettivi; si impone autonomamente, per il fatto stesso di produrre e rendere commerciabili i nuovi dispositivi tecnologici che vengono prima creati e poi imposti con i soliti sistemi di lavaggio del cervello. Si condiziona così la vita di ciascuno, di ogni famiglia, di ogni comunità e degli Stati stessi; annichilendo di fatto l’idea di bene immateriale e alterando l’idea stessa di bene; surrogati unicamente dal bisogno, artatamente indotto, di beni materiali sempre maggiori e spesso inutili quando non dannosi. Va da sé che anche in questa chiave analitica, per quanto detto in precedenza, l’usurocrazia sovrasta tutta la rete tecno – produttiva. Facendo affluire i capitali verso i settori più promettenti e dettando gli indirizzi dei grandi cambiamenti, resi tali dalle potenziali applicazioni dei ritrovati tecno – scientifici. Noi siamo convinti che l’origine del consenso passivo, che da forza a questo sistema politico – economico che ci troviamo a subire, risiede proprio nell’inconscia percezione della rete inestricabile di interdipendenze, nella quale ciascuno di noi appare avviluppato fin dalla nascita, e dalla mancanza di prospettive di cambiamento che non siano catastrofiche per le stesse sorti individuali. Ironia della sorte, mai come in questa modernità così oppressiva si parla tanto di libertà, riducendola a parodia o, se si vuole, all’ombra del suo significato più autentico. Dalla libertà come assenza di bisogni, attraverso la marxiana libertà dai bisogni (intesa come loro soddisfazione), siamo infatti approdati alla libertà dei bisogni, centrata al di fuori dei singoli, delle famiglie e delle comunità: tutti soggetti ad una vera e propria trasformazione antropologica; segnati da esistenze vitalizzate solo dal flusso di beni e servizi che circola nel reticolo connettivo del sistema industrial – capitalista gestito dall’usurocrazia. Da qui l’abbandono al consumismo come forma di compensazione ad una sostanziale alienazione del senso più alto di libertà. Da qui la paralisi di fronte a proposte di radicale trasformazione socio – politica, nonostante il distacco sprezzante dei più dai referenti politico -istituzionali. Da qui la rappresentazione di un finis historiae, nella cinica e cieca concezione della democrazia liberal -capitalista come migliore dei sistemi possibili e desiderabili, non più perfettibile. Oggi di fronte alle vere o presunte emergenze mondiali, quali la sovrappopolazione e i cambiamenti climatici, le forze usurocratiche, come già accennato in precedenza, vanno progettando un nuovo assetto sociale dai connotati distopici, che faccia tabula rasa degli ultimi brandelli di civiltà con un grande reset sociale (41). Ribadiamo: facendo leva sulle tecnologie della “quarta rivoluzione industriale” (informatica, intelligenza artificiale, robotica, telematica, manipolazioni genetiche, chimica fine, ecc.) una ristretta cerchia di oligarchi multimiliardari, va vagheggiando una società di massa ridotta allo stato molecolare, deprivata di ogni elemento di proprietà (casa, auto, elettrodomestici, cura della persona, beni personali, ecc.) nell’idea di centralizzare e rendere ecologicamente sostenibili ed economici tutti i bisogni primari oggi soddisfatti in modo individuale o all’interno delle famiglie (nota agenda di davos). La stessa socialità, così come ancora oggi la concepiamo, sarebbe un qualcosa di obsoleto, soddisfacibile meglio con la realtà virtuale fino alle magnificenze del “multiverso”, l’ultima frontiera dell’alienazione umana. Se poi ragioniamo sulle linee di tendenza in atto, anche sul piano antropologico si puo’ intravedere una degenerazione dell’umano. L’affidarsi alla tecnologia anche per i più banali atti quotidiani – pensiamo alla domotica, ai comandi vocali, ad “alexia” e simili – conduce inevitabilmente alla perdita delle più elementari abilità psico – fisiche e ad una generale atrofia mentale. E se queste sono solo allarmistiche deduzioni o esiti possibili lo dirà solo il futuro e chi saprà incidere su di esso. In quanto poi ai problemi di salute e alla ineludibile prospettiva della morte, perché non affidarsi alle sorti magnifiche e progressive del transumanesimo? E perché non pensare a ridurre la popolazione mondiale? Visto che c’è anche chi considera – pro domo sua - la specie umana come un parassita che pregiudica la sopravvivenza di tutta la natura. Nel frattempo, per salvaguardare il clima, gli animali e la terra, tutti dovrebbero diventare vegetariani o nutrirsi di carne sintetica; e se proprio non possiamo fare a meno di mangiare animali, si concede di sacrificare grilli e cavallette. In queste prospettive – assolutamente realizzabili a sentire gli stessi propositi dei fautori – vi è una ulteriore prova della perversione e della volontà prevaricatrice che si celano dietro la maschera umanitaria e liberale dell’usurocrazia democratica. Vengono allo scoperto i limiti di una cultura tecnico scientifica coeva al produttivismo capitalistico: una cultura che accumula e organizza dati su dati, nozioni su nozioni, ma perde sempre più la capacità di conoscere il mondo fenomenico che non sia quella parziale e fuorviante offerta dalle scienze positive. Per far sì che la scienza si approssimi alla realtà oggettiva occorre un approccio epistemologico diverso, di tipo sistemico, derivante, a sua volta da una visione intellettiva “gestaltica”, capace di cogliere la complessità del mondo nelle diverse sfaccettature, nei suoi livelli organizzativi collegati da processi interattivi e ciclici che conferiscono unità al tutto (olismo) e rimandano all’entelechia della suprema unità cosmica. Questo inciso ci è parso opportuno perché siamo dell’ordine di idee che un nuovo assetto socio – economico necessita non solo di trasformazioni profonde sul piano politico – istituzionale, ma soprattutto necessita di una autentica rivoluzione culturale che possa incidere sulle stesse modalità intellettive dell’uomo moderno fino ad un nuovo e antico paradigma che coinvolga le stesse discipline scientifiche e tecniche, ritenute – ma a torto – come facenti parte di àmbiti cognitivi per loro natura “oggettivi” e “neutri”. In sintesi, solo una nuova Koiné scaturente da una visione organicistica e che ponga a fondamento la molteplicità e la complessità del mondo e delle cose, può suggerire le corrette soluzioni anche ai problemi materiali e orientare positivamente le forme macroeconomiche, non riducibili ad un unico modello, men che mai a quello usurocratico e capitalistico, riduttivo nelle sue espressioni teoriche, disastroso nelle applicazioni pratiche e totalizzante per l’intima perversione dei propri fini e dei mezzi che adotta per perseguirli. LA CHIAVE GEOPOLITICA E L’IDEA EUROASIATICA Ciò precisato incominciamo a delineare il tipo di Stato che prefiguriamo, partendo dalle dinamiche geopolitiche che si vanno sviluppando nei nostri tempi. Esse sono tendenzialmente due, entrambe determinate dagli sviluppi tecno-scientifici dei nostri tempi: da un lato l’idea di un ordine nuovo mondiale, globalizzato secondo il modello liberal – democratico occidentalista, a sua volta strumento di potenti oligarchie economiche finanziarie che tendono a determinare i destini del mondo secondo i propri interessi e la propria visione luciferina dell’uomo e della società; dall’altra parte, contro questa dinamica che tende a negare ogni condizionamento storico, culturale e nazionale, assistiamo alla progressiva formazione di grandi blocchi geopolitici che si enucleano in ragione dei propri interessi economici, della propria storia e delle identità culturali, sviluppatisi nei propri spazi elettivi, definibili geograficamente e di dimensioni continentali o sub continentali. I più attenti analisti individuano tali blocchi geopolitici nella Cina, nel subcontinente indiano, nell’area latino americana a trazione brasiliana, nel ricco Sud Africa e nello spazio sarmatico dominato dalla Russia (nell’insieme i cosiddetti BRICS). Tutte queste potenze affermate o in via di affermazione sulla scena mondiale, pur partecipando al gioco mondiale, tendono ad emanciparsi dall’egemonia finanziaria del dollaro e dai vincoli posti dagli enti supernazionali, nella prospettiva di una maggiore autonomia e di un ruolo maggiore e più autorevole sulla scacchiera mondiale. Tuttavia, nelle strategie che mettono in atto e nei modelli socio – economici di riferimento si rifanno alle medesime dinamiche capitalistiche ed espansionistiche definibili globaliste; tanto da far immaginare ad una “moltiplicazione di globalismi” su scala limitata, ma senza alcuna prospettiva rivoluzionaria, rintracciabile solo all’interno del pensiero e della prassi di un nuovo Fascismo tradizionale. In questo contesto la vecchia Europa di cui facciamo parte è totalmente succube del sistema globale a guida statunitense, il quale più che formare un blocco geopolitico si presenta come un sistema di relazioni di natura globalista, che, per ora, ha fallito il disegno di uniformare il globo terraqueo, nella folle illusione della “fine della storia” e di una “pacificazione” universale. Quindi possiamo constatare che la rete di relazioni globaliste si estende dal nord America anglofono , compreso il Canada, al Giappone, all’Australia e alla Nuova Zelanda nell’area dell’est Pacifico, alla vecchia Europa, a Israele e ai ricchi paesi della penisola arabica, per gli interessi energetici; oltre e in varia misura a nazioni minori sparse un po' in tutti i continenti. Se questa disamina è corretta, anche in prima approssimazione, possiamo capire che il campo di azione di ogni forza rivoluzionaria non può limitarsi agli Stati nazionali così come li conosciamo e riconoscere che il mondo va verso un assetto multipolare. Per trovare la giusta risposta basta prendere una cartina geografica e constatare che l’Europa non è altro che una piccola appendice della Russia e del grande spazio sarmatico da essa governato da sempre; gli stessi monti Urali sono poco più che colline che non hanno mai determinato una netta cesura geografica e culturale tra la vecchia Europa e i territori orientali sarmatici. Quindi se vogliamo affrancarci dal globalismo liberal democratico possiamo solo far riferimento ad un blocco eurasiatico che va da Lisbona alla Siberia, dal mar del Nord al mediterraneo, con i suoi naturali confini nella catena himalaiana, nel deserto del Gobi e nei grandi fiumi che segnano il confine con la Cina; in una area dove ancora adesso – ed è questa la cosa più importante - è prevalente il tipo caucasico e si sono affermate le varie forme della civiltà europea (39). Naturalmente non possiamo ignorare le linee di frattura che sono presenti nel grande spazio euroasiatico: la prima è intervenuta con la riforma luterana che ha dilaniato per secoli la preesistente unità cattolica e svuotato di significato il principio imperiale, fonte immanente di ogni sovranità; ponendo le premesse dell’attuale deriva materialista e nichilista della liberal – democrazia compiuta. La seconda linea di frattura la troviamo ad est, nello scisma ortodosso, che, al contrario, mantiene vivo un principio di cristianità a sfondo imperiale. Ma anche qui non mancano faglie di attrito tra l’area del “cirillico” e quella dell’alfabeto “latino” con tutto ciò che ne consegue in quanto a differenze culturali. Per non parlare delle enclavi islamiche – anche quelle che si stanno formando con l’immigrazione selvaggia - che oggi sono una spina nel fianco del progetto euroasiatico che prefiguriamo In ogni caso una ricomposizione politica del grande spazio eurasiatico, qualunque ne fosse la forma istituzionale, avrebbe in sé tutte le potenzialità demografiche, tecnico – scientifiche, infrastrutturali, intellettive, oltre che produttive per la creazione di uno spazio economico autosufficiente; senza trascurare la disponibilità di enormi risorse agricole, energetiche e minerarie. Ci sarebbero concretamente tutte le condizioni affinché una volontà politica possa attuare una autentica “secessione” da ogni forma di globalismo senza subirne alcun contraccolpo e senza soggiacere ad alcun ricatto esterno. Sottrarre una qualsiasi area del mondo al disegno globalista, costituirebbe, quindi, un vero atto di guerra, letale alle necessità “fisiologiche” di espansione illimitata e omogeneizzazione socio – economica del globalismo. A maggior ragione se quest’area assumesse una dimensione continentale con tutte le potenzialità che abbiamo su accennato. Prefiguriamo, in tal senso, un’area stabilizzata su un mercato interno sufficientemente ampio e con scambi esterni irrisori. Si tratterebbe di un’area economica definibile sinteticamente “spazio economico autocentrato”; ovvero espressione delle vocazioni produttive di territori contigui e delle inclinazioni culturali dei popoli che vi risiedono, i cui rapporti si fonderebbero sul principio di sussidiarietà. Non si tratta, come si potrebbe obiettare, di una forma di mondialismo su scala ridotta, ma del livello più ampio di integrazione dell’economia organica fondata su princìpi di autoproduziome e autoconsumo; integrazione che si dipana dai livelli più bassi di organizzazione sociale, il singolo cittadino, passando per i corpi intermedi orizzontali (famiglie, comunità locali e regionali), quelli verticali (famiglie, ceti, corpi sociali) fino alla Nazione e alla federazione di Nazioni sovrane della nuova grande Eurasia. L’economia organica da implementare nello “spazio economico autocentrato”, correttamente intesa e realisticamente calata nella contemporaneità, si differenzia dall’economia di sussistenza in quanto, pur avendo lo stesso carattere di economia a ciclo chiuso, empatetico ai flussi naturali, non rinuncia al confronto con la modernità nei suoi risvolti tecnici e scientifici e alla potenza che possono conferire nel confronto – scontro con le forze asservite all’usurocrazia. Sara compito di una volontà politica sovrana imbrigliare la potenza della tecnica e renderla duttile, emanciparla dal faustismo tecnocratico e porla al servizio di interessi superiori, fino alla sua trasmutazione epistemologia secondo i canoni di una nuova civiltà tradizionale. Tuttavia, se l’obiettivo strategico è quello di creare un nuovo ordine economico non possiamo prescindere da altri due aspetti salienti delle leggi economiche moderne: il limes tecnostrutturale e il limes delle economie di scala, entrambi connessi allo sviluppo tecnologico. Per quanto riguarda il primo aspetto, intendiamo dire che quando si dovranno progettare sistemi ad alto contenuto tecnologico, come potrebbe essere una rete informatica o di telecomunicazioni, essi devono commisurarsi allo spazio economico autocentrato rinunciando ad ogni velleitarismo di espansione indefinita e planetaria. In sostanza, la secessione politica e economica da un mondo globalizzato o pluri – globalizzato permetterebbe, per esempio, sotto l’imperio di una lucida volontà politica, di progettare nel campo informatico sistemi operativi ed un adeguato software assolutamente originali e incompatibili con quelli rappresentati oggi, per esempio, dal monopolio della microsoft. Ugualmente, ogni progetto di infrastruttura televisiva o satellitare va prioritariamente finalizzato alla implementazione dei contenuti culturali della rivoluzione tradizionale che perseguiamo nello spazio geografico dell’imperium euroasiatico. Cerchiamo di essere meno astratti. Oggi gli standard tecnologici sono imposti a livello planetario grazie alla logica del libero mercato. Essi si rivelano come strumenti di potere e di condizionamento da parte di una oligarchia economica autoreferenziale, svincolata da ogni controllo e da ogni indirizzo superiore che garantisca gli interessi dei consumatori e più in generale dei popoli che ne debbono usufruire. A questi standard globalizzanti vanno contrapposti specifici standard europei, di eguale potenza e funzionalità (il nostro potenziale tecno – scientifico lo garantirebbe senza tema di smentita) affinché all’incompatibilità ideale e civile del sistema che andiamo prefigurando corrisponda una incompatibilità tecnologica e strutturale che preservi lo spazio economico autocentrato da ogni contaminazione o coinvolgimento con il liberal capitalismo oligarchico e usurocratico, fosse anche la sua infrastruttura tecnologica. Se le tesi che andiamo sviluppando possono apparire ai più come anacronistiche e vieppiù visionarie in quanto autarchiche e isolazioniste, noi ne rivendichiamo la piena validità nella consapevolezza di un duplice obiettivo: sottrarre al mondialismo una parte del pianeta controvertendo la logica espansionistica del capitalismo; dimostrare nei fatti che i destini del mondo non vanno nella direzione di un pensiero unico secondo la truffaldina logica deterministica, ma possono dipendere dalla nominalistica volontà di uomini votati alla rivoluzione tradizionale. Analogamente ogni attività produttiva non può proiettare le proprie economie di scala (aumento del profitto in ragione del contenimento dei costi per unità di prodotto) oltre il limite imposto dallo spazio economico autocentrato; considerando come un vincolo il fatto che ogni area di mercato per quanto estesa, per la natura stessa del bene prodotto, non può avere una dimensione planetaria. Quindi prefiguriamo una dimensione continentale per le produzioni ad alto contenuto di capitali e ad alto contenuto tecnologico (per esempio: i mezzi di trasporto) e una dimensione sub – continentale per i prodotti che possono avere una caratterizzazione locale e, quindi, una valenza culturale e qualitativa al tempo stesso. In tal senso, il sistema economico che prefiguriamo si caratterizza non solo per la sua alterità al capitalismo globalista ma soprattutto per il suo connotato qualitativo: dall’essere espressione della forma mentis culturale e civile tipicamente delle genti europee, antitetica alla barbarie della mediocrità. “Il prodotto medio adattabile a tutti e tutti adattabili al prodotto medio” è la concezione mondialista e omologante (dire visione filosofica sarebbe troppo) che caratterizza multinazionali come, ad esempio, la coca cola o la mac donald’s. Questi brand, come tanti altri che troviamo in ogni angolo del globo, sono tipiche espressioni dell’economia globale anonima, culturalmente asettica, capace di esaltare quanto di individuale e di materiale fa parte della natura umana; indifferenti ad ogni specificità e ad ogni radice, incolore nella loro capacità di ridurre il molteplice al nulla indifferenziato, mistificanti nel sovvertire ogni sana pulsione verso il principio qualitativo nella bassezza quantitativa o nell’effimero edonismo assunti ad unici criteri di benessere. Quindi, ogni limes di tipo tecnologico o semplicemente economico si riverbera, di contro come principio di forma e di identità: si fa espressione di una radice comune che risulta essere al tempo stesso culturale e spirituale; nonché dai tratti naturalmente ecologici in quanto legata agli interessi e al bene concreto dei popoli dello spazio euroasiatico e alla preservazione delle risorse e delle ricchezze dei territori di elezione. Ma, per compiutezza analitica dobbiamo affrontare l’elemento “motore” di tutta la logica capitalista: il profitto o