INTERVISTA A MARIO GIACCIO
Nella sua carriera Mario Giaccio ah
operato negli Atenei di Modena, Bologna, Ancona e Milano Bicocca e,
in ultimo, in quello di Chieti-Pescara ove per 14 anni è stato
Preside della Facoltà di Economia e ha insegnato, tra le altre cose,
Economia delle Fonti di Energia. Ha diretto la rivista scientifica
«Journal of Commodity Science,
Technology and Quality» ed è
stato responsabile scientifico del «Research
Center for Evaluation and Socio-Economic Development»,
istituito sotto il patronato dell’Onu. Lo studio del clima non è
il suo mestiere, ma le premesse e le conseguenze economiche delle
misure di presunta mitigazione del clima, sì. Per il grande pubblico
ha scritto «Il climatismo, una
nuova ideologia» (21mo
Secolo, 2017).
Professor Giaccio, che idea s’è
fatta delle note misure di riduzione delle emissioni?
«Nel 2015, alla Cop25 di Parigi, la Ue
dichiarò che entro il 2030 avrebbe ridotto le proprie emissioni di
CO2
del 40% rispetto ai livelli del 1990. Senonché, in atmosfera vi sono
3200 Gt (miliardi di tonnellate) di CO2,
quella emessa dall’uomo in un anno si attesta a 32 Gt, un decimo
della quale è imputabile alla Ue, il cui 40% fa meno di 1.3 Gt, che
è lo 0.04% di tutta la CO2
presente in atmosfera. In termini di concentrazione, si passerebbe in
10 anni dagli attuali 400 ppm a 399.84 ppm, una quantità impossibile
anche solo da misurare, posto che le oscillazioni naturali
giornaliere e stagionali sono di circa 4 ppm».
Però dal 2009 al 2019 le emissioni
europee si sono ridotte del 10%...
«La riduzione è stata conseguenza di
due cause. Primo, della grave crisi economica del 2008, innescata dai
mutui subprime
americani, con conseguente riduzione delle attività economiche e
produttive. Secondo, del trasferimento delle produzioni fuori
dall’Europa, segnatamente in Cina. Tramite le importazioni dalla
Cina la Ue indirettamente emette, ogni anno, la metà di quanto
intende ridurre in 10 anni e riversa sul pianeta non soltanto le
innocue emissioni di CO2,
ma anche i problemi d’inquinamento ai quali molti del resto del
mondo sono poco sensibili. Le stesse produzioni, se fossero attuate
in Ue, produrrebbero molta meno anidride carbonica, in quanto la Cina
adopera il carbone al 70%, mentre l’Europa lo impiega al 20%, visto
che usa energia elettronucleare, che non emette CO2».
Quali sono le implicazioni economiche
di questa corsa alla decarbonizzazione?
«L’Europa, tramite gli Stati
nazionali, stabilisce il limite massimo di CO2
che ogni impresa può emettere. Attualmente le imprese devono pagare
60 euro per ogni tonnellata di CO2
emessa, che è un’ulteriore imposta che viene apposta sulla
produzione. Se un’impresa emette meno della quota assegnatale può
rivendere i permessi di emissione alle imprese che hanno emesso di
più. In questo modo si è creato un mercato dei permessi di
emissione che sono dei veri e propri titoli finanziari. Questo
meccanismo si chiama Ets (Emissions
trading system). Tale
ulteriore imposta induce molti settori produttivi a emigrare fuori
dalla Ue, che è così costretta ad intervenire con un’assegnazione
gratuita alle imprese, dell’ordine di 400 miliardi di euro. Si noti
la furbizia della Ue: prima introduce un’ulteriore imposta sulla
produzione, