03 dicembre 2022 È INTERESSE DELLA SOCIETÀ VALORIZZARE IL MERITO Un’impietosa analisi dell’università italiana la fece il prof. Raffaele Simone nel 1993 col suo Università dei Tre Tradimenti – cioè quelli ai danni dello Stato, degli studenti e della ricerca scientifica. Con molte considerazioni condivisibili, ma altrettante eccessivamente severe e forse ingenue, soprattutto per i rimedi proposti, le piaghe dell’università italiana venivano scoperte proprio nel momento in cui la stessa ha totalmente ignorato i problemi che il Simone sollevava, come se questi avesse lanciato pietre contro un muro di gomma. Già Leonardo Sciascia si era mostrato preoccupato del fatto che nella società italiana «persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese; persone delle quali può dirsi ciò che D’Annunzio diceva di Marinetti, e cioè che sono dei cretini con qualche lampo d’imbecillità, ma che vivono in un contesto in cui la stessa appare, invece, fantasia». Dite come volete: la circostanza si chiama la prevalenza del cretino, il mediocre al potere o, in una parola, la mediocrazia. A dimostrazione che le cose stiano così, basti pensare che alla guida politica dell’università v’erano, un tempo, uomini col nome di Francesco De Sanctis, Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Giovanni Spadolini, Antonio Ruberti, Giorgio Salvini, Tullio De Mauro. Negli ultimi vent’anni? Meglio stendere il proverbiale pietoso velo. Il primo poderoso fendente distruttivo fu inflitto dal Sessantotto. Promossa da un’esigua, ma rumorosissima, minoranza, la contestazione di allora negava ai professori il dovere – ché di dovere si tratta, e non di diritto – di valutare gli studenti. Non fu il solo aspetto di quella contestazione: anzi, ve ne furono altri più importanti e con conseguenze drammatiche per gli italiani, che si apprestavano a vivere quegli anni di piombo che – come ben sappiamo – comportarono oltre 450 morti e oltre 4500 tra feriti e mutilati per mano dei protagonisti di quel Sessantotto. Negato quindi ai professori il dovere di valutare gli studenti, furono, quelli che seguirono, gli anni del 18 politico: il titolo di studio divenne di massa. Il passo dal 18 politico al 30 politico fu breve: insomma, una conseguenza di quei disastrosi anni fu che si creò gran confusione sui meriti. Nei consigli di Facoltà e nei Senati accademici furono demagogicamente introdotti i rappresentanti degli studenti. Costoro sono per lo più studenti scadenti che, di fatto, rappresentano solo sé stessi, e sgomitano per avere una posizione che, vicina ai professori, gli consente di entrare con essi in rapporto quasi amicale, circostanza che riduce per loro il numero di bocciature. Valga per tutti il seguente dato: sono votati, quando l’affluenza è alta, da non più del 15% degli studenti. La maggior parte dei quali, essendo giovani intelligenti, non si disturbano di andare a votare rappresentanti che sanno benissimo essere farlocchi. Il secondo poderoso fendente fu inflitto da Luigi Berlinguer. Da primo comunista che occupò quel dicastero, il peggiore ministro che l’università abbia mai avuto cancellò il periodo di laurea, che fino ad allora era, per tutte le discipline esclusa medicina, di 5 anni, e lo ridusse a 3 anni. Basti solo dire che nel resto del mondo si ha il titolo di “dottore” dopo 8-9 anni d’università. Ad esempio, negli Stati Uniti, dopo 4 anni di college, alla fine del quale si consegue il titolo di bachelor (il titolo conseguito da Dustin Hoffmann nel Laureato), si fa ingresso nella graduate school, che dura circa 5 anni, alla fine dei quali si è, appunto, “dottori” (Ph.D.). Generalmente, a metà strada, viene elargito il titolo di Master, che rimane a chi non completa la graduate school; chi conosce il sistema