meglio il “saggio di profitto”, detto anche “rendibilità” che Sombart tanto aborriva, vedendo in esso nella sua accezione di “rendita computabile del capitale” – ma non dell’impresa di cui il capitale è solo parte – tutto ciò che ne consegue sotto l’aspetto antisociale ed eticamente discutibile del capitalismo. La rendibilità della parte capitale delle aziende, con il collaterale delle astratte pratiche borsistiche e finanziarie, è in fondo la ragione dell’enorme divario tra una ristretta cerchia di super ricchi e masse sempre più immiserite. Dal nostro punto di vista la rendibilità non va ignorata ma conformato alla nuova economia che prefiguriamo. Il principio di rendibilità può essere facilmente espresso con una semplice formalizzazione matematica, tenendo presente che, non essendo l’economia una scienza esatta, la formalizzazione matematica che viene proposta è solo un mezzo per facilitare la comprensione dei ragionamenti che conduciamo. Dunque: R= (Q x P x N) /C dove R è la rendibilità Q è l’indice di qualità P è il prezzo sul mercato dell’unità di prodotto C è il costo sostenuto dall’azienda per unità di prodotto N è il numero di unità di prodotto venduto Come si evince la rendibilità è inversamente proporzionale ai costi produttivi. Si evince anche che la rendibilità è direttamente proporzionale alla qualità, al prezzo di mercato e alle unità di prodotto vendute. Ora in un mercato globale non si può agire sui prezzi per evidenti ragioni di concorrenza e non si può agire sulla qualità per contenere i costi di produzione. L’unica possibilità è incrementare la vendità (N). da qui, nella logica della rendibilità capitalistica, la necessità di un mercato esteso e standardizzato, ovvero il consumismo illimitato. Di questo ne parleremo ancora in seguito. E quando si dice contenimento dei costi si intende logicamente minimo costo del lavoro, minimo costo delle materie prime, degli oneri finanziari, fiscali e così via. Tutto ciò è ovviamente possibile in una economia deregolamentata come quella capitalistica a sfondo globale. Al contrario nell’economia organica, in uno spazio circoscritto, una pianificazione, regolata dall’alto, dovrebbe tendere a parificare la variabile C (costi) e la variabile P (prezzo) di tutte le aziende del medesimo settore. In tali condizioni, corroborate da un diverso clima etico – culturale, la competitività sarebbe giocata tutta sul fattore qualità, senza pregiudicare quel principio di rendibilità che è la ragione vitale di ogni impresa. Ma sorgerebbero anche motivazioni super economiche dalle caratteristiche qualitative, umane e culturale (conoscenze acquisite, capacità organizzative, volontà di affermazione, necessità collaborative e partecipative). Queste ultime sono tutte pulsioni non meno forti di quella volta al profitto fine a sé stesso; esse vanno valutate come positive e centrali nel disegno socio – economico prefigurato e si compendiano nella spinta all’espansione e al continuo superamento delle condizioni date , espressioni ineludibili della “stimmung” conquistatrice dell’uomo europeo. Tuttavia una unità politica ed economica autocentrata non può avere solo la funzione strategica di consentire la sconfitta dell’usurocrazia; se così fosse, essa avrebbe un valore transitorio e aleatorio, senza un reale contenuto né sul piano delle scienze economiche né su quello dottrinario. Noi invece crediamo che la grande Europa autocentrata abbia un significato ontologico che si situa al di là di ogni pur felice prodotto della razionalità; essa è l’espressione spontanea di una visione del mondo trascendente che modella l’immanenza come i geni modellano le forme della vita. La “naturale” realtà del nostro disegno socio – economico e l’irriducibilità “genetica” tra usurocrazia ed economia organica emerge ancor più dal confronto dei caratteri paralleli: da un lato possiamo distinguere una economia estroflessa, fondata prevalentemente sullo scambio commerciale, e dall’altra una economia introflessa tendente all’autosufficienza, l’una considera il mercato nazionale secondario rispetto a quello ovviamente più vasto offerto da resto del mondo, l’altra vede nel commercio con l’estero una pura necessità per quanto non è possibile produrre da soli, riservata, altresì, alle eccedenze e alle eccellenze della nostra economia (il cosiddetto made in italy o made in Europe). Di conseguenza, la prima soffre di qualsiasi vincolo politico o culturale che possa ostacolare la mobilità di beni, capitali, aziende e manodopera; la seconda trova in questi vincoli un vero e proprio sostegno e persegue il proprio sviluppo nell’integrazione di spazi autarchici minori e non completamente autosufficienti; la prima connette il proprio andamento a realtà nazionali e politiche che tende a controllare surrettiziamente, innescando continuamente instabilità e disordine sociale ed economico; la seconda è lo strumento dell’azione ordinatrice dello Stato, trova la sua stabilità in un mercato interno circoscritto e nella collaborazione istituzionalizzata dei corpi sociali. Sotto un altro aspetto, che il dinamismo originato dalla concorrenza sia stata la molla dello sviluppo da almeno tre secoli, è un dato di fatto ma non una verità assiomatica, in quanto non crediamo che l’utilitarismo sia l’unico movente dell’agire umano; anzi, dal nostro punto di vista costituisce l’aspetto degenerativo in chiave individualistica e materialista della più naturale pulsione ad espandere la sicurezza e la potenza del gruppo di appartenenza. Per reificare il capitale a funzione sociale la sua rendibilità va inscritta e rimodulata nella più generale rendibilità aziendale, secondo criteri di equità e responsabilità. Ma gli effetti di tale ribilanciamento avrebbero ulteriori effetti: frenare la tendenza agli oligopoli e mantenere le aziende nelle loro nicchie di mercato, verosimilmente a corto raggio, inserite in un contesto regionale o nazionale e, quindi, maggiormente connesse alle vocazioni del territorio e alle specificità sociali e culturali. L’incursione di un prodotto in un’altra area di mercato assume in questo contesto il valore di un autentico scambio culturale senza mai scadere nella tentazione di inseguire la massima rendibilità del capitale e, di conseguenza, una illimitata economia di scala (ribadiamo: massimizzazione delle vendita e contestuale riduzione del margine di guadagno), realizzando beni anonimi ed estremamente semplificati adatti ad un consumo di massa ed essi stessi massificanti. Nello stesso tempo, nello spazio economico autocentrato materie prime, semilavorati, componenti strategiche, applicazioni di alta tecnologia e tutto quanto, per propria natura, si rivolge ad un mercato a scala continentale devono poter circolare senza le pastoie fiscali, burocratiche e monetarie; in quanto non concorrenziali, anzi essenziali ad una economia organizzata su scala continentale ma essenzialmente a ciclo chiuso e a stato stazionario. Solo in uno scenario così delineato acquista un senso sia l’abbattimento delle frontiere interne che l’istituzione di una moneta unica. Non sarebbe neanche illogico immaginare una doppia moneta: una moneta confederale per gli scambi all’interno dell’unità euroasiatica e una moneta nazionale complementare, più duttile e conforme alle particolari economiche locali. La nostra prospettiva risulta, così diametralmente opposta a quella dell’ UE che mira a liberarsi degli ultimi vincoli monetari e politici solo per istituzionalizzare il disordine capitalistico, gli squilibri sociali e i differenziali economico – produttivi; per creare, ovvero, le migliori condizioni di dominio globale dei conglomerati finanziari in simbiosi con le multinazionali. Al contrario, con una visione d’insieme in grado di mantenere sotto controllo gli squilibri sociali e ambientali, con una costante opera di pianificazione duttile e differenziata a seconda dei casi, si pongono le premesse per l’integrazione e la complementarietà di aree economiche diverse (principio di sussidiaretà) favorendo il naturale flusso delle merci e dei servizi e, se del caso, anche delle braccia e delle menti; ma solo sulla spinta delle necessità oggettive e non delle mire speculative dell’usurocrazia capitalistica. Come si può intuire un disegno siffatto non può prescindere da una volontà politica incarnata nello Stato e dagli organismi istituzionali e sociali (corporativismo, socializzazione nazionale, mobilitazione culturale) atti a implementare la nuova rivoluzione fascista. Quindi, quale può essere il collante che tenga unito un così vasto spazio popolato da un coarcevo di popoli e nazioni? Esso va individuato in due elementi che sono a fondamento della Civiltà europea: il mito delle comuni origini indoeuropee e la Cristianità. Dalle comuni origini indoeuropee sono nate per gemmazione le civiltà greco -romana, quella germanica, quella celtico – norrena e quella slava che ritroviamo tutte nel grande spazio euroasiatico. Come sempre il “simbolo” è più illuminante di mille parole e ne siamo protagonisti proprio noi fascisti tradizionalisti, allorché nel rituale solstiziale accendiamo la pira votiva dai quattro punti rappresentativi dei poli di civiltà su menzionati. E ancora una volta la croce che si sovrappone e sorregge il cerchio solare delle origine (la croce celtica), richiama nell’immediatezza del linguaggio spirituale le radici e l’identità dell’Europa rivoluzionaria e quindi originaria che dobbiamo costruire. Solo in questa nuova koinè culturale e spirituale possiamo immaginare di implementare un progetto istituzionale, le soluzioni politiche e socio economiche, in continuità con l’esperienza storica fascista. TRE POSTULATI FONDAMENTALI A questo punto riteniamo che l’unica possibile strategia anti – usurocratica debba essere indirizzata a risolvere l’intreccio della trama capitalistica con l’ordito tecnico – industriale. Come in ogni processo di “solve et coagula”, una volta isolati e ridotti all’essenziale le costanti e i fattori permanenti di ogni processo economico – produttivo, una volontà politica sovrana e incondizionata potrà ricomporli in un nuovo ordine economico – sociale. Possiamo fin da ora delineare come punti orientativi ineludibili i postulati fondamentali del nostro ordine economico. Essi sono: - Subordinazione dell’economia alla sfera politica, presupponendo quest’ultima come unica tutrice degli interessi della comunità nazionale. - Sviluppo del nesso solidaristico, considerando ogni elemento individuale o collettivo quale parte integrante della comunità nazionale, soggetto di doveri e conseguenti diritti. - Affermazione della partecipazione responsabile di ogni connazionale alla vita e quindi anche all’ economia della Nazione, secondo un criterio selettivo, meritocratico e gerarchico. Riteniamo che, una volta imploso il capitalismo di Stato marxista, il liberal – capitalismo sia l’unica, esatta negazione dei postulati su accennati. Nella realtà, entrambi i sistemi hanno declassato la funzione politica alla gestione dell’economia. Ovvero, hanno privilegiato la materialità insita nell’economia, consona ad una progressiva laicizzazione e secolarizzazione dello Stato. Oggi trionfa una concezione individualistica e darwiniano dell’uomo, riducendo le comunità a società (nota) e recidendo i nessi di ogni autentica solidarietà che non fosse né l’assistenzialismo statale corruttore della volontà e del carattere, né il caotico scontro delle parti che vede prevalere i più spregiudicati e i lobbisti e non certamente i migliori. Il tutto in nome di ipocriti principi di uguaglianza e libertà, quando non del feticcio del libero mercato. In tal modo si è sempre più approfondito l’abisso tra oligarchie politiche, economiche e finanziarie e i popoli ridotti a masse proletarizzate, votate a vendere il proprio lavoro e le proprie qualificazioni per consumare, in quantità e qualità non secondo i bisogni naturali e le capacità produttive della Nazione, ma secondo gli interessi e le induzioni provenienti dai potentati economici – finanziari. LA QUESTIONE MONETARIA entrando nel merito delle singole questioni economiche, cominciamo con il dire che, se la moneta è un bene simbolico avente la funzione di facilitare lo scambio di beni e servizi, essa non può eccedere il valore della somma dei beni economici prodotti: ogni eccesso di denaro rispetto alla disponibilità dei beni in circolazione risulta, così, una ipoteca sulla ricchezza che si produrrà in futuro, causando la ben nota inflazione che va a falcidiare stipendi e salari . In effetti, anche il prestito bancario presuppone che la maggiore disponibilità nell’oggi sia ripagata con la necessità di consumare di meno nel futuro (restituzione del prestito); con l’aggravio di dover pagare un certo tasso di interesse (l’usura come equivalente di tutto quanto eccede in modo arbitrario il costo del servizio bancario) D’altra parte, è necessario che una parte della ricchezza prodotta non venga subito consumata, ma sia risparmiata per impegni futuri (investimenti e opere pubbliche) che accrescano qualitativamente e quantitativamente i beni prodotti o sopperiscano a particolari situazioni di crisi o carenze. Chi risparmia opera un servizio meritevole verso la comunità nazionale e la sua disponibilità va quindi premiata con un giusto tasso di interesse. In sostanza, il premio al risparmiatore – creditore dovrebbe essere ripagato dal debitore, mentre la banca dovrebbe – ribadiamo – trattenere dal dabitore e dal creditore il solo costo del servizio reso. Ogni tasso ulteriore oppure ogni prestito eccedente i flussi di cassa, si risolvono in una appropriazione indebita di ricchezza nazionale in cambio del puro nulla del simbolo monetario. Se poi alla moneta convenzionale aggiungiamo i titoli di credito emessi dalle banche senza alcuna ragionevole copertura (la cosiddetta leva finanziaria) e i puri accrediti elettronici che hanno il potere di rendere ubiquitaria e sempre più astratta una ricchezza tutta ipotetica, possiamo renderci conto della perversione insita nella moderna struttura finanziaria che (s)regola l’economia moderna. Il cuore del sistema si situa lì: in una finanza che ha trasformato le banche in apparati produttivi invece che in istituti erogatori di servizi e la moneta in merce equiparata a qualsiasi altra merce. Sicché la vera truffa ai danni di tutti i popoli della terra – ribadiamo - si opera nel baratto tra una ricchezza simbolica e la ricchezza fatta di beni reali. La mercificazione della moneta si coglie benissimo nelle speculazioni sulle valute nazionali: gli ultimi dati disponibili ci dicono che oggi solo il 5% degli scambi valutari copre normali transazioni commerciali; il restante 95% riguarda acquisti e trasferimenti speculativi effettuati in borsa, nella circolazione di titoli e sulla base delle oscillazione dei cambi. A ciò si aggiunga il travaso dei capitali d’investimento dall’economia produttiva ai prodotti finanziari (obbigazioni, titoli di borsa, futures, edge found, ecc.) che promettono sempre una più alta e sicura redditività. Anche in questo modo, oltre a togliere “ossigeno” all’economia reale, si crea moneta virtuale che si ripercuote sul sistema economico come spinta inflattiva la quale – se può lasciare indifferenti i possessori di grandi capitali, ovvero i soggetti di queste speculazioni – va a ledere pesantemente il potere d’acquisto di salari e stipendi. Occorre sottolineare come l’usura e la speculazione monetaria abbiano trovato il supporto di leggi e di prassi governative che ne hanno consentito l’affermazione incondizionata nel nome del feticcio del libero mercato e della libera circolazione dei capitali. Pertanto, qualsiasi atto di rigenerazione politica deve partire appunto da un intervento radicale sulla struttura finanziaria; con la consapevolezza che, sebbene non sia sufficiente a realizzare il progetto rivoluzionario che auspichiamo, nondimeno risulta necessario per scardinare quello che è il cuore del sistema liberal - capitalista. Lo Stato come la più alta manifestazione politica del principio trascendente che regge la comunità nazionale, è l’unica istituzione legittimata a battere moneta e a governarla; ad Esso non possono sostituirsi né organismi privati interni alla Nazione né enti sovranazionali (nota ue). In virtù dei fini solidaristici e anti utilaristici garantiti dallo Stato stesso, la quantità di moneta emessa deve essere in linea di massima rapportata alla sommatoria di beni e servizi prodotti. Secondo i principi keynesiani (nota Keynes) che facciamo nostri, lo Stato può derogare da questa regola quando ha bisogni di capitali da investire soprattutto per grandi opere infrastrutturali, eventi straordinari e di gestione del territorio (investimenti produttivi). In tali casi può immettere un surplus monetario nell’economia con la ragionevole certezza di creare risparmi futuri e nuova ricchezza che riassorbono la spinta inflattiva (nota). Nell’ordinario, per il sostentamento dei propri organismi e per espletare le proprie funzioni – che sono di tipo terziario e notoriamente improduttivi – lo Stato deve necessariamente ricorrere alla normale imposizione fiscale o ricorrere al prestito pubblico, il quale ha il vantaggio di mobilitare e tutelare il risparmio privato nazionale (Nota) e drenare una massa monetaria potenzialmente inflattiva. Naturalmente al risparmiatore va corrisposto un tasso di interesse stabilito dalle autorità finanziarie in base alle previsioni di ricchezza prodotta (PIL). Va sottolineato che se l’amministrazione pubblica può garantire un tasso minimo di interesse annuo al risparmiatore in virtù delle entrate fiscali, essa ha il dovere di fronte allo Stato e alla Nazione di esercitare una corretta e oculata amministrazione del patrimonio pubblico; nell’ottica di limitare l’indebitamento dello Stato e perseguire efficacemente gli obiettivi della legge finanziaria annuale. Poiché sull’oculatezza, sulle competenze amministrative, sulle capacità progettuali nonché sul mantenimento degli impegni assunti si basa l’onore e la fiducia di cui gode lo Stato, ogni trasgressione in tal senso va considerata come un attentato contro lo Stato e punita di conseguenza. In questa nuova architettura finanziaria le banche private vanno distinte in “casse di risparmio” e “banche di investimento”. Le “casse di risparmio dovrebbero avere la primaria funzione di raccogliere il risparmio (equivalente di beni non consumati) ed erogano prestiti destinati all’acquisto di beni. La banca assicura ai risparmiatori un premio al tasso fisso positivo stabilito dalle autorità finanziarie che nel contempo prelevano dai debitori applicando un equivalente tasso negativo. In tal modo non si crea moneta dal nulla ma si opera un semplice trasferimento di ricchezza reale da un soggetto (il creditore) all’altro (il debitore). Le “banche di investimento” raccolgono il risparmio destinato ad essere capitalizzato per nuovi investimenti (produzione di nuova ricchezza o miglioramento di quella esistente). In tal caso al risparmiatore non è assicurato nessun utile a priori. Il suo conferimento si traduce in un titolo di partecipazione al capitale dell’impresa che va a finanziare e ricaverà un utile solo se l’impresa produrrà nuova ricchezza. Naturalmente i costi dei servizi di amministrazione tecnica e di intermediazione prestati dalle banche sarebbero egualmente ripartiti tra risparmiatori e debitori. Entrambe le tipologie di banche andrebbero poi consorziate secondo il principio di sussidiaretà e la loro attività sarebbe sottoposta al controllo dello Stato; in sostanza, esse resterebbero di diritto pubblico seguendo la stessa normativa generale soprattutto in termini di tassi di interesse praticato ai debitori. Resta il problema di quell’aliquota di moneta che rappresenta i beni soggetti al consumo e che dovrebbe estinguersi, con la scomparsa del bene stesso (il problema della moneta prescrittibile di E. Pound). Oggi questo problema può essere superato da una economia in grado di sottrarre la produzione di beni e servizi agli eventi ciclici, come avveniva nell’economia pre – industriale, e stabilizzarli nel tempo. Una moneta sovrana, stabile e forte, rappresentativa della ricchezza creata concretamente, oggi potrebbe trovarsi svantaggiata nei regolamenti internazionali, nei confronti di valute sottoposte alle oscillazioni speculative o a svalutazioni competitive (NOTA); oppure, ancora condizionate da una moneta madre come il dollaro; il quale non offre nessuna garanzia e varia il suo valore in ragione degli interessi mutevoli dell’economia statunitense. Inoltre gli USA sono in grado di ricattare e condizionare anche Nazioni economicamente più forti, in quanto l’alto livello di consumi di una popolazione di oltre 250 milioni di abitanti fa degli USA la più importante area di mercato del mondo con la quale debbono fare i conti tutte le altre Nazioni industrializzate. Un nuovo ordine economico deve, quindi, liberarsi dalla ragnatela tessuta dall’oligarchia finanziaria che ha eletto a proprio spazio di manovra gli USA, ma anche dalla City, e dai santuari finanziari dell’UE, i quali, peraltro promuovono un liberoscambismo anarchico viziato da rapporti di forza impari. Anche in questa prospettiva va affrontata l’ipotesi di uno spazio economico autocentrato e il problema dei regolamenti internazionali. Nel caso di scambio commerciale mediato da due monete facenti parte di sistemi diametralmente opposti (moneta “merce” usurocratica contro moneta “lavoro” tradizionale), noi pensiamo che siano da privilegiare forme di baratto come gli accrediti di merce a pagamento di altra merce di pari valore ( per esempio: metalli di alto valore tecnologico contro merci non deperibili). L’IMPRENDITORE COME CAPO DELLA MILIZIA DEL LAVORO L’obiezione più banale ad una riforma finanziaria così radicale, nella forma e nella sostanza, è che essa finirebbe per reprimere lo spirito imprenditoriale che, secondo l’etica liberista, trova la motivazione più forte proprio nell’aspettativa di guadagni lucrosi. E’ nostra convinzione che se per spirito imprenditoriale intendiamo un insieme di doti caratteriali quali l’inventiva, l’accettazione del rischio, le capacità organizzative, la volontà di porsi e perseguire determinati obiettivi, una spiccata attitudine al comando, una intelligenza pratica; ebbene, noi possiamo riscontrare come tale spirito sia sempre esistito ed abbia sempre caratterizzato alcuni individui o alcuni gruppi all’interno di comunità più vaste. Anche nelle fasi storiche pre moderne che, dal punto di vista produttivo, vengono definite eo - tecniche o paleo - tecniche, l’artigiano, il contadino e anche il mercante non erano privi di un certo grado di attitudini imprenditoriali. Certamente, tali attitudini hanno trovato la possibilità di espandersi e di diventare preminenti con l’affermazione della rivoluzione industriale, a cavallo tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo; ma lo spirito imprenditoriale va distinto dall’etica del profitto, che ha di mira il guadagno e la ricchezza fine a sé stessa. Non dobbiamo nemmeno dimenticare o ignorare che una certa aspettativa di guadagno è imprescindibile dalle motivazioni che spingono all’impresa produttiva; ma tale aspettativa, se appare necessaria per la stessa vita dell’azienda, è solo uno degli stimoli ad agire e si compendia in quelle pulsioni anti utilitaristiche alle quali abbiamo accennato prima. Di contro, l’etica del profitto ama poco il rischio e ancor meno la fatica e il coinvolgimento in attività che assorbono le intelligenze e le personalità nella loro interezza: essa si manifesta con la predilezione per gli affari (il business) e la mercatura, i giochi finanziari e le acquisizioni immobiliari. Ora, sia nel caso dello spirito imprenditoriale sia nel caso dell’etica del profitto, ci troviamo di fronte ad inclinazioni dello spirito borghese, pervaso da una mentalità pragmatica, avvinto dalla materialità dell’esistenza ed espressione di una attitudine calcolante piuttosto che meditante. Ma l’aver confuso e commisto indiscriminatamente spirito imprenditoriale e etica del profitto è stata una grave distorsione ottica delle scienze sociali e politiche. Paradossalmente, questa commistione è stata sostenuta sia dal liberismo economico che dal pensiero di scuola marxista: per il primo essa è servita a giustificare ogni assenza di regole e vincoli all’attività economica (libertà di impresa uguale a libertà di profitto uguale a sviluppo economico); per il secondo, la demonizzazione del profitto ha coinvolto anche un sano e regolato spirito di impresa (con esiti disastrosi per il “social - capitalismo” dopo appena 75 anni dalla rivoluzione di ottobre). Dal nostro punto di vista, la polarizzazione dell’impresa unicamente sul profitto ha fatto emergere un tipo umano patologicamente materialista ed egoista, sradicato, edonisticamente ripiegato su una soglia di piacere sempre più alta: egli costituisce una autentica degenerazione dello spirito imprenditoriale. Le attività borsistiche, le partecipazioni multiple o incrociate, le holding finanziarie ci mostrano un ceto capitalistico sempre meno legato alle proprie aziende e sempre più attento alle azioni possedute; sempre meno presente nei reparti e sempre più impegnato nei consigli di amministrazione. A ciò si aggiunga in particolare la voracità delle holding, il loro gigantismo in grado di mantenere in pugno o destabilizzare le economie di intere nazioni, la prassi di controllo societario con una minoranza di azioni, il perseguimento di capital gain a breve e ad ogni costo; per non parlare di tutte le forme speculative che fanno turbinare ogni giorno migliaia di miliardi di ricchezza astratta ed inflattiva. (nota delocalizzazioni) Noi riteniamo che le aziende non possono essere considerate beni privati alla stregua di qualsiasi altro bene privato: esse operano grazie al lavoro di una pluralità di soggetti, assorbono risorse ambientali (territorio, infrastrutture, beni naturali e materie prime), intelligenze e competenze; si avvalgono spesso del sostegno finanziario dello Stato o del risparmio pubblico. Pertanto, esse costituiscono un bene nazionale non sottoponibile all’arbitrio del singolo, ma posto al servizio della comunità nazionale secondo il principio organicistico che vuole ogni settore della società saldamente connesso alla totalità e collocato in un ordine gerarchico di ranghi e funzioni. Quindi, nel nuovo ordine economico che prefiguriamo, le capacità imprenditoriali dovranno avere un ruolo centrale nel ceto produttivo: l’imprenditore dovrà trovare le condizioni più favorevoli per esprimere tutte le proprie potenzialità; sempre e comunque all’interno di un insieme di indirizzi programmatici e degli orientamenti politici generali. Anzi, la figura dell’imprenditore, rigenerata e liberata dall’ossessione del profitto, deve trovare nelle norme e nelle nuove istituzioni del lavoro non un vincolo frenante ma un sostegno alla propria funzione; in considerazione anche del fatto che, oggi più di ieri, le doti imprenditoriali sono disgiunte dal possesso del capitale e si configurano come eminenti capacità tecniche e organizzative (menagement). Superare il capitalismo nella nostra èra senza precipitare nella recessione produttiva e nella crisi socio – economiche, consiste essenzialmente nel sostituire alla spinta motivazionale del profitto – propria di una società laico – materialista, ragioni e finalità etico – spirituali. Non bastano, quindi, apparati legislativi se essi non interagiscono con valori rigeneranti, vissuti con naturalezza ed affermati comunitariamente, per emanazione ed educazione, da una élite politica che possa agire incondizionatamente fuori da ogni pastoia democratica. D’altra parte, la capacità dello Stato di mobilitare verso comuni obiettivi tutte le energie della Nazione, fa di ogni membro di questa un “milite” del lavoro, partecipe emotivamente e e consapevolmente del proprio ruolo. In questo contesto, l’imprenditore, prima ancora che padrone o socio di maggioranza, è il capo di una “milizia del lavoro” e, in quanto tale, responsabile verso lo Stato del proprio operato. Solo a questo punto, il lavoro e, più in generale l’economia, risultano depurati dal capitalismo e dall’individualismo liberista di stampo darwiniano, mantenendo intatte le potenzialità dell’apparato economico – produttivo, così come si è affermato storicamente in Europa e in occidente.
LA MILIZIA DEL LAVORO NELL’ECONOMIA ORGANICA Se dunque, come abbiamo detto, l’imprenditore deve assumere la veste e il ruolo di un capo, i prestatori d’opera assumono, ad ogni livello quella di militi del lavoro; tutti insieme tesi verso obiettivi che trascendono le singole individualità, con spirito di partecipazione e di servizio verso la comunità nazionale. Se questa figura del milite del lavoro può richiamare l’”operaio” jungeriano per l’impersonalità dell’azione e la tensione etica elementare, decongestionata da ogni individualismo – nonché per la suggestione di una metamorfosi antropologica, attivata da un ambiente totalmente meccanizzato -essa, in effetti, risulta solo una figura parallela a quella del’”operaio” in quanto non deve affrontare con impatto violento il mostro di acciaio e di fuoco di un secolo fa. Il nuovo operaio rimane avvolto, in modo meno violento ma più profondo, in un ambiente tecnomorfico che pervade ogni segmento ed ogni livello dell’esistenza. Quel processo di rigenerazione umana che Junger immaginava come un evento traumatico, favorito dall’ambiente ostile del paesaggio tecnologico, oggi va perseguito in un ambiente tecnologico e socioeconomico diverso, dove la meccanica pesante risulta ridimensionata a favore dell’elettronica, della robotica e del terzo settore. Assistiamo così a due fenomeni concomitanti: la riduzione dei prestatori d’opera legati all’azienda per tutta la vita lavorativa e la nascita del precariato, con una generale riduzione del reddito individuale e familiare. Tutto ciò ha fatto perdere forza contrattuale alle organizzazioni dei prestatori d’opera (nota delocalizzazioni) e ha fatto parlare di sproletarizzazione in nome di una via individuale alla qualificazione professione e al ruolo sociale dell’uomo che si fa da sé. Anche in questo caso la narrazione corrente è mistificante in quanto ogni libera attività deve essere una scelta o una vocazione personale e non un capestro come il precariato o i lavoretti temporanei che hanno fatto sorgere nuove forme di proletarizzazione, aggravate da una indigenza cronica e dall’alienazione psicologica di ogni senso di libertà e dignità. Il fenomeno sintetizzato dal termine comunemente accettato di “proletarizzazione” è stato uno dei processi più delittuosi compiuti dal nascente sistema industriale contro l’uomo. Privati della loro autonomia lavorativa, il contadino, l’artigiano, il pastore, il mercante, una volta costretti a diventare operai, non hanno perso soltanto una buona parte della loro libertà concreta, ma hanno alienato l’aspetto centrale e basilare della loro personalità: il lavoro come “arte” e il ruolo che esso conferiva loro nel corpo sociale. La radice psicologica dell’individualismo di massa si situa proprio lì. Nella fabbrica, spersonalizzati i beni di consumo secondo logiche seriali e universali, spersonalizzati e dequalificati i produttori, resi a loro volta intercambiabili, il lavoro è diventato solo un mezzo di sostentamento, spesso faticoso e alienante, e non il modo con cui dare dignità e senso alla propria esistenza, qualificando e rendendo distintiva la propria persona nel multiforme ordine sociale. Ai vincoli naturali di una comunità organica e molteplice, cesellati dal tempo e modulati dal divenire storico, si sovrappongono così, in un processo involutivo, i vincoli di una sovrastruttura socio – economica pervasiva e totalizzante, tale da condizionare la vita di una intera Nazione: dal singolo cittadino allo Stato, ai soli fini di mantenere efficiente e sempre più intenso il flusso dalla produzione al consumo che scorre nell’alveo usurocratico. Dalla proletarizzazione e dall’individualismo di massa alla percezione dell’esistenza come pura materialità fino all’attuale addomesticamento consumistico ed edonistico il passo è breve e conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, come la metastasi usurocratica si sia sviluppata a più livelli trasformando le sue vittime principali – i popoli ridotti a masse – nei suoi migliori alleati. Sicché tutto il disagio – per usare un eufemismo – che ci è provocato dalla modernità, appare ai più come un fatto ineludibile, il male minore, il prezzo da pagare alla “modernità” e al mito del progresso, nell’illusione di una libera scelta che si sostanzia nei rituali democratici. Insomma una parodia della vera partecipazione responsabile; sicché le supposte libertà democratiche appaiono ai più come logico e naturale corrispettivo politico del libero mercato capitalistico, che non una grande mistificazione anti tradizionale che ha condotto ad una eclissi dei valori umani più autentici. Da queste succinte considerazioni, la reintegrazione dell’uomo moderno nella sua fisionomia originaria ci appare come un’opera immane; ma le nostre linee di azione restauratrici possono partire proprio dai luoghi di alienazione più efficienti, gli ambienti di lavoro, e trasformare il veleno in farmaco. IL NUOVO CORPORATIVISMO Come si vede, lo sforzo da compiere è quello di delineare, ieri come oggi, una nuova e antica forma di economia incompatibile con qualsiasi forma di capitalismo. In questa ottica il termine corporativismo non ci soddisfa del tutto in quanto, nell’esperienza teorizzata e attuata dal Fascismo o prima ancora dalla dottrina sociale della Chiesa, il corporativismo fu, più che altro, un sistema d’ordine all’interno di rapporti di forze che risultavano troppo squilibrati a favore del capitale ed erano forieri di un conflitto sociale classista che rischiava di porre in crisi l’unità della nazione e svuotare l’autorità dello Stato. Il corporativismo, ancora oggi, nei suoi teorizzatori, non affronta il problema di una radicale trasformazione dei meccanismi economici e di una rigenerazione dei soggetti del sistema produttivo. Permane in esso l’accento sulla funzione sovra ordinatrice e di indirizzo di sviluppo economico spettante allo Stato e la necessità di ricomporre i conflitti tra i soggetti sociali, sorti all’interno del capitalismo e semplicemente accettati in quanto tali. Senza parlare dello scarso peso analitico rispetto al ruolo dell’alta finanza ed a quello della tecnocrazia nel sostenere quei processi di espansione globalista graditi all’usurocrazia. Quindi, seppure alcuni aspetti ci appaiano certo condivisibili come principi generali, la risposta corporativa ci appare assolutamente insufficiente; tanto è vero che non poche imprese capitalistiche, in diversi momenti, hanno attuato specifiche autoriforme riferibili a principi corporativi, corrispondendo, per esempio una parte di utili ai prestatori d’opera, sotto forma di incentivazioni e premi di produzione, per non parlare della costituzione di consigli consultivi degli stessi. La stessa pratica di concertazione dei piani aziendali, da un lato con lo Stato e dall’altro con i sindacati, è una prassi ormai consolidata. L’obiettivo finale resta, dunque, il superamento dello stesso corporativismo conservando di quest’ultimo quelle esperienze e quelle soluzioni coerenti con il nuovo ordine economico che andiamo delineando. In sostanza prefiguriamo l’unica forma di Corporativismo compatibile con i principì fondati su postulati tradizionali: un Corporativismo verticale – in quanto strutturato secondo il modello medievale di equilibrio tra vincoli e autonomie – e anagogico, in quanto attraverso i suoi rami irradia dall’alto verso il basso l’influsso benefico di una autorità spirituale. Una forma di Corporativismo che valorizza sì il lavoro e i soggetti economici (imprenditoria e Fronte del lavoro) ma in ragione di una loro dignificazione e del superamento della materialità insita in ogni attività produttiva - non ultimo il profitto fine a sé stesso - subordinandoli alla sfera politica e spirituale senza eccezioni di sorta. In sostanza, i corpi intermedi, strutturati per professioni, arti e mestieri, avrebbero più un ruolo propositivo che non deliberativo, più una funzione esecutiva e organizzativa che non luogo di decisioni. Siamo, quindi, ben lungi dallo “Stato Nazionale del Lavoro”, il quale rimane più vicino alla “Repubblica fondata sul lavoro” che allo “Stato Olocratico Nazionale”; così come siamo lontani dall’idea di un parlamento delle categorie economiche, con assoluta potestà legislativa (corporativismo orizzontale). Oggi esso è vagheggiato da un certo neo – destrismo che mira a richiamarsi acriticamente all’esperienza fascista della “Camera dei Fasci e delle Corporazioni”. Facendo salva la buona fede e la poca chiarezza di idee di chi lo propugna, questo tipo di soluzione non sarebbe altro che una tecnocrazia allo stato puro, istituzione ottimale per il governo delle province dell’impero usurocratico capitalista. Ciò che noi immaginiamo di ulteriore è un “Senato” o, se si preferisce, un “collegio” che raccolga l’élite della nazione nei settori extra – economici; quali, per esempio, nei corpi della politologia, della religiosità, della cultura, della giustizia, dell’apparato militare, della scienza e della tecnologia, dell’arte, della medicina, dello sport e così via. Solo una tale aristocrazia – tra la quale, come già accennato, enucleare un “primus inter pares” – deve avere le chiavi del governo ed essere sovraordinata all’organizzazione corporativa dell’economia, con funzioni di stimolo e di controllo politico, nel solco della nuova civiltà scaturita dal processo rivoluzionario neo fascista. In sintesi noi propugniamo un inedito “Socialismo Aristocratico”, espresso nell’ambito di una “economia organica; laddove il termine “socialismo” richiama l’imperativo morale dell’equità e della solidarietà e “aristocratico” la prassi selettiva per una gerarchia delle competenze all’interno delle corporazioni e delle funzioni all’interno della nazione; mentre per “economia organica” si intende proprio quanto racchiuso semanticamente nel termine organico, cioè una economia funzionale ad un centro motore (lo Stato) e strumento di vita della totalità nazional – popolare.