anglosassone sa bene che uno col Master è ritenuto niente più che un Ph.D. fallito. A un di presso lo stesso passo è tenuto nel resto del mondo. Con Giovanni Berlinguer, proclamati “dottori” dopo 3 anni, la prima università italiana, La Sapienza di Roma, precipitava al 200mo posto nella classifica mondiale delle università. Una posizione che fu tale solo perché una disciplina, la Fisica alla Sapienza, godeva di una onorevole 20ma posizione. Ma, senza andare ai tempi lontani di Galilei, la Fisica italiana, grazie al seme posto da Enrico Fermi e valorizzato da Orso Maria Corbino (che senza essere iscritto al partito fascista fu lo stesso ministro) è una mosca bianca nel panorama accademico italiano. Valorizzare il merito non può essere una istanza posta dalla massa degli studenti. Perché il merito, l’eccellenza, per propria stessa definizione, attiene ad una minoranza. La massa è mediocrità, e dico questa senza alcuna velleità elitaria ma, appunto, per definizione dei termini. È la stessa società, allora, che deve pretendere la valorizzazione del merito, non foss’altro perché è interesse della società poter distinguere medici o ingegneri di prim’ordine dai meno eccellenti, dai mediocri e, infine, dagli scadenti. Mediocri e scadenti sono la schiacciante maggioranza che mai chiederà la valorizzazione del merito, come mai la chiederebbe un Luigi Di Maio. C’è qualcosa che si può fare per l’università? Molte cose, sicuramente, ma ne dico una sola (magari altre verranno in futuro). Ripensare il 3+2 e tornare a corsi strutturati sul quinquennio. Il 3+2 fu il prodotto figlio di una scellerata commissione di 20 componenti: nessuno era fisico, nessuno chimico, biologo, geologo, medico, architetto, farmacologo, informatico. In compenso v’erano 6 sociologi (incluso, inutile dirlo, il presidente). La commissione fu capace di distruggere la tradizionale architettura dell’organizzazione dello scibile umano e sostituirla con un confusionario e disorganico miscuglio di corsi, corsetti e corsini (si chiamavano moduli) con nomi spesso improbabili o di fantasia. Probabilmente vi chiederete che differenza fa due cicli di 3+2 o uno di 5. Ebbene, siamo in un caso – e non è il solo – in cui 3+2 non fa 5. Nelle intenzioni di Berlinguer v’era, innanzitutto, il desiderio d’offrire un titolo immediatamente-spendibile-nel-mondo-del-lavoro. Purtroppo il fallimento è stato totale, e non poteva essere diversamente. La mia esperienza personale è sicuramente aneddotica, ma il fatto è che conosco molti “dottori” in biologia o ingegneria che, trascorsi i tre anni di studi, fanno il cuoco, il tassista, l’agente immobiliare o assicurativo, ma non conosco alcuno che fa il biologo o l’ingegnere. Come mai? Nel cercare di accontentare Berlinguer e far stare in 3 anni ciò che una volta stava in 5 anni, i corsi di laurea in chimica hanno drasticamente ridotto la formazione di base in matematica e in fisica. I corsi di biologia hanno drasticamente ridotto le matematiche, le fisiche e le chimiche. E via di questo passo. Gli ingegneri pre-Berlinguer dovevano studiare almeno due corsi di fisica e, anche se a scelta, un terzo corso di analisi matematica. Oggi, molti si laureano in ingegneria con formazione dimezzata in fisica e il corso di analisi matematica 3 è sparito in molte sedi. Bisogna essere consapevoli che in meno di 5 anni non si stabiliscono le basi per alcuna professione che richieda studi universitari. Aver costruito la formazione di base su basi di sabbia ha avuto inevitabili ripercussioni negative sulla formazione dei futuri professionisti. Nulla di grave finché le circostanze non li pretendano di prim’ordine. La gestione della pandemia insegna. Franco Battaglia Articolo pubblicato il 26 novembre 2022 sul quotidiano LA VERITÀ ... |