NUOVA SOCIALIZZAZIONE Il milite del lavoro che prefiguriamo deve, quindi, poter assurgere ad una dimensione spirituale comunitaria; ovvero riscoprire, come durante l’epopea fascista, il sentimento di appartenenza ad una comunità nazionale, l’orgoglio di far parte di un un ceto o una categoria qualificata avente la padronanza delle tecniche del proprio lavoro, del ruolo e della funzione economica che si è chiamati a svolgere; così come nell’epoca preindustriale valeva per ogni singolo membro della comunità. Su questa ricomposizione, in grado di articolare in modo spontaneo una gerarchia naturale all’interno delle aziende, occorre sancire legislativamente le forme di partecipazione alla vita delle unità economiche in cui si è inseriti. Già nella società industriale contemporanea abbiamo visto alcuni tentativi innovativi che andavano nella direzione da noi auspicata. Per esempio, in Germania, la mitbestimmung, è una legge estesa dal 1976 a tutte le aziende con più di duecento dipendenti, che prevede la partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori ai consigli di amministrazione. Sul versante dell’automatizzazione dei modi di produzione, siamo in una fase incerta. Certamente possiamo dare per superato il taylorismo delle vecchie linee di montaggio; ma se la tendenza è quella di una progressiva robotizzazione dei processi di produzione, la concorrenza qualitativa che ancora si gioca in settori di alta gamma tecnologica richiede l’apporto di una intelligenza flessibile e auto riflessiva che nessuna intelligenza artificiale potrà mai dare. Assistiamo, quindi ad una rivalutazione del fattore umano che, non essendo più una semplice appendice della macchina, diventa protagonista responsabilizzato del proprio lavoro, chiamato ad esprimere una professionalità pienamente coinvolta nell’oggetto della propria attività e per estensione nella vita dell’azienda. Tuttavia, non dobbiamo enfatizzare eccessivamente queste forme organizzative che rimangono pur sempre degli aggiustamenti interni, utili al buon funzionamento del capitalismo e non certamente volti al suo superamento. Difatti, in nome della logica del profitto e grazie alle facilitazioni offerte dai mercati globalizzati, assistiamo sempre più a pratiche di delocalizzazione produttiva, ad aziende sane svendute o dismesse; il risultato conseguente è sempre un impoverimento del patrimonio economico – produttivo nazionale e soprattutto la dispersione delle competenze tecniche e professionali dei prestatori d’opera. A completare il quadro d’insieme assistiamo, di conseguenza, ad un progressivo impoverimento delle categorie produttive inferiori e il diffondersi di un precariato sottopagato per lavori infimi, che insieme alle masse di allogeni costituisce la “massa di riserva” che comprime il potere contrattuale degli occupati. In questo disordine sociale che induce a forme di emarginazione e incide pesantemente sulla qualità della vita, l’unica prospettiva che si profila all’orizzonte è l’assistenzialismo generalizzato e ai minimi vitali e l’espulsione sempre più massiccia da un mondo produttivo sempre meglio automatizzato. E se queste deduzioni sembrano frutto di una mentalità complottista, basta leggere quanto prospettano quegli oligarchi ai vertici mondiali che amano disegnare i destini del mondo. Di contro, nel nuovo ordine economico organicistico, partecipazione, modi di produzione centrati sull’uomo, rivalutazione qualitativa dei prodotti e delle forme di consumo convergono a comporre un unico paradigma capace di dar forma ed impulso a tutto il sistema economico. Dunque, un processo di sproletarizzazione del lavoratore e il suo coinvolgimento ressponsabile nell’attività che svolge, secondo il rango che gli compete, suggerirebbe una diretta partecipazione agli utili dell’azienda; anche se ciò porterebbe ad una sperequazione di guadagni tra prestatori d’opera, di pari livello e di pari rango, impiegati in aziende differenti. Un correttivo potrebbe essere costituito dalla “Cassa Nazionale di compensazione”, in cui affluirebbero i soli utili netti (eccedenti salari, stipendi, ammortizzamenti, mutui, fiscalità ecc.) con i seguenti scopi: - in primo luogo redistribuzione degli utili a tutti i prestatori d’opera da effettuare con regolarità e secondo norme stabilita per legge, - accantonamento di una parte di utili in un “fondo” capace di funzionare da ammortizzatore del sistema economico; cioè di compensare flussi e riflussi della massa monetaria in circolazione e di tenere sotto controllo sia le congiunture inflattive che quelle recessive (in caso di inflazione il “fondo” congelerebbe una parte della massa monetaria, mentre in caso di recessione per cause esogene o sovrapproduzione, l’impiego mirato degli utili accantonati si risolverebbe in sostegno concreto e no assistenziale all’apparato produttivo); -acquisto, a nome e per conto dei lavoratori, di quote dell’azienda in cui essi lavorano. Questa iniziativa, se da una parte avrebbe l’effetto di favorire il senso di appartenenza all’azienda stessa, dall’altra ridurrebbe l’indebitamento della stessa azienda con le banche e arginerebbe eventuali capitali speculativi estranei alla vita dell’impresa. E’ necessario sottolineare un altro ruolo dello Stato, da una parte, e delle comunità di lavoro, dall’altra, in una economia “indirizzata” e “partecipata” al tempo stesso: conciliare l’idea di profitto e quella di interesse generale. In particolare, i membri delle comunità di lavoro, nella doppia veste di produttori e consumatori, sono chiamati a collaborare nella definizione dei modo di produzione e alla valutazione del prodotto aziendale, facendo della partecipazione in spirito volontaristico e professionale l’arma vincente per competere sui mercati interni ed esterni, nonché qualificare l’oggetto del proprio lavoro secondo i canoni del bene comune. Da parte sua, l’azione solidaristica garantita dalla tutela dello Stato, affranca il prestatore d’opera dal continuo ricatto del licenziamento, della mobilità a discrezione e della cassa integrazione, così come avviene in forma strutturale nell’economia capitalistica. Pertanto la piena occupazione risulta essere un altro obiettivo qualificante dell’economia organica. Nel sistema produttivo capitalistico, totalmente impregnato della visione individualistica dominante, ogni impresa ha una sua vita, un suo sviluppo e dei suoi cicli indipendenti e autonomi da qualsiasi contesto più generale che non sia il libero mercato e il profitto. A queste logiche è legato il destino di tutti: dall’imprenditore all’operaio. Risultano quindi occupati tutti coloro che percepiscono un salario o uno stipendio, ma la loro condizione è ontologicamente precaria in quanto sempre subordinata ai mutevoli interessi del capitale e alle congiunture economiche. Un sistema di questo tipo non si preoccupa affatto di quanti, pur essendo nella condizione di lavorare, non trovano alcuna occupazione e sono spinti verso l’indigenza. D’altra parte, come abbiamo precedentemente accennato, le prospettive sono quelle di sempre più massicce espulsioni dal mondo del lavoro, sia per lo sviluppo tecnologico che per l’applicazione delle economie di scala, le quali richiedono forti investimenti (nota). Infatti, a dispetto di quanto poteva pensare Marx (nota), al capitalismo usurocratico interessa relativamente poco il numero dei consumatori, quanto piuttosto il livello dei consumi, secondo una capacità di acquisto, che si può benissimo concentrare in un numero inferiore di mani. Queste dinamiche sono la causa della distanza sempre maggiore tra una ridotta aliquota di ricchi e benestanti, un ceto medio impoverito e masse sempre più indigenti. Di contro, nel nuovo ordine economico, così come tutto l’apparato produttivo è orientato e armonizzato dallo Stato, anche la forza lavoro risulta configurabile come un corpo unico, definibile in termini di fronte del lavoro, soggetto di doveri e diritti corrispettivi. L’interdipendenza solidaristica di ogni apparato produttivo fa si che tutto il sistema economico funzioni per i prestatori d’opera secondo il principio dei vasi comunicanti, creando, all’occorrenza, forme di mobilità secondo principi di equità, competenza e necessità: senza alcun arbitrio di licenziamento né da parte dell’impresa né da parte del prestatore d’opera tentato a rifiutare mansioni non gradite. Si fa così strada un nuovo e fondamentale principio: va considerato lavoro ogni attività svolta al servizio della comunità nazionale. Pertanto possiamo immaginare anche l’impiego di prestatori d’opera senza un posto fisso, da impiegare in attività a termine o atipiche, organizzate dalle amministrazioni periferiche o dai corpi sociali, ed in quanto tali compensate da un regolare stipendio. Pensiamo, per esempio, ai tanti lavori di manutenzione e risanamento del territorio urbano e forestale o alle miriadi di attività assistenziali e di supporto agli inabili, agli anziani, agli asociali, oggi svolte in modo aleatorio e incerto dal cosiddetto volontariato. Per l’alto valore educativo individuale e comunitario, non troviamo neanche disdicevoli talune esperienze di lavoro per la gioventù: ci riferiamo alla possibilità di alternare lo studio con il lavoro nei campi e negli opifici artigianali, nelle strutture di servizi o negli ambienti forestali. Tutti ottimi antidoti per educare la gioventù al senso di responsabilità e a disintossicarli dal solipsismo, dall’atrofia mentale e dalla debilitazione psicofisica, causati da un rapporto eccessivo con gli strumenti informatici e i cosiddetti “social”. Appare superfluo sottolineare che solo dando una forma istituzionale al servizio civile in uno Stato finanziariamente sano e non indebitato, è possibile affrontare contemporaneamente una seria lotta alla disoccupazione e una migliore, equa redistribuzione del reddito prodotto tra tutti i componenti del fronte del lavoro, nel quale entrano a far parte per il principio del dovere – diritto tutti i capofamiglia. D’altra parte, se partiamo dal dato oggettivo che rispetto a 100 anni orsono la popolazione italiana è aumentata di quasi 1/3 (da 35 a 60 milioni) ma ha prodotto una ricchezza complessiva 13 volte superiore a quella prodotta dai nostri bisnonni, ci sembra una questione di equità e dignità far partecipe ogni componente della comunità nazionale alla produzione e alla ripartizione della ricchezza nazionale. Ancora una volta l’onore dello Stato si misura non solo per l’autorevolezza ma altresì per la fiducia e nell’orgoglio che riesce a infondere nella comunità nazionale e nell’immagine dignitosa che ogni membro di essa offre di sé. Anche questa è una immagine del nostro Fascismo visionario, lontana dall’angoscia dell’indigenza, dall’incertezza del futuro e dal senso di solitudine che solo “l’affollato deserto” liberal – capitalistico riesce a creare.
BENI E CONSUMO In ogni sistema economico, il consumo dei beni e dei servizi prodotti costituisce l’ultima fase del ciclo produttivo ed agisce sulle fasi precedenti secondo una legge di retroazione positiva: più bisogni equivalgono a più consumi e quindi ad un maggior impulso a tutta l’economia. In verità, in una corretta visione dei fenomeni produttivi, la fase del consumo non può essere il momento terminale di un processo lineare, ma solo l’ arco segmentale di un ciclo che si completa e si chiude con la riorganizzazione della materia sotto forma di “materia prima – seconda”, sia essa di origine organica (mantenimento e potenziamento biochimico del territorio agricolo e forestale) che inorganica (riuso e riciclaggio al netto della dispersione entropica). Questa concezione ciclica è espressa, oltre che dalle dottrine tradizionali (concezione ciclica della vita), anche da una nuova epistemologia scientifica che interpreta la realtà fenomenica come complessità non meccanicistica, ovvero non riducibile e non spiegabile partendo dai singoli elementi che la compongono, ma intesa come totalità dotata di una sua forma e di leggi proprie (olismo), oltreché di un dinamismo intrinseco di scambi e interdipendenza tra le parti e il tutto. In sistemi di questo tipo i fenomeni ciclici e retroattivi sono prevalenti e maggiormente significativi, mentre quelli lineari (fenomeni di flusso) ne sono parti subordinate, quantunque dotati di una propria verità. Questa visione della realtà è estensibile dalla sfera naturale, dove ha trovato la più proficua applicazione alla sfera sociale e culturale; per la logica intrinseca che la sottende e che fa della totalità e dell’organicità ai vari gradi della realtà un paradigma generale. Possiamo quindi dedurre che il totalitarismo organico, tradizionale e fascista, ha anche, ma non solo, un suo fondamento scientifico. Pertanto, il mancato accoglimento del paradigma olistico nella dimensione economica moderna può spiegarsi come la carenza culturale che oggi determina il forte differenziale tra entropia e nega entropia, con accelerazione ed incremento della prima rispetto alla seconda. L’evidenza di questo squilibrio è la chiave per comprendere le ragioni delle crisi ecologiche che minacciano la biosfera e chiamano in causa il sistema produttivo ed economico dominante, non solo nelle sue cause storico – politiche e ideologiche, ma nella sua essenza e nella generale carenza culturali. Di contro l’organicismo che auspichiamo, quale espressione di una cultura superiore, è intrinsecamente ecologista in quanto la Tradizione - oggi fascista - pratica l’”ecologia” della mente e dello spirito. Tale inclinazione spirituale e mentale è stata anche definita ecologia profonda, nella doppia accezione di saper cogliere le ragioni di fondo del disordine ambientale e di percepire quei percorsi economici e politici più consoni e più armoniosi nel rapporto dell’essere umano con l’ambiente naturale. Ritornando al sistema delle merci e dei consumi. Possiamo affermare che nel capitalismo avanzato il rapporto tra mercato e produzione è capovolto: non sono più i bisogni individuali e comunitari a dare impulso alla produzione di beni, ma è il sistema produttivo che crea i bisogni spingendoli verso la forma patologica del consumismo fine a sé stesso. Intendiamo ora indagare le forme e i criteri di consumo, ritenendo necessario che anche in questo ambito si eserciti un’azione di riorientamento. Oggi possiamo dividere i beni di consumo in due categorie sempre più distanti tra di loro: beni di lusso e beni di consumo di massa. Questa suddivisione, operata ai fini fiscali, rispecchia solo in parte un diverso potere d’acquisto dei pochi ricchi rispetto alle masse di salariati e stipendiati. Non è rara l’incursione degli uni nel settore di mercato formalmente assegnato agli altri: i ricchi indossano disinvoltamente i blue jeans e i meno abbienti aspirano e spesso riescono ad acquisire beni costosi, di solito non essenziali, allo scopo di fregiarsi con oggetti che hanno il valore di status simbol. Si va quindi verso una omologazione dei consumi che le multinazionali possono sfruttare mediante le economie di scala, i condizionamenti pubblicitari e le strategie di globalizzazione mondiale dei consumi. Il risultato sono prodotti razionalmente anonimi, che possiamo trovare uguali in ogni angolo del globo, rigorosamente avulsi da ogni contesto culturale e di specificità nazionale. Parallelamente gli stimoli consumistici vengono eccitati verso una pluralità di merci sempre più estesa e in gran parte inutile per cui, in sintesi, ad un aumento quantitativo di beni di consumo si accompagna un loro mediocre livello qualitativo – cosa questa che ne accelera l’usura e l’obsolescenza - . Il fatto poi che il nuovo modello di un bene presenti oggettivamente qualcosa di meglio o in più rispetto a quello che va a sostituire, nulla toglie alla fondatezza di una critica di ciò che è essenzialmente un condizionamento psicologico suscitato ad arte. Sul piano scientifico, l’indagine etologica individua come, in questa rincorsa tra stimoli consumistici e loro soddisfacimento, la cosiddetta “soglia del piacere”, tende ad elevarsi (K. Lorenz); per cui una volta soddisfatto il desiderio di certi beni, subentra una sorta di assuefazione distonica che, per essere di nuovo tramutata nella sensazione del piacere, richiede che il desiderio sia indirizzato verso nuovi e diversi consumi. Le mode e il loro “passare di moda” suscitate ad arte sono il volano di tali comportamenti insensati. Inutile sottolineare che questo continuo attentato all’equilibrio psicologico dell’individuo trova l’uomo moderno sguarnito delle più elementari difese, costituite da una educazione etica, un costume, una formazione interiore vissuti con naturalezza e condivisi con la comunità di appartenenza quali elementi di identità e appartenenza. Ribadiamo, l’annichilimento di ogni altro senso dell’esistenza e la preminenza parossistica del consumo di merci (oltre che della loro produzione) ha fatto parlare a ragione della mercificazione dell’esistenza. Essa agisce – è bene insistere – in modo dissolvente sulle forme della personalità, mettendo a nudo la monade bio – psichica che risiede in ognuno di noi. L’uomo moderno è ridotto così ad un uomo-massa addomesticabile e intercambiabile, degno suddito (o schiavo?) dell’usurocrazia democratica. Di fronte a queste considerazioni, a nulla vale l’obiezione che nello stesso occidente opulento larghi strati della popolazione hanno un limitato accesso al sistema delle merci oppure vivono in uno stato di vera indigenza – per cui la loro aspirazione a maggiori consumi va considerata legittima sotto tutti i punti di vista. Ciò che dobbiamo cogliere è che il consumismo è, anzitutto, una forma di cultura di massa in cui siamo immersi fin dalla nascita. Peraltro, ai nostri giorni, il consumismo sta evolvendo verso forme ancora più dirompenti e dissolutive della personalità. Grazie alla pervasività dei più svariati strumenti di comunicazione audiovisiva, al consumismo delle merci si accompagna lo “spettacolo delle merci” che va a surrogare il reale godimento dei beni, eccitando un puro desiderio. La televisione, la pubblicità e gli altri mass – media propinano in continuazione situazioni desiderabili, condizioni di vita segnati dall’agiatezza, valori giovanilistici di forza bellezza e grazia in pura chiave estetica; insomma tutto l’immaginario spensierato e superficiale di un certo modello anglo - americano che richiederebbe una disponibilità economica non alla portata di tutti. Negli ultimi tempi, poi, i messaggi pubblicitari si sono fatti veicoli, in modo indiretto o subliminale di propaganda di un costume nichilista e libertario (gender in primis) di condizionamenti politici (riduzione del co2, transizione ecologica) e di un’etica antireligiosa (dalla blasfemia alla simbologia satanista). In ogni caso, il mezzo tecnico diventa l’interfaccia che consente la percezione del bene e al tempo stesso separa da esso, rendendo possibile una sorta di simulazione astratta del suo godimento: l’esperienza diretta si surroga con un simulacro di esperienza e alla fine tutta la vita si riduce ad un simulacro di vita. Tutto ciò inibisce non solo le nostre facoltà sensoriali, ma soprattutto isterilisce la sfera emozionale, tanto da far parlare di vita cibernetica, spiritualmente fredda, a cui si assiste e non si partecipa. Davanti ad uno schermo televisivo, ad un video gioco o al fluire cromatico dei dati di un computer, amore e odio, paura e coraggio, entusiasmo e orrore, diventano sempre più rari e evanescenti. Appare evidente come in questo ulteriore crepuscolo della personalità, il potere usurocratico può vendere anche l’immagine di un bene o ciò che si associa ad esso in sostituzione del bene stesso; o viceversa vendere un bene, di solito superfluo, per l’immaginario che tende ad associarsi ad esso. Questo meccanismo bidirezionale opera attivamente nella sub-cultura delle società capitalistiche, allo scopo di creare non solo comportamenti consumistici ma anche consumi comportamentali. Questa incursione nelle più avanzate acquisizioni delle scienze comportamentali (Lorenz, Braudillard) ci è apparso utile per evidenziare che il consumismo non è un fatto semplicemente economico. Esso rappresenta una degenerazione ipertrofica di un comportamento naturale; una degenerazione la quale ha consentito all’economicismo di invadere, oltre che gli ambiti sociali, politici e ideologici, anche il dominio della personalità, provocando, come abbiamo appena detto, l’alterazione e la sconnessione di capacità sensoriali, facoltà sentimentali e sensibilità spirituali. Ma per comprendere appieno il livello di pervasività del sistema industriale capitalista e dell’usurocrazia che lo sovrasta, dobbiamo ripercorrere come esso si è evoluto (o involuto) dal secolo scorso ad oggi. Siamo partiti dalla catena di montaggio del “Taylorismo”, atta ad una produzione di massa seriale, dal costo per unità di prodotto contenuto, per arrivare alla qualità totale, altrimenti detta Toyotismo, dall’omonima compagnia multinazionale; cioè un criterio di organizzazione aziendale che ha avuto la prima e più proficua applicazione nel Giappone dei primati economici. Il fine ultimo risulta essere la realizzazione di un prodotto perfezionato al massimo livello e tendente al minimo rapporto prezzo – qualità, tale da favorirne il successo rispetto alla concorrenza. L’esperienza giapponese insegna che risultati di questo tipo sono ottenibili attraverso una riorganizzazione del lavoro di fabbrica che comporta una riduzione dei livelli gerarchici, il lavoro di gruppo, l’incentivazione dei livelli più bassi al controllo qualitativo del proprio lavoro; quindi la partecipazione attiva alla gestione aziendale, con suggerimenti e proposte ed un continuo flusso informativo dall’alto verso il basso e viceversa. Tutti valori organizzativi sicuramente positivi da implementare anche nelle future aziende socializzate. Ma il kaizen aziendale (così viene sinteticamente definita questa nuova filosofia aziendale) non appare sufficiente se non si accompagna ad una approfondita conoscenza del segmento di mercato al quale l’azienda intende rivolgersi (questo avviene mediante le famigerate profilazioni) e ad una particolare cura della clientela: con essa si tenta di allacciare un rapporto di fiducia continuativo, offrendo un plusvalore simbolico che va ben oltre il significato di status simbol per marcare una sorta di identità e di appartenenza. Allorchè si riesce a trasferire lo spirito del kaizen anche al settore commerciale (marketing) e quindi alla potenziale clientela, si può parlare di qualità totale di tutto il sistema azienda. Infatti, il concetto di qualità totale si compendia con il criterio di “produzione personalizzata di massa” (mass costumization), cioè di prodotti che partono da un modello archetipico ma sono concepiti in modo che nelle mani del consumatore possono diventare flessibili “strumenti espressivi dell’individualità”, “dal potere differenziante”, in grado di comunicare una condizione elitaria di gusto e di stile; a nostro parere solo illusorie e parodistiche rispetto ai sani criteri di identità e appartenenza. Quindi, i contenuti che fissano la fisionomia della propria appartenenza non sono più da ricercare in una religione, una lingua, un costume, nella collocazione in un corpo sociale, in un ceto, in una Nazione, in una entità etno – culturale. Nella società secolarizzata, questa insopprimibile pulsione all’identità e alla percezione di sé si presta ad essere surrogata da tutto l’artificioso immaginario che la nuova “filosofia” produttiva ambisce ad associare alle merci. Quindi, le merci si avviano a soddisfare aspettative immateriali (dire “spirituali” appare eccessivo anche agli apologeti del sistema); ovvero, in società come la nostra, anche i “valori” si avviano ad essere trasformati in beni commerciali. Come vedremo in seguito, se nelle nuove strategie di dominio globale anche le pulsioni identitarie, comunque modulate e deformate dal consumismo, dovessero essere di intralcio, la soluzione è semplicemente lo sradicamento di tali pulsioni, cancellarle dall’animo delle masse, come di fatto sta già avvenendo ai nostri giorni. Ma c’è di più. Con la saldatura dei concetti di qualità totale e produzione personalizzata di massa, amalgamati dai soliti temi edonistici, progressisti e laici, la sfera economica punta ad arrogarsi il ruolo di un polo di civiltà, in grado di trovare al proprio interno tutte le risposte ai problemi della convivenza civile e, per estensione a quelli dello Stato. Il cerchio si chiude fino ad esautorare la politica dalle funzioni che sono proprie ad essa, fino ad investire la sfera pubblica della stessa “filosofia” tecnica ed organizzativa del mondo economico liberal – capitalista, subordinando ai fini economici ogni azione politica. Siamo al salto dalla qualità totale alla qualità globale, in cui lo Stato viene ridotto al rango di consiglio di amministrazione di quella che già, senza alcuna ironia, viene chiamata “azienda Italia”. Quindi, è bene ribadire: sul piano più strettamente economico, tali obiettivi comportano, insieme ad una intensificazione dei consumi, una riduzione dei tempi di obsolescenza dei prodotti immessi sul mercato, con tutte le distonie ambientali, già denunciate, che vanno ad alterare ancor più il complesso omeostatico “risorse – produzione – consumo – materia seconda”. D’altro canto, le energie indirizzate a risolvere l’ossimoro tra “individualità e massa” confermano come nel neocapitalismo lo spirito della tecnica sia strumentalizzato da un preminente spirito economico – affaristico. Ci siamo dilungati nell’analisi del consumismo perché riteniamo necessario agire con convinzione anche sulle forme di consumo, in modo tale che diventino la “pietra di inciampo” del capitalismo, il cuneo capace di bloccare e mettere in crisi il sistema di produzione e consumo dominante. Questa strategia, oggi, si può perseguire con una azione metapolitica, in parte già in atto nel mondo neofascista, contrapponendo lo “stile” alle “mode”, oltreché attraverso la demistificazione della pubblicità, soprattutto nei messaggi sub liminali, la denuncia degli eccessi e la promozione di comportamenti virtuosamente controcorrente. In quanto poi al modello economico che andiamo prefigurando in uno Stato organico, bisogna partire dall’individuazione dei bisogni individuali e nazionali, e su questi sviluppare una “programmazione di tipo indicativo”; intendendo con questo termine non una imposizione dall’alto secondo i criteri del dirigismo social – comunista ma una serie di interventi (fiscalizzazioni, incentivazioni, agevolazioni, ecc.), duttili e articolati, tendenti ad indirizzare nel senso voluto i vari settori economico – produttivi. Un tale compito di indirizzo spetterebbe, come già accennato, ad un organismo istituzionale corporativo, laddove possono essere organizzate e rese operative le competenze settoriali a fronte delle esigenze generali; fermo restando la subordinazione della sfera economica a quella politico – spirituale. In sostanza la linea di tendenza fondamentale dovrebbe essere una solida autarchia economica, ancora più facile da perseguire in un grande spazio geopolitico unitario come l’Eurasia, alla quale abbiamo accennato in precedenza. Una autarchia contemperata da scambi paritari di risorse eccedenti con altre Nazioni; mantenendosi al riparo dall’influenza e dal condizionamento degli apparati plutocratici globalisti. Nello stesso tempo, ci rendiamo conto che l’organizzazione economica che andiamo delineando, nella visionaria ambizione di dare sicurezza, forza e dignità alla Nazione e allo Stato, sia un obiettivo ambizioso e forse utopico: più un insieme di punti orientativi che una condizione stabile nel tempo, al riparo di quel tanto di insondabile e di umano che si accompagna alla storia dei popoli. Tornando alle forme di consumo, un nostro criterio di “rigenerazione qualitativo delle merci” deve risultare qualcosa di totalmente diverso dalla qualità totale o globale che sia. Il postulato fondamentale è quello di restituire alle merci il loro ruolo strumentale, ordinato a fini superiori; quindi rivolto unicamente a preservare la salute psichica e fisica dell’anima e del corpo delle popolazioni, a conferire sicurezza e potenza alla nazione, a preservare le risorse del territorio per le generazioni future. Solo in tal senso e in ragione dei suddetti indirizzi le merci possono acquisire la dignità di “beni”. Sulla base di questi orientamenti, possiamo prefigurare concretamente una progressiva immissione sul mercato di beni, da un lato ecocompatibili, e dall’altro caratterizzati da sobrietà, funzionalità e durata, recanti l’impronta di chi li produce, espressione della qualità economica della Nazione. Quindi occorrerebbe una forte azione tesa a favorire le piccole e medie aziende a carattere regionale e locale, mediante agevolazioni quando non veri e propri privilegi, necessari a battere la concorrenza delle grandi industrie di trasformazione e distribuzione. Per esempio, dal nostro punto di vista, l’IVA – qualora esistesse ancora - dovrebbe essere valutata, oltre che sul bene in sé, anche in ragione del contenuto energetico inglobato nel metodo produttivo, nei criteri di confezionamento e di distribuzione. Ci sembra inutile sottolineare che, a parità di bene, quello proveniente dalla grande industria multinazionale, inglobando, per sua natura, un maggior contenuto energetico, si troverebbe penalizzato e tendenzialmente fuori mercato. D’altra parte, la spinta retroattiva che criteri di questo tipo eserciterebbero su tutto il sistema produttivo, darebbe vita, per una naturale, quasi fisiologica necessità, ad una nuova fisionomia economica. In essa la grande industria troverebbe il suo naturale spazio nei settori ad alta tecnologia e di valore strategico come quelli elettronici, delle telecomunicazioni, delle infrastrutture, della ricerca, della meccanica pesante, della siderurgia, della chimica e così via. In questi settori, il numero delle aziende risulta necessariamente ridotto per l’alto contenuto tecnico, finanziario e conoscitivo che richiedono; pertanto, il loro inserimento in una economia organica non può obbedire al criterio di una loro diffusione sul territorio, non potendosi nemmeno immaginare per questi settori una qualche vocazione territoriale. In quanto espressione e sostanza strategica della potenza e della sicurezza della nazione sullo scenario internazionale, questi settori produttivi restano sotto la tutela dello Stato che ne controlla lo sviluppo, mantenendoli nell’alveo degli interessi nazionali e delle strutture del “fronte del lavoro”. Insomma, una nuova IRI in un nuovo Stato organico, nel solco della IRI del ventennio; ma ci sarà una avanguardia politica capace di porsi lucidamente tali obiettivi, sovvertitori del liberal – capitalismo, e di perseguirli con lucido fanatismo? IL NUOVO RURALISMO Le nostre linee di rigenerazione tradizionale di tutto il sistema socio – economico chiamano in causa il settore primario per eccellenza: il settore agricolo. Le indicazione che seguono si pongono tee obiettivi fondamentali: perseguire l’autosufficienza alimentare, ripopolare il territorio e, di conseguenza decongestionare le città, invertendo la tendenza epocale di concentrare sempre più la popolazione nei grandi centri urbani, soprattutto nelle periferie, diventate luoghi di emarginazione, di illegalità e di asocialità. Un ulteriore e fondamentale effetto benefico si avrebbe su tutto il patrimonio naturale. Noi siamo convinti che la rinascita del contadinato, della pastorizia e di tutte le attività che si svolgono nell’ambiente naturale siano le strade per una reale salvaguardia ecologica degli ecosistemi. Intendiamoci: a fronte della concezione capitalistica dell’ambiente naturale come risorsa da sfruttare (l’uomo che vive sulla natura), o quella dell’ecologismo utopistico e regressivo (l’uomo “nocivo” da escludere dalla natura) la nostra concezione e appunto di tipo tradizionale, quella di un uomo che vive con la natura, ne trae beneficio ma anche l’esperienza necessaria per conoscere i limiti e modi di approccio ad essa, per assecondarne i ritmi e i rapporti eco – sistemici, preservandola e arricchendola nel tempo. Vediamo invece come si presenta oggi il mondo agricolo. Rispetto al passato, in cui più o meno era il libero scambio mercantile, ovvero l’incontro tra domanda e offerta, a determinare la quantità, la qualità e la tipologia dei prodotti agricoli e il relativo prezzo, oggi sono le grandi catene di distribuzione oppure le aziende di trasformazione a carattere multinazionale ad imporre i prezzi – al ribasso ovviamente – assicurando, in cambio, il ritiro di tutto il raccolto. Anzi, progressivamente riescono ad imporre anche la varietà e la qualità delle coltivazioni a seconda del livello di saturazione dei magazzini di stoccaggio o delle strategie aziendali del momento; quando non arrivano a controllare direttamente vasti territori agricoli, creando, di fatto, un neofeudalesimo plutocratico. Questa subordinazione del settore agricolo alle grandi aziende di distribuzione e trasformazione è la causa fondante del malessere dell’agricoltura, spinta ad adottare metodi a forte impatto ambientale con l’uso massiccio di pesticidi, diserbanti e concimi artificiali. Inoltre, tutte le aziende, per le economie di scala, devono necessariamente razionalizzarsi su grandi dimensioni e dotarsi di una meccanizzazione spinta che riduce il numero degli addetti; salvo ricorrere al precariato schiavistico proveniente dal terzo mondo in limitati momenti lavorativi come la semina e il raccolto. Tutto ciò non è senza conseguenze sia per il territorio e l’ambiente naturale, sia dal punto di vista antropologico. Di fatto, il contadino, che per secoli è stato il più fedele custode dell’ambiente naturale, oggi ne costituisce una minaccia al pari delle altre. Come abbiamo accennato in precedenza, il contadino, proprio in quanto soggetto che trasformava la natura e legava ad essa il proprio destino e quello dei propri figli, accumulava nel tempo una profonda conoscenza dei segreti, dei ritmi, delle forze e dei limiti della propria terra; ed alle sue leggi conformava il proprio operato. Grazie a questa sapienza esperita (nota cultura coltura), all’equilibrio di una natura spontanea subentrava progressivamente un nuovo equilibrio “evocato” dalla piena comprensione di vincoli e limiti ineludibili, manifestazioni di un ordine cosmico superiore al quale il contadino aderiva con spirito religioso. Ora forse si comprende meglio quale visionario e rivoluzionario obiettivo può scaturire da un progetto di ritorno alla terra e ripopolazione del territorio. Quel legame tra contadino e terra, che trascendeva l’utile economico e sublimava la mera fatica del produrre, oggi si è irrimediabilmente sciolto. E la terra è ridotta a bestand secondo l’accezione Heidegerriana; ovvero sostanza senza vita, materia da manipolare e sfruttare secondo i canoni e la tecnologia partoriti dalla folle mentalità modernista. Lo possiamo constatare osservando lo stesso paesaggio agrario e facendo i debiti confronti: piatto, geometrico, intensamente coltivato, sterilizzato da ogni forma di vita animale o vegetale estranea o ritenuta inutile o dannosa, quella delle moderne aziende; ricco della presenza arborea, di ortaglie, zone boschive, tollerata e utilizzata la presenza di piante spontanee e animali selvatici, nel paesaggio dove resiste ancora l’azienda a dimensione familiare. Queste nostre considerazioni non vanno confuse con il cedimento nostalgico per un contadinato estinto, che poco o nulla può avere a che fare con l’ esigenze di rigenerare una agricoltura moderna la quale se da un lato a saputo rispondere all’esigenza vitale di centinaia di milioni di persone, almeno nelle aree più progredite, ha pregiudicato la qualità della vita e l’ equilibrio degli ecosistemi, facendo prefigurare un futuro dai contorni incerti e negativi. Insomma anche il mondo agricolo e zootecnico, come ogni altro settore economico, è stato succube dei criteri capitalistici che, nella logica del profitto, privilegiano la quantità alla qualità e si precludono ogni visione complessiva e di programmazioni a lungo termine che non portino ad un profitto ancora maggiore. Quindi, un riordino dell’economia secondo i criteri di una economia organica, non può trascurare il settore agricolo, chiamato ad assumere un ruolo centrale nel più generale riassetto socio – economico tradizionale; soprattutto per i suoi riflessi sociali e di qualità della vita della nazione. A tale proposito, le esperienze maturate durante i regimi nazionali del secolo scorso ci suggeriscono gli obiettivi da perseguire. In primo luogo, la massima autosufficienza alimentare compatibile con la produttività dei territori agrari; in secondo luogo, l’ampia diffusione di aziende a conduzione familiare secondo il modello degli Erbhofe ideato da W. Darrè. Naturalmente non si tratta di ricalcare pedissequamente un’esperienza maturata in un preciso contesto di conoscenze tecniche e applicata ad un territorio peculiare quale l’est della Germania. Una azienda definita familiare può variare le sue dimensioni ottimali da qualche decina di ettari fino ad alcune centinaia, in ragione delle vocazioni agricole dei territori e delle condizioni climatiche medie. In tal caso, una prima necessità sarebbe quella di conformare le macchine agricole ai diversi tipi di fondi, con positive ripercussioni su tutto il setttore meccanico per una domanda varia e molteplice. In taluni casi sarebbe auspicabile un assetto dei fondi a campo aperto (open field) , regime cooperativistico presente in passato tra i proprietari dei fondi confinanti allo scopo di contenere i costi fissi di talune fasi produttive (acquisto in comune di macchine agricole, accordi sul riposo biologico, sulle semine, ecc.). forme organizzative di questo tipo, oltre a rendere più redditizie le aziende agricole, favoriscono lo spirito comunitario tra le famiglie contadine e relativizzano il concetto borghese di proprietà privata. Come sempre quelle che possono sembrare delle mere soluzioni tecniche, se ben indirizzate, possono avere anche i risvolti sociali che auspichiamo. Invece nelle moderne aziende agricole, degenerate ad industrie di materie prime, vediamo una organizzazione piegata unicamente alla logica del profitto immediato. Specialmente nell’Europa continentale, nelle aree cerealicole e foraggere troviamo da un lato aziende specializzate in allevamenti di bestiame ma senza una significativa produzione di foraggio; dall’altro aziende specializzate nella produzione di foraggio ma prive di bestiame. Ciò risulta contrario ad ogni criterio tradizionale – ma ancor più razionale - di gestione del territorio agricolo, che dovrebbe vedere la compresenza di organismi produttori (le piante), organismi consumatori (l’uomo e gli animali) e organismi trasformatori (organismi decompositori) che chiudono il ciclo della materia restituendo alla terra l’humus che la rende di nuovo fertile e produttivo. Una ciclicità che è un paradigma del pensiero tradizionale, comprensibile solo se si ha lo “sguardo” profondo per penetrare nel mosaico dell’ambiente naturale, fatto di esseri viventi (piante, animali e microrganismi) e delle reciproche relazioni funzionali; un mosaico biodinamico che la cecità dell’uomo moderno vede solamente come bestand, laddove la sua reale percezione guida, modula ma non subisce il lavoro dell’uomo. Le conseguenze di una degenerazione in tal senso sono, da un lato, la presenza di aziende con grave deficit di sostanze organiche humificanti e quindi costrette ad un uso massiccio di concimi sintetici; dall’altra, la presenza di aziende che scaricano nell’ambiente un eccesso di sostanze organiche in decomposizione (reflui e letame) che creano seri problemi di smaltimento e inquinamento. Inoltre, la radicalizzazione di queste due tendenze ha portato prima alla scomparsa dal paesaggio agrario di tutta una serie di coltivazioni succedanee (piante orticole, siepi, filari) e conseguentemente alla scomparsa di tutti quegli insetti e animali di piccola taglia che, in un gioco di competizione e predazione reciproca, inserito in un ecosistema ricco di specie vegetali spontanee, preservava le specie coltivate dagli attacchi parassitari di insetti e specie infestanti. Questo depauperamento risulta essere il più grave dei problemi dell’agricoltura industriale che richiede, di conseguenza, un ricorso sempre più massiccio a diserbanti, antiparassitari, funghicidi e così via. Al punto da far ritenere l’agricoltura non più una attività primaria ma una industria di trasformazione secondaria rispetto al settore chimico, dal quale dipende totalmente. Per non parlare di aziende biochimiche come la Monsanto che detengono il monopolio di sementi sterili e, nello stesso tempo, i trattamenti per la preservazione di colture praticamente ingegnerizzate. E mentre si costruiscono depuratori per fermare l’inquinamento dei corpi idrici da parte di tonnellate di reflui organici e di residui chimici, il terreno agrario diventa sempre più sterile e inerte. Contraddizioni enormi, quindi, che ci danno l’idea delle diseconomie che la logica del profitto capitalistico ed una tecnologia ad esso asservita stanno causando in un settore strategicamente centrale per la vita e l’indipendenza di una Nazione. Nel nuovo ordine economico, prima ancora di una riforma agraria intesa a riportare il contadino alla terra (proprietà familiare inalienabile e non divisibile) ed a sviluppare un metodo di partecipazione comunitaria ai lavori salienti (sistemi a campi aperti, razionalizzazione dei costi di produzione, proprietà comunitaria delle attrezzature meccaniche, ecc.),occorre incentivare metodi di coltivazione secondo criteri agro zootecnici integrati e pluricoltivi, caratteristici dell’agricoltura di sussistenza preindustriale. Dovrebbe essere questo il primo passo per avviare una riconversione biologica e biodinamica di tutto il settore; con ripercussioni positive sotto tutti gli aspetti: da quello ambientale a quello sociale e, non ultimo quello più strettamente economico. Vediamo i termini della questione. Una minore dipendenza dell’agricoltura dall’industria chimica significa un maggior margine di profitto per il produttore e una minore dipendenza dai paesi esportatori di fertilizzanti (Marocco, Senegal, ecc.). E’ pur vero che le moderne aziende agricole fanno registrare una maggiore produzione e richiedono un minor numero di addetti – la qual cosa non è auspicabile, dal nostro punto di vista – ma quelle ad orientamento biodinamico oltre ad avere costi di produzione più bassi per unità di prodotto, risultano essere dei sistemi più stabili rispetto a congiunture economiche e climatiche negative (crollo del prezzo di un determinato prodotto, cattiva annata, eventi climatici estremi, ecc.). In quanto ad un eventuale riduzione dei volumi produttivi di una agricoltura riconvertita biologicamente, essi ci sembrano accettabili visti i molteplici casi di eccedenze che si riscontrano in diversi prodotti di largo consumo (latte, ortaggi, agrumi e altre varietà di frutta). Anzi la valorizzazione del territorio agricolo e delle aree abbandonate, mediante il metodo integrato biodinamico, porterebbe sicuramente ad una maggiore varietà stagionale di prodotti agricoli sul mercato; con il valore aggiunto primario di una maggiore qualità organolettica e nutrizionale del cibo che arriva in tavola. Nel nuovo sistema agrario che auspichiamo, il fattore problematico principale, quale il maggior costo per unità di prodotto, può essere progressivamente superato, in primo momento, da sgravi e incentivazioni – ampiamente compensati da un minor impatto ambientale – e, nel tempo, dalla spinta virtuosa delle economie di scala indotte dalla larga diffusione dell’agricoltura biodinamica. Ma nel quadro del nuovo ordine economico che delineiamo, gli effetti migliori si potrebbero riscontrare proprio sulle forme e sulle modalità di consumo alimentare, oggi, come abbiamo visto, pesantemente condizionate dalle grandi imprese di trasformazione e di distribuzione. Con un settore agricolo rigenerato e riorganizzato su una proprietà fondiaria diffusa e su una maggiore varietà di prodotti agricoli, vi sarebbero pochi spazi di manovra anche per le grandi imprese di intermediazione e distribuzione e riacquisterebbe la sua funzione naturale un mercato ridimensionato a livelli regionali e comprensoriali. Se la suddetta strategia fosse estesa ad altri settori, il riflesso sulle forme di consumo sarebbe dirompente: avremmo non più consumi massificati, ma forme di consumo radicate nelle specificità regionali e locali; quindi espressioni e veicoli di cultura popolare. A sua volta, un mercato a corto raggio porterebbe a minori costi e minore intensità dei trasporti, minore uso degli imballaggi e dei confezionamenti; nel caso di merci deperibili, ad una riduzione di additivi chimici ed infine al minor ricorso alle campagne pubblicitarie e al loro effetto omologante e diseducativo. In sostanza si avrebbe una complessiva riduzione di quei “costi occulti” che il sistema economico capitalistico, funzionale all’usurocrazia, scarica sulle comunità nazionali in termini di spreco di risorse e inquinamento ambientale e mentale. Ritorniamo ora agli aspetti socio – culturali di una ripopolazione del territorio agricolo e dei piccoli centri, connessi con la rigenerazione agraria che auspichiamo. Noi riteniamo che lo squilibrio demografico e urbanistico tra città e campagna sia un fenomeno assolutamente negativo. Esso si è accentuato dall’ultimo dopoguerra in poi assumendo le stesse forme patologiche e disgreganti che osserviamo nelle città del terzo mondo: crescita incontrollata, anonimia e disordine architettonico e urbanistico paragonabile al disordine cellullare prodotto da metastasi tumorali, emarginazione e povertà a contatto con il lusso più sfrenato (nota lusso). Ben venga, quindi, lo sfollamento di quelli che sono diventati luoghi coatti di degenerazione e consumismo e il ripopolamento dei piccoli centri e delle zone montane e collinari. Ma non dimentichiamo che, per ottenere un risultato di questo tipo, non bastano solo quelle idee tecniche di riforma agraria alle quali abbiamo appena accennato: occorre suscitare una vera e propria mobilitazione, un nuovo “pionierismo”; non più spinto dall’indigenza ma dalla convinzione di creare qualcosa di giusto e rivoluzionario, operando all’unisono con tutta la nazione e perseguendo gli obiettivi posti dalle corporazioni interessate (agricoltori, allevatori, scienziati del clima e del territorio, commercianti). Quindi, occorre un’azione culturale volta alla valorizzazione dei costumi e delle tradizioni locali che ancora persistono, scaturiti proprio dall’animo contadino e lievitati in quella che era la “piccola Patria”: custode delle spoglie degli avi e sostegno delle culle delle nuove generazioni, humus di cultura fondata sul sentimento di appartenenza e trascendenza, comunione di terra, vita e lavoro. Una armonia dell’esistenza che Walter Darrè, ministro dell’agricoltura del III° Reich aveva prefigurato con lungimiranza e sintetizzato splendidamente nel suo “Sangue e Suolo”. Qualcosa di inconciliabile con l’ambiente caotico e l’aspetto anonimo e informe che ha assunto la città, capace di esprimere solo una cultura astratta, apolide, escrescenza di individualismo, che si diffonde attraverso tutti i canali della comunicazione artificiosa e istantanea (dall’insegna pubblicitaria alla televisione, dai “social” alle vetrine dei negozi) e completa l’opera di massificazione nel segno del consumo. Dunque, nel nuovo ordine che prefiguriamo il contadinato sarà la spina dorsale di una società neo fascista, di nuovo orientata in senso tradizionale; mentre le città, ripulite di tutte le scorie della modernità e di nuovo assurte a Polis, torneranno ad essere il luogo dove si esercita l’azione politica e amministrativa, dove arte, scienza e tecnica possano trovare le migliori condizioni di studio e sviluppo, in una universitas del sapere che vada oltre e fuori le aule scolastiche, templum di celebrazione e custodia delle memorie patrie, forum di aggregazione comunitaria e identitaria contro le derive disgreganti e individualistiche dei grandi spazi e dei grandi numeri. CONSIDERAZIONI FINALI Avviandoci alla conclusione di queste note, va detto che nel visionario ordine socio – economico che abbiamo prefigurato mancano accenni ad altri settori di intervento dello Stato non meno importanti di quelli che abbiamo approfondito. Questi ultimi possono essere considerati come i pilastri dell’edificio che la rivoluzione fascista dovrebbe innalzare, senza ignorare che - di conseguenza - logiche e coerenti soluzioni sorgerebbero in ogni altro settore dell’assetto istituzionale e organizzativo statale. A titolo di esempio pensiamo al settore della salute pubblica orientato alla promozione di stili di vita salutari e alla prevenzione, prima ancora che alla cura; alla scuola che deve porre al centro la formazione umanistica e storica per infondere fin dalla fanciullezza l’amore per la propria patria e la propria gente, oltre che profili professionali di eccellenza possibili solo mediante criteri promozionali e selettivi ; alla giustizia depurata da ogni ideologismo ed unicamente vincolata all’applicazione delle leggi; ad un sistema di difesa che, oltre ad essere altamente professionale, coinvolga la popolazione sana e attiva in una milizia permanente con compiti di difesa territoriale e civili; e così via. A questo punto riteniamo necessario porre in rilievo un altro ordine di argomentazioni. Nel passato, il successo dei rivolgimenti rivoluzionari dei movimenti nazionali o quelli sovversivi di ispirazione marxista hanno ricevuto una spinta determinante proprio dalle crisi socio – economiche in cui i ciclici andamenti del capitalismo avevano fatto precipitare le nazioni interessate: si pensi alla situazione della Germania di Waimar tra gli anni venti e trenta del secolo scorso o all’Italia del primo dopoguerra, o ancora alla Cina pre - maoista della modernizzazione agricola abortita. Oggi la situazione è profondamente cambiata. L’espansione planetaria delle pratiche usurocratiche - con le strette interdipendenze economiche che instaura tra le Nazioni, con la mobilità espansive delle tecnologie, con la pervasività dei sistemi di controllo esercitati sulle masse, consente di scaricare le crisi all’esterno del sistema. Le dinamiche che si attivano sono diverse: accentuando le rapine ai danni del terzo mondo, diluendo i fattori di crisi, con un effetto “domino” in più Nazioni oppure, all’interno delle Nazioni, allargando le sacche di emarginazione e di povertà delle masse urbanizzate. Di certo, tali dinamiche hanno una funzione non risolutiva ma compensativa, rispetto alle insufficienze e alle contraddizioni del sistema (meglio dire crimini) tra chi è ammesso al festino consumistico e chi ne è respinto ai margini, vivendo degli scarti e dei surrogati o delle opportunità delle devianze, dannando la propria esistenza per accedervi in un modo o nell’altro. Il risultato che se ne trae consiste in un forte “consenso passivo” che paralizza maggiormente proprio le masse e i popoli più diseredati, cioè coloro che dovrebbero reagire con più decisione, non avendo nulla da perdere; ma che non sanno darsi altri orizzonti da quelli offerti dall’immagine della società opulenta. Quindi un collasso del sistema usurocratico, con il conseguente drastico ridimensionamento del consumismo e dei settori produttivi ad esso collegati, sarebbe la scorciatoia più auspicabile per tagliare il cordone ombelicale che unisce masse e sistema, vittime e carnefice; consentendo al nuovo ordine economico organicistico di dispiegare le proprie potenzialità in ogni ambito della vita sociale ed economica. Naturalmente il presupposto fondamentale dovrebbe essere la capacità delle avanguardie rivoluzionarie di mobilitare i ceti popolari per nuovi obbiettivi e nuovi orizzonti, spazzando via tutto il ciarpame della retorica equalitaria, liberista e individualista e facendo appello alle ragioni più profonde e genuine dell’essenza umana e alla naturale pulsione verso una vita collettiva organizzata su una comune identità. Quindi popoli rigenerati moralmente e eticamente, responsabilizzati rispetto al nuovo Stato, riorganizzati secondo una gerarchia funzionale e di merito. La smobilitazione dei santuari del consumismo, ottenuta soffocando e ostruendo gli sbocchi commerciali, le grandi reti di distribuzione e l’apparato ideologico e propagandistico ad essi funzionali, potrebbe però comportare un’onda di ritorno devastante, non solo su tutto il sistema capitalistico – usurocratico – e questo secondo i nostri auspici - ma anche su tutto l’apparato industriale che in questi decenni si è conformato ad esso in modo simbiotico e funzionale. Il rischio maggore potrebbe essere una crisi produttiva e una crisi socio – economica, con riflessi negativi sul piano politico, in quanto le forze fautrici del progetto che andiamo delineando potrebbero vedersi private del necessario consenso popolare; ovvero trovarsi nella difficoltà di mobilitare i ceti popolari su obiettivi che richiedono tempi lunghi e, nell’immediato, un ridimensionamento dei livelli di consumo, senza ancora poter percepire la portata innovativa e rivoluzionaria dei processi in atto. Di fatto, mentre un risanamento finanziario, un nuovo assetto giuridico delle aziende e dei soggetti economici in chiave corporativa e socializzante, la progressiva introduzione di tecnologie eco – compatibili, sono tutti obiettivi raggiungibili in tempi brevi e senza scosse traumatiche, al contrario, proprio la riqualificazione qualitativa dei consumi e un loro ridimensionamento complessivo sarebbero gli snodi critici nell’opera di rigenerazione spirituale e culturale della Nazione. I nostri insistenti riferimenti all’attuale fisionomia delle masse addomesticate dal sistema, con le pessimistiche considerazioni che ne traiamo, ci consentono di guardare con disincanto ad un futuro che assume sempre più i contorni di una catastrofe di fine ciclo. Una crisi risolutiva potrebbe travolgere ogni dato esistente ma offrire, altresì tutte le opportunità di un reinizio tradizionale ad opera di una avanguardia spirituale e politica, oggi ancora troppo esigua e dall’incerta preparazione rispetto all’immane compito che si troverebbe ad affrontare. Tutto ciò, comunque, non ci esenta dall’esercizio di simulazione che stiamo conducendo in forza di un tratto visionario, per dimostrare la compiutezza di una visione del mondo che si dipana in idee e intuizioni e da queste in progetti in grado, per intima e conchiusa coerenza, di rimodellare la materia sociale e d economica più ostica e ostile. Per chiudere. Nell’estensione di queste note, nel nostro argomentare, abbiamo sempre avuto come riferimento ideale e normativo quella conosciuta come “Tradizione metafisica occidentale”. Ma ora ci poniamo un problema: essa Tradizione ha un fondamento veritativo in sé oppure è semplicemente una elaborazione meramente culturale, per quanto confacente al nostro sentire? Per noi vale la prima risposta; ma se ascoltiamo lo Zaratustra nicciano essa, a pari di tutte le religioni, le credenze e le ideologie, non è altro che una sovrastruttura, una mistificazione che nasconde e opprime l’essenza più profonda della natura umana: il vitalismo come pura potenza e volontà, l’ebbrezza di dispiegare tutti gli istinti per una gioia assoluta del vivere e dell’essere se stessi nel modo più autentico. Come abbiamo già accennato in precedenza, stiamo parlando della natura dionisiaca dell’uomo alla quale si contrappone quella apollinea: l’una distruttrice e liberatrice di energie primordiali, l’altra costruttrice e ordinatrice. Ma per ogni autentica rivoluzione occorre necessariamente tagliare tutti i ponti con l’esistente e ogni condizionamento interiore e passare per quella fase dionisiaca che libera l’uomo, lo trasmuta allo stato puro di “oltre uomo” e lo avvia a quel nichilismo attivo destinato a sfociare in una nuova era apollinea di ordine e armonia secondo il principio dell’”eterno ritorno”, scritto nei recessi più insondabili della storia dell’umanità. Passando dalla lezione nicciana alla più prosaica prefigurazione della nuova rivoluzione tradizionale – fascista, siamo della convinzione che anche nell’approdo ricostruttore e ordinatore (fase apollinea) bisogna sempre conservare quegli elementi vitalistici e dionisiaci che nella loro estraneità ad ogni legge morale aprioristica – ma non essendo per questo immorali in quanto pre - morali – danno ad ogni nuovo assetto civile energia, forza e una purezza giovanile. Quindi, anche nella nuova civiltà che prefiguriamo i caratteri dionisiaci non vanno del tutto alienati ma valorizzati e esaltati costantemente per instaurare un clima di rivoluzione permanente come quello che si manifesto a Fiume durante l’impresa dannunziana. Peraltro,lo abbiamo anche visto nei regimi fascisti del secolo scorso, dove le masse, specialmente quelle giovanili, venivano mobilitate, al di là di ogni principio ideologico o razionale, attraverso la gioia del vivere, la corporeità, il gioco, la competizione, l’istinto verso la bellezza. Anzi come abbiamo accennato in precedenza ribadiamo che l’idea di “bellezza”, come principio di armonia fisica, spirituale e mentale, dovrebbe essere il paradigma fondante di ogni civiltà tradizionale. Ecco perché durante il ventennio si poteva cantare, senza retorica, la giovinezza fascista come una primavera di bellezza. NOTE E APPROFONDIMENTI 1) E’ bene sottolineare che il Fascismo fu (e così dovrebbe essere in futuro) un regime totalitario da non confondere con un sistema dittatoriale oligarchico che accentra nelle mani di pochi tutti i poteri. Un regime totalitario, nella sua forma più definita è un sistema organico, in cui le parti si assommano in una totalità superiore e sovrana: lo Stato. In esso ognuno esprime un ruolo o una funzione in ragione del proprio rango e delle proprie qualità e competenze. Ruoli e funzioni sono organizzati nel “tessuto connettivo” di una comune appartenenza ad una nazione ed a una comunità di destino. Perciò nel proprio ruolo e nella propria funzione ogni individuo è sovrano a sé e sa riconoscere, nello stesso tempo, il proprio posto nella scala gerarchica. Al contrario sia la democrazia che le dittature sanno concepire il cittadino come una monade sconnessa da un qualsiasi “tutto”; a seconda dei casi da blandire o reprimere. Nella nostra visione organicistica, quindi, la democrazia elettorale finisce per essere non altro che la dittatura di una maggioranza su qualsiasi minoranza. Tale situazione, nell’epoca contemporanea, è aggravata dal massiccio condizionamento dei mezzi di informazione sulle masse “dis-organizzate”; se poi consideriamo che tali mezzi sono nelle mani di una ristretta oligarchia supernazionale, possiamo ben dire che la democrazia si è ulteriormente involuta in democratura.
2) Vediamo punto per punto le incongruenze e le forzature della “norma transitoria in questione: a) l’uso della violenza nella lotta politica non è stata una prerogativa del solo Fascismo. Vi è forse una famiglia di pensiero che possa vantare nella propria storia di non aver mai fatto ricorso alla violenza? Mi sembra una domanda retorica che non merita nessuna parola in più. b) per quanto riguarda la soppressione delle “libertà” potrebbe valer la stessa considerazione fatta per il punto “a”. Va da sé che la libertà che concepiamo non è un concetto astratto e dissolvente, applicato solo alle libertà individuali; ma al di sopra di esso - e in via prioritaria - vi è la libertà della Nazione, alla quale il singolo individuo si conforma e nella quale riconosce un limite alla propria libertà individuale. In altri termini facendo nostra la concezione evoliana della “libertà” propugniamo la libertà aristocratica “per qualcosa” opposta alla libertà borghese “da qualcosa”. c) Se per denigrazione della democrazia e delle sue istituzioni si intende una critica, anche radicale, in nome di altri principi e altre visioni del mondo, noi lo rivendichiamo in quanto uomini dotati di un proprio intelletto e di una propria natura spirituale, non omologabile al mondo moderno. d) Lo stesso vale nei confronti della Resistenza, non tanto perché essa ha combattuto il Fascismo, ma perché i fatti storici, militari e politici non fanno parte di alcuna dimensione religiosa o trascendente; quindi, in questi campi non esiste nessun dogma intangibile, né tanto meno quello della resistenza come valore assoluto, quasi super naturale, tale da porla a fondamento della costituzione. e) Per quanto infine riguarda la questione “razzismo” rimandiamo al prosieguo di queste note.
3) per le vicende riguardanti le organizzazioni dei primi gruppi neofascisti del dopoguerra rimandiamo a Nicola Rao: “trilogia della celtica”, Sperling & Kupfer, pag. 14-26 e 311 e seg.
4) Pallante, il giovane attentatore di Togliatti, era un simpatizzante di una ala scissionista dell’”Uomo Qualunque, quindi di destra; ma durante i moti insurrezionali comunisti, susseguenti all’attentato le vittime, 15 in tutto, si contarono tra gli insorti e la polizia. Il MSI subì solo la devastazione della sede di Genova. Ovviamente ciò non escluse azioni violente minori contro neofascisti, ma non di più. 5) la concezione di astoricità e atemporalità non è qualcosa di statico: essa è l’attributo del Logos inteso come l’ordine che regge il tutto regolando la mutevolezza del divenire. 6) qui si intende rivoluzione come un ritorno alle origini. 7) Noi dobbiamo distinguere tra verità giudiziaria e quella storica che si avvale anche, oltre a quella giudiziaria, di cronache, testimonianze, memorie e documenti. Quindi, per chi volesse approfondire la questione, oltre al lavoro di acquisizione occorre un lavoro di cernita tra i tanti casi e i tanti protagonisti di quegli anni luttuosi. In ogni caso ogni giudizio che possa scaturire dal nostro foro interiore - qualora oggi ne valga la pena - non può non basarsi su alcuni principi di fondo che attengono all’onore e all’intelligenza politica del militante fascista: - il golpismo non è un atto rivoluzionario. L’atto rivoluzionario è tale quando si realizza con il consenso di un popolo di cui si è avanguardia. - ogni intesa con le forze conservatrici e atlantiste restando in una posizione di subordinazione è un tradimento di tutta la storia del Fascismo. - lo stragismo e il terrorismo indiscriminati, in tempo di pace, oltre che odioso è estraneo alla tradizione fascista e non è stato mai pagante politicamente. 8) per l’approfondimento di quegli eventi si rimanda a Nicola Rao, “trilogia della celtica”, Sperling & Kupfer, pag. 647 e seg. 9) Per patria carnale è da intendersi il luogo in cui si nasce e da cui si riceve il primo imprinting identitario; cioè la lingua o il dialetto parlati, la fisionomia e l’estetica dei parenti e dei prossimi, gli usi e i costumi, un paesaggio esteriore, urbano e naturale, particolare, una storia e una memoria collettiva in cui riconoscersi e irradicarsi. 10) E’ bene sottolineare che non esiste solo un classismo marxista che teorizza la presa del potere del proletariato e una società pauperizzata ad esso omologata. Esiste, ed è di fatto dominante, anche un classismo capitalistico, che omologa la società occidentale ai propri interessi, al proprio costume e ai propri valori consumistici e edonistici, con esiti che non escludono povertà ed emarginazione ritenuti “fisiologici”. Varia soltanto la metodologia: Il classismo marxista ha adoperato la coercizione, il classismo capitalista adopera la persuasione. 10 a) Adriano Romualdi, docente universitario di Storia, avviato ad una brillante carriera, ebbe il merito di affrontare e divulgare filoni formativi della cultura di destra e tradizionale che andavano dalla Rivoluzione conservatrice tedesca, alla rilettura del pensiero di Nietzsche, all’europeismo integrale, agli autori del “Romanticismo fascista”, alla filosofia platonica, alla riscoperta della civiltà indoeuropea. Su questa linea
di ricerca ci offrì anche la lettura della nicciana “Volontà di
Potenza” oppure la ricerca “Sul problema di una Tradizione
Europea” con un taglio metastorico che illumina sulla reale
sostanza della tradizione europea a fronte di un occidentalismo di
maniera e degenerato tra liberal – democrazia e capitalismo.
L’approdo di queste riflessioni non poteva che essere il rifiuto
radicale dei miti progressisti, libertari e egualitari provenienti
dalla rivoluzione francese, che sembravano contaminare e annacquare
anche il pensiero di una destra poco attrezzata culturalmente. Da qui
la necessità di affermare con più forza la visione di uno
Stato-totalità organica, dove la dimensione politica predomina su
quella economica e la una rivendicazione di una spiritualità non
meramente devozionale ma aristocratica, religiosa e guerriera. Da questa breve sintesi si comprende perché dai più giovani della sua generazione fosse definito “un fratello maggiore”: fratello di fede e di intelletto che tracciò la strada che ancora oggi occorre percorrere
11) Per conoscere o rivivere la storia e il repertorio della musica alternativa si invita a visitare il sito: “Lorien – il portale dei canti ribelli – attualità, storia, archivio della musica non conforme” 11 a) Ricordiamo a tele proposito “La voce della fogna” la rivista giovanile che già nella testata era uno sberleffo a quella sinistra che era solita indicare i fascisti come topi di fogna; salvo dimenticare che spesso toccava anche a loro vedere i sorci verdi. In ogni caso la suddetta rivista ebbe il merito di polemizzare con destra e sinistra con gli strumenti della satira e del fumetto; strumenti comunicativi fino ad allora assolutamente sconosciuti a destra. 12) In quegli anni “Il Signore degli Anelli” divenne un vero libro di culto per i giovani di destra e fascisti che in quei racconti fantastici ravvisavano un tempo mitico, eroico e magico, corrispondente al loro immaginario ideale. 13) La Cristianità a cui facciamo riferimento è ben lontana dal Cristianesimo e dal Cattolicesimo dei nostri giorni. La Cristianità medievale della cavalleria, del monachesimo e del feudalesimo ebbe il pregio di riprendere da Roma l’idea imperiale come sommo principio ordinatore e l’idea sacrale dello Stato; principi i quali si sono perpetuati fin quasi ai nostri giorni. Inoltre il cattolicesimo fu il collante etico - religioso che unì i popoli e i regni europei in un unico modello di civiltà; almeno fino alla riforma protestante. 14) ancora oggi c’è chi indugia nel ritenere che le chiavi del potere – in senso lato – siano nelle mani dei governi democraticamente eletti. Niente di più fuorviante: dal dopoguerra in poi, mal levatrice l’ONU, la direzione delle sorti del mondo sono slittate nelle mani di potentati e oligarchie apolidi, che attraverso il controllo della finanza e a cascata dei mass media, delle multinazionali e dei governi stessi, auspicano un “nuovo ordine mondiale” senza più popoli e Nazioni sovrani, ma costituito solo da individui resi simili, intercambiabili e stretti nei ceppi del pensiero dominante. In questo mondo distopico e globalizzato, la ragione economica, con il corollario di tecnicismo e produttivismo, è assolutizzata fino ad auspicare la “fine della storia” affinché ogni perturbazione conflittuale non non vada ad influenzare l’andamento auspicato. 14 a) la teoria gestaltica è un portato della psicologia della percezione. Essa sostiene che “l’insieme di un fenomeno è qualcosa di più e di diverso della somma delle singole parti”. Inoltre possiamo aggiungere che la percezione del fenomeno è variabile a seconda della visione che il soggetto osservante riesce a mettere a fuoco. Anche in questo caso come nell’”olismo” si aprono nuove prospettive epistemologiche che superano lo scientismo positivistico e deterministico. (15) la teoria delle catastrofi è una teoria elaborata in ambito fisico-matematico da René Thom secondo il quale piccoli cambiamenti in un dato sistema possono repentinamente o in modo sommatorio portare al cambiamento totale del sistema. Tale teoria è stato spesso estesa ad altri ambiti. Quindi se applichiamo la teoria delle catastrofi al crollo della Civiltà Tradizionale, limitatamente agli ultimi secoli della storia europea, possiamo constatare che la prima “erosione” destabilizzante avviene tra il 400 e il 500 con il rinascimento che comincia a porre l’uomo e non più Dio come al centro del mondo, si avvale della corruzione etico-morale delle monarchie e del papato, con la conseguente riforma luterana; avanza con l’illuminismo, l’umanismo, lo scientismo, il razionalismo, l’economicismo e il materialismo marxiano. Tutti “ismi” che progressivamente vanno a implementare nella società una nuova mentalità e una nuova tavola dei valori propriamente borghesi ai quali andrà poi a contrapporsi, in modo apparente ma non meno distruttivo, il proletarismo materialista. Fino ad arrivare ai nostri giorni dove la dissoluzione individualista e nichilista sembra inarrestabile. Quindi, secondo questa chiave di lettura, i rivolgimenti politici, storici e sociali sono più gli effetti ultimi che non le cause prime dell’avvento di una civiltà anti tradizionale; dovendo invece rintracciare queste ultime (le cause) in una costante, progressiva e lunga azione metapolitica di modifica dei valori e della visione del mondo antecedente, fino alla “catastrofe” e al mutamento del paradigma di civiltà. 16) Tra le principali riviste, che tra gli anni ‘80 e ‘90 divennero maggiormente punto di riferimento e di raccordo dell’ambiente neofascista, ricordiamo “Orion”, “l’Uomo Libero” e per altri versi “Diorama Letterario” espressione prima della Nuova Destra e poi di Nuove Sintesi. 17) La geopolitica è una disciplina che studia l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati. Essa ebbe una certa rilevanza, tra le due guerre mondiali, specie nella Germania Nazional-Socialista, ad opera di Karl Haushofer. In certa misura i fattori geopolitici ( ma non solo quelli) determinarono la politica espansionistica del Terzo Reich ad est; nella logica di un continuum territoriale tra l’Europa propriamente detta e la grande pianura Sarmatica. In Italia il primato degli studi geopolitici spetta ad Ernesto Massi protagonista del mondo neofascista anche nel dopoguerra, allorché gli studi geopolitici vennero negletti perché ritenuti una una disciplina Nazional-Socialista. A dispetto di ciò a riportarla in auge nel nostro mondo fu il compianto Carlo Terracciano che attraverso i suoi lavori e gli articoli sulla rivista Orion applicò i criteri geopolitici per denunciare l’espansionismo USA e delineare un blocco di potenza euroasiatico in contrapposizione ad esso. 18) l’ONU conta una pletora di enti, istituiti dall’assemblea generale o dal “consiglio economico e sociale”. Tra questi spiccano per notorietà l’UNICEF, la FAO, l’UNESCO, l’OMS, l’UNHCR, l’UNEP, il WTO, ecc. Tutti enti che nelle loro deliberazioni invariabilmente operano in senso mondialista e supernazionale a discapito della sovranità e degli interessi reali dei popoli che pure dovrebbero rappresentare. 19) Il B’nai B’rith è una organizzazione ebraica di tipo massonico che, come tutte le massonerie, dietro la facciata filantropica e benefica opera in favore del sionismo e del mondialismo. Non meravigli che il falso papa Francesco I nel 2015 abbia ricevuto una onorificenza da tale organizzazione per i suoi meriti anti nazional-socialisti. 20) La reazione alla prima invasione allogena vide la nascita del Fronte Nazionale di F. Freda, che ebbe immeritatamente uno scarso seguito e fu sciolto dopo la condanna dei suoi maggiorenti per ricostituzione del Partito Fascista. Forse i tempi non erano ancora maturi; ma sicuramente il FN fu profetico sugli effetti soprattutto di ordine culturale e spirituale che tali invasioni avrebbero avuto sulla tenuta identitaria dei popoli europei. 21) Non ci attardiamo a specificare la nostra idea di Europa, che si evince da vari passaggi di questo lavoro. Piuttosto è bene chiarire che la banca centrale europea è sostanzialmente una unione di banche centrali dei paesi aderenti, con la premessa regolamentare di rendere indipendenti le banche centrali dai rispettivi governi, cioè più privatizzate di quanto non lo fossero già. Inoltre emette moneta dal nulla e presta le somme necessarie non direttamente agli Stati ma alle banche e a tassi irrisori. Queste, a loro volta prestano allo Stato comprando i titoli di stato emessi. Questa è almeno la situazione dell’Italia e delle altre nazioni europee che hanno rinunciato, senza alcuna logica percepibile, alla loro sovranità monetaria. Se non è usurocrazia questa… in ogni caso approfondiremo in seguito
(22) Gli antifascisti professionali hanno l’abitudine di tacciare spregiativamente di fascista, qualsiasi ipotetico interlocutore, anche moderato, democratico e sedicente antifascista, che osi esprimere un concetto o una presa di posizione che possa anche vagamente richiamare una visione tradizionale: pensiamo, per esempio, al sostegno alla famiglia naturale, alle obiezioni sulla cultura gender e quanto altro. In tali casi dobbiamo dire che che gli antifascisti professionali hanno perfettamente ragione. La contraddizione è solo interna al moderatismo democratico che vorrebbe innestare valori e principi tradizionali in una società come l’attuale coerentemente antifascista e anti tradizionale. Tra Tradizione e sovversivismo, tra Fascismo e antifascismo non vi possono essere compromessi e ibridi. Entrambi si assumono o si rigettano in toto. Quindi anche l’idea del Fascismo quale “terza via” o sintesi che supera destra e sinistra può essere tatticamente valida sul piano operativo: politico, istituzionale e sociale; ma non certo dal punto di vista dottrinario; il Fascismo oggi non può essere considerato più la terza via tra capitalismo e comunismo ma è l’unica via alternativa al mondo moderno preso nel suo complesso. 23) E’ una espressione ricorrente del filosofo Diego Fusaro, a sottolineare il controllo totale che le oligarchie dominanti esercitano su tutti i mezzi di informazione. 24) Tra le più interessanti organizzazioni giovanili apartitiche che si sono affermate nell’ambiente neofascista citiamo il Fronte Veneto Skinhead. Nato ufficialmente nel 1990, il VFS si colloca in un più ampio circuito europeo che trova per collante una propria estetica anticonformista, l’amore per il rock più duro (musica oi) e l’attitudine ad una forte senso della militanza. 25) Oggi gli epigoni del comunismo, nella versione internazionalista di Trotsky, si sono convertiti all’internazionalismo globalista e mondialista, vedendo nel nuovo ordine mondiale vagheggiato l’affermazione delle loro aspirazioni ad un mondo proletarizzato e senza nazioni. Quindi dopo il social - capitalismo in salsa cinese, vediamo in occidente l’avvento di capital - proletarismo, dove al vertice una ristretta oligarchia domina e dirige, secondo propri disegni, la vita di masse proletarizzate e pauperizzate. Le vie al marx - leninismo sono infinite, anche quelle di gruppuscoli che si dichiarano nazionalisti senza Stato; come se le nazioni fossero comunità yppies degli anni ‘60 (26) All’accusa di violenza, fino a pochi anni fa, faceva da corollario anche quella di militarismo e guerrafondaio. Oggi questa accusa sembra caduta in subordine; forse per la vergogna per le tante guerre e i tanti lutti provocati negli ultimi decenni, in mezzo mondo, dai democratici pacifisti: USA e Nato in testa, con la “corte dei miracoli” dei democratici e pacifisti europei e fare da ascari (chiedo scusa agli ascari storici per il blasfemo accostamento). D’altro canto l’antifascismo militante vede nello stile marziale che contraddistingue le manifestazioni e le cerimonie dei giovani fascisti la riprova del militarismo latente. Ma essi non possono capire che l’uniformità dell’abbigliamento, le teste rasate, l’ordine e l’inquadramento nei cortei e nelle cerimonie, il saluto romano all’unisono, ecc. sono anche l’espressione di uno stile che, come tutti gli stili, è lo specchio dell’anima. Ovvero lo capiscono perfettamente mettendolo a confronto con il loro stile sbracato, multicolore, disordinato e sciatto, anche questo specchio di una anima particolare. In quanto al problema della guerra e della pace dal punto di vista dottrinario (ma anche molto personale), partiamo dall’assunto che la pace sia l’effetto e non la causa di uno stato di giustizia e di equilibrio tra gli Stati e le nazioni. Questa distorsione concettuale è visibile, da decenni, anche nell’inversione dei simboli operata da una certa cultura pacifista. Per esempio, il simbolo runico Algiza capovolto è diventato il simbolo della “pace”, ignorando che l’algiza quale simbolo di vita una volta capovolto diventa simbolo di morte; così come è foriero di morte spirituale un pacifismo aprioristico, debilitante delle coscienze, mortifero e potenzialmente dannoso per quelli che sono i doveri verso la propria comunità di appartenenza. Per sintetizzare il nostro specifico atteggiamento rispetto alla guerra, esso si riassume in due celebri concetti complementari tra di loro e sempre di attualità : “si vis pacem para bellum” (Vegezio) e “la guerra è il proseguimento della politica con altri mezzi”(Carl von Clausewitz). Se questo vuol dire essere guerrafondai lo siamo di sicuro e a chi di questo ci accusa rispondiamo con il mai dismesso “me ne frego”. 27) Dal greco: “Logos” è da intendersi come razionalità della legge divina, ordinatrice del mondo e del sovramondo. “Hybris” al contrario sta per tracotanza, eccesso, dismisura, superbia; ovvero una inclinazione dello spirito opposta all’osservanza del “Logos”. 28) Il Senato che immaginiamo non ha niente a che vedere con quello di origine democratica che conosciamo. Come abbiamo detto, Il Senato dovrebbe rappresentare l’aristocrazia della rivoluzione: un organismo capace di riprodursi per coaptazione e selezione. Quest’ultima da intendere anche in negativo con l’espulsione di quanti si rendessero indegni del proprio rango. Ma la prima selezione nella costituzione dell’assetto gerarchico avviene all’interno della compagine nazionale. A tale proposito ci viene in soccorso quello che era l’assetto sociale del Nazionalsocialismo che distingueva tre ordini di appartenenza allo stato: i “cittadini” portatori di un sicuro retaggio, etnico, culturale e biopsichico, che li rende soggetti di tutti i diritti e i doveri; l’”appartenente allo Stato”, ma di grado inferiore al “cittadino”, e lo “straniero” che semplicemente vive nello Stato. Mentre la seconda e la terza categoria godono di tutti i diritti sociali ed economici, solo la categoria dei “cittadini” gode di tutti i diritti politico -amministrativi in quanto perfettamente corrispondenti alla fisionomia etno-nazionale dello Stato. Insomma, calando questa concezione nella realtà attuale, possiamo ben dire che non basta una carta di identità per far diventare chiunque “cittadino” dello Stato. Queste distorsioni appartengono solo alle democrazie. Per approfondire vedi. Salvatore De Domenico, “Introduzione ad Adolf Hitler”, Grafica Federico Editrice, 1966, pag. 97 e seg. 29) La struttura gerarchica e organica dello Stato si basa sui principi di autorità dall’alto e responsabilità dal basso; sicché ogni soggetto singolo o collettivo della scala gerarchica è al tempo stesso una autorità rispetto a ciò che è subordinato ad esso e responsabile verso chi è sovraordinato ad esso. (S. De Domenico, op.cit. Pag.91)
In questo quadro ...”Siffatta scala gerarchica è retta dal Fuhrer, che sta al vertice ma non come entità staccata dalla base o dai vari organi intermedi, in quanto, pur essendo egli una entità singola, è pure un’entità che con tutta la struttura piramidale si fonde per compenetrarla. ...E’ il cosiddetto Fuhrer – prinzip che compenetra tutta la vita dello Stato nazional -socialista. Ogni branca dell’attività dello Stato ha il suo Fuhrer che esercita il principio del comando …” (S. De Domenico, op. cit. pag. 101). Possiamo allora ben dire che con il principio di autorità – responsabilità lo Stato si regge su autentiche autonomie funzionali; senza le burocrazie e la loro massa di regolamenti, che nello stato democratico creano dei centri di potere - superiori anche ai poteri politici - tanto irresponsabili quanto inamovibili. 29 a) la citazione è tratta dalla prefazione di A. Romualdi alla raccolta di brani: F. Nietsche “Oltre il nichilismo” – Collezione Europa – Giovanni Volpe Editore - 1971 30) Educazione deriva dal latino educere, ovvero tirar fuori, far emergere. Quindi ogni autentica educazione è selettiva e individualizzante. L’educazione di massa che vorrebbe garantire a tutti un diploma e una laurea è una contraddizione in termini; un ossimoro che trova la sua ragione nelle pratiche di addomesticamento e addestramento messe in atto dalla democrazia. 31) Il fenotipo di un individuo o di un gruppo è l’insieme dei caratteri esteriori ( colore della pelle, morfologia corporea, colore occhi, capelli, ecc.) espressi dal bagaglio genetico. La domanda è: lo stesso bagaglio genetico, anche in combinazione con altri fattori non biologici (per esempio fattori ambientali) può avere un ruolo sulla dimensione interiore, cioè non esteriore e materiale, dell’essere umano? 32) non è un caso il fatto che la storia, insieme alla geografia, sia diventata una disciplina trascurata e negletta; la conoscenza storica infatti contribuisce a comprendere il retaggio di cui si è portatori e le proprie e altrui radici culturali. Contro la logica elementare di questo concetto, oggi si assiste all’ennesima follia del variegato mondo “liberal” che ha lanciato la “cancel cultur”; la quale si riduce poi alla cancellazione di quella storia non inquadrabile nella moralina dei “diritti umani”; ignorando i “diritti dei popoli” e spesso la inevitabile conflittualità tra di essi. 33) Se una certa fisionomia razziale può essere la base per una determinata forma culturale, si può avere anche il processo inverso, cioè una deriva culturale può portare all’emergere di nuove linee (sottospecie) razziali in senso spirituale prima e fenotipico poi. Ciò è avvenuto in passato allorché l’isolamento fisico e culturale portava all’emersione di un pool genetico che si manteneva costante e si accresceva nel tempo. Questo potrebbe essere stato il caso del popolo ebraico, che in origine era un coacervo di tribù seminomadi che si sarebbero coagulate intorno al fattore religioso e poi per endogamia (procreazione solo all’interno del gruppo di appartenenza) hanno assunto sempre più una precisa fisionomia etno – culturale. Paradossalmente ciò può avvenire ancora oggi, anche nell’attuale clima di mescolamento dei grandi gruppi razziali. Penso alle famiglie malavitose del sud Italia, che prediligono unioni all’interno del segmento sociale di appartenenza, e alle periferie delle grandi città, dove si ammassano gli individui dalla provenienza più disparata, che per necessità o costrizione vanno producendo una loro cultura antropologica che, sempre per isolamento riproduttivo, alla lunga, potrebbe far emergere nuove linee biopsichiche se non razziali. Già oggi, nei gruppi succitati si distinguono dei tratti culturali specifici (la musica neo melodica o il trap, il kitsch come tratto estetico, l’imbarbarimento del linguaggio e quanto altro); nonché una fisiognomica che avvalorano le considerazioni fatte sullo sviluppo, (ripetiamo: per isolamento) di nuovi tratti biopschici. Naturalmente, tali considerazioni non esprimono alcun giudizio di valore e vengono fatte sulla base dell’osservazione empirica. In quanto agli studi relativi alle dinamiche e agli influssi profondi dei pools genetici, soprattutto di quella parte del genoma di cui ancora non si conosce la funzione;c essi si sono fermati sulla soglia del politicamente corretto. 34) Un sistema autopoietico è un sistema che si accresce e si sviluppa per capacità intrinseca, senza la necessità di interventi esterni. Il sistema stesso assimila, elabora i componenti di cui necessità per il proprio sviluppo e la propria sussistenza, eliminando le “scorie” e gli elementi non congruenti. Esempi di sistemi autopoietici sono gli organismi viventi, le città in espansione ed anche il sistema socio - economico globale, che, ormai, per intrinseca organizzazione interna è in grado di svilupparsi automaticamente, senza il bisogno di ulteriori input; anzi capace di respingere ogni fattore estraneo (l’azione rivoluzionaria) che ne possa pregiudicare l’equilibrio interno. L’autopoiesi fu definita dagli scenziati H. Maturana e F. Varela, studiosi dei sistemi complessi. 35) La Arandora Star era una nave da crociera inglese che nel 1940, allo scoppio della guerra, fu utilizzata per deportare in Canada cittadini di origine italiana e tedesca residenti nel Regno Unito. La nave fu inopinatamente dipinta di grigio; la qual cosa indusse in inganno un U-boot che la scambio per una nave mercantile e l’affondò provocando la morte di oltre 800 persone. Inoltre la nave non venne dotata neanche di un emblema della croce rossa perché – questa fu la giustificazione – la cosa avrebbe violato la convenzione di Ginevra. C’è da aggiungere che coloro che venivano deportati subivano il sequestro di tutti i loro beni, anche se molti di loro vivevano e lavoravano nel Regno Unito, anche da decenni. Pensiamo che non ci sia bisogno di alcun commento, se non che i “buoni” conducevano la guerra come i “cattivi”, anzi in modo ancor più sporco e ipocrita. 35 a) la notizia in questione fu solo il primo di una serie di atti ostili alla Germania, prima ancora che al Nazionalsocialismo, che culminarono con il piano ideato nel 1944 da Henry Morgenthau, segretario al tesoro degli USA e da applicare alla fine della guerra. Tale piano aveva l’obiettivo di deprivare la Germania delle sue risorse industriali e minerarie e ridurla ad una Nazione ad economia agricola – pastorale. Ma Morgenthau non fu il solo nel suo progetto di annichilimento della Germania. In quel periodo altri personaggi, tutti di origine ebraica, elaborarono e pubblicarono “soluzioni finali” da applicare al popolo tedesco. Citiamo Theodore kaufman (Germany must perish - 1941), Louis Nizer (what to do with Germany), E. Albert Hooton (sradicare la razza guerriera dai tedeschi – articolo del 1943) Tutti questi scritti, intrisi di un odio ampiamente contraccambiato, furono presi in seria considerazione dalle autorità occupanti la Germania; con una serie di norme vessatorie e schiavistiche quali: evacuazioni di massa, divieti di spostamenti, campi di concentramento anche per donne e bambini, divieto di portare soccorsi umanitari, indisponibilità di territorio agricolo e di fertilizzanti che portò alla fame una intera nazione. In questo enorme campo di concentramento, in cui fu ridotta la Germania, si calcola che siano periti nove milioni di tedeschi a guerra finita. Ci asteniamo da ogni commento rivendicativo e da ogni confronto giustificativo con altri genocidi, che condurrebbero a valutazioni moralistiche che non appartengono al nostro orizzonte spirituale. Lasciamo agli altri da noi i sussulti e i conati della piccola morale borghese, altisonante ma sempre ipocrita, dolente, omissiva e menzognera. A noi il compito della verità e del ricordo degli innocenti, in attesa di rimettere in moto la ruota della storia e della civiltà. Per approfondire il contenuto di questa nota rimandiamo al sito: www.altreinfo.org 35 b) Da Rassinier a Irving, passando per Faurisson, abbiamo avuto un ampio numero di studiosi, la cui onestà intellettuale nella ricerca della verità sui campi di concentramento li ha esposti ad ogni genere di vessazioni. Emblematico è il caso di R. Fourisson: oltre a subire una vera e propria persecuzione giudiziaria subì numerose aggressioni rischiando anche la morte (immaginate da parte di chi), nel caso più grave anche con trauma alla mascella e la perdita di denti. Naturalmente nel caso di Fourisson come negli altri casi simili, i “buoni” delle varie organizzazioni umanitarie e per i diritti umani si sono sempre voltati dall’altra parte. Come si fa a non stare da questa parte? 36) La prima edizione di “Cavalcare la Tigre” è del 1961, ma una prima stesura risale al 1951. Il lungo lasso di tempo intercorso per la pubblicazione fu dovuto al fatto che i giovani intellettuali e attivisti, che in quegli anni si avvicinarono ad Evola per trarne consiglio e consegna, sembravano in grado di formare un movimento tradizionale capace di agire sul piano politico. Fallito tale tentativo, ritornavano di attualità gli aspetti formativi ed esistenziali per quanti apparivano ed aspiravano, per natura, a non conformarsi e farsi travolgere dallo spirito del tempo. 36 a) per conoscere i Wandervogel rimandiamo al testo: Nicola Cospito – “i wandervogel la gioventù tedesca da Guglielmo secondo al Nazionalsocialismo”, ed. Passaggio al bosco 2020 III edizione Riportiamo in questa sede l’ottima presentazione che accompagna il testo in questione: “Nei primi anni del Novecento fece la sua comparsa - in Germania - la Jugendbewegung, capace di innervarsi da Guglielmo II al nazionalsocialismo: una vera rivoluzione della gioventù, che contribuì a mutare il corso della storia. Quello dei Wandervögel fu un fenomeno che seppe inquadrare con largo anticipo i mutamenti di un'epoca incendiaria, contrapponendovi una weltanschauung coerente ed organica: dalla critica dell'urbanizzazione alla rivolta contro l'automatismo della modernità meccanica, materialista e spersonalizzante; dal recupero del Romanticismo alla trasmissione delle arcaiche ed ancestrali ritualità germaniche, inserite in un più vasto ordinamento spirituale e biopolitico; dalla simbiosi con il concetto rurale e contadino del Volk alla difesa della Terra dei Padri, in simbiosi con l'orizzonte comunitario, con la cultura popolare degli antenati e con il retaggio del sangue e del suolo; dalla concezione della natura quale organismo vivente alla critica frontale della società piccolo-borghese, fondata sui feticci liberal-democratici del progresso, del successo e del denaro. Un risveglio giovanile che seppe forgiare una nuova metafisica dell'esistenza”. 37) Più precisamente, la “volontà di potenza” di Nietzsche si riferisce all’uomo che di fronte all’assurdo nichilismo della contemporaneità si libera da ogni condizionamento, rovescia la tavola di tutti i valori e si avvia ad un “nichilismo attivo” che va verso l’oltre uomo o superuomo, nel nome di un vitalismo primigenio. La nostra estensione della “volontà di potenza” alla fenomenologia moderna, secondo i due indirizzi specificati, non è altro che una libera reinterpretazione e applicazione del pensiero di Nietsche.
38) L'Istituto milanese di Mistica fascista elaborò un Decalogo dell'italiano nuovo (1939), che riassume le diverse caratteristiche della gioventù fascista. Per i Fascisti di oggi e di domani esso è di una attualità estrema e condensa lo stile e l’etica Fascista a dispetto di tutte le diffamazioni e le demonizzazioni. Ogni punto meriterebbe una chiosa approfondita; ma in particolare vogliamo evidenziare come dal “decalogo” traspare un sentimento nazionale che si sublima nel perseguimento del bene comune e uno spirito di servizio come la più alta dote del cameratismo. Ecco i 10 punti
del “decalogo”
39) Per dare l’idea delle potenzialità dello spazio euroasiatico forniamo qualche dato significativo: la popolazione dell’Europa occidentale assomma a 512 milioni di abitanti mentre quella della Russia attuale è 146 milioni, per l’83% di etnia caucasica e per il 90% di religione ortodossa, la più tradizionalista tra le varie confessioni cristiane. La Russia ha le maggiori riserve mondiali di gas naturale e ne è il maggior esportatore; è il terzo paese per maggior produzione di energia elettrica, il quinto per produzione energetica da fonti rinnovabili e il secondo al mondo per produzione idroelettrica. Sempre la Russia ha una superficie di terra coltivata pari a 1.200.000 Km quadrati e 1/5 delle foreste mondiali; per non parlare delle riserve minerarie che coprono praticamente tutto il fabbisogno dell’industria moderna; basta citare tra le altre quelle di ferro, manganese (maggiore riserve europee), uranio, cobalto, oro, titanio palladio e soprattutto le “terre rare”, oggi indispensabili nella componentistica dell’alta tecnologia. Queste ultime si trovano soprattutto nel Donbass; il che pone alcune domande pertinenti sulla guerra che si combatte in Ucraina.
40) Nell’agosto del 1971, sotto la presidenza di R. Nixon, si sancì la fine della convertibilità del dollaro in oro, abolendo di fatto gli accordi di Bretton Woods del 1944 che vedevano il dollaro come unica moneta per i regolamenti internazionali. Da quel momento all’economia reale venne a mancare un bene di riferimento concreto, qual è l’oro, il sottostante concreto a garanzia che la valuta circolante (il dollaro) non diventasse, dall’oggi al domani, carta straccia. Le conseguenze furono devastanti. Chi aveva tanti dollari in cassaforte come i produttori di petrolio (petrodollari) cominciarono a sbarazzarsene acquistando tutto il possibile; ma provocarono anche una ondata inflattiva internazionale con un aumento dei prezzi delle materie prime, che mise in crisi paesi come l’Italia, dipendente in massima parte dall’estero per le forniture energetiche. Ma, a lungo termine, le conseguenze le scontiamo ancora oggi, con la “moneta diventata merce”, quindi usurocratica, nelle mani dei potentati finanziari.
40 a) Si ricorda come in un passato neanche troppo lontano, gli istituti finanziari cominciarono a proporre di investire in titoli derivati e cartellizzazioni che promettevano alti rendimenti. Naturalmente si trattava di aleatorie quando non truffaldine promesse in cui caddero anche molti enti pubblici nella speranza di ripianare attraverso tale scorciatoia i propri debiti. Anche la famosa crisi dei subprime statunitensi, nel 2018, risale a queste pratiche finanziarie. Ricordiamoci però che le speculazioni finanziarie funzionano come vasi comunicanti e se c’è qualcuno che perde qualcun altro ci guadagna. Salvo poi constatare che a rimetterci è sempre il parco buoi dei risparmiatori o i lavoratori che vedono fallire le proprie aziende.
41) Esulando dalla formalizzazione strettamente scientifica, l’entropia è da intendersi come un aumento del disordine nella materia e un decadimento della qualità energetica; per restare nella semplificazione, sono fenomeni entropici la combustione e il degrado dei materiali; al contrario sono fenomeni nega – entropici quelli che convertono materia e energia da un livello inferiore ad uno superiore, come, per esempio, la crescita di una pianta.
42) le economie di scala sono pratiche produttive e commerciali che puntano a massimizzare la quantità di produzione in rapporto ai costi fissi e gestionali. In tal modo si può ridurre il più possibile il prezzo per unità di prodotto. Quindi, anche con un margine di guadagno minimo per unità di prodotto, il profitto è dato in rapporto al volume di vendite. Si comprende come siano strategie che solo le multinazionali possono mettere in atto. Si spiega così la standardizzazione e la bassa qualità dei beni di consumo, nonché la necessità di espandersi e conquistare mercati sempre più vasti. Ovviamente, tutto ciò avviene a danno delle economie locali e delle specificità qualitative.
43) L’”imprinting” è un portato dell’etologia che spiega le prime forme di apprendimento, in una fase precoce della vita, le quali lasciano appunto una impronta che determina una identità e una appartenenza. A nostro parere, si tratta di una fase di apprendimento pre culturale che può manifestarsi anche oltre la prima infanzia di fronte a nuove esperienze non ancora viziate da acquisizioni di natura culturale. Per essere più espliciti, sono le sensazioni che proviamo da un contatto con specifici ambienti urbani, naturali o familiari, il primo linguaggio che apprendiamo, i comportamenti sociali imitativi, le esperienze organolettiche, il microclima e quant’altro sono tutte forme di imprinting identitarie.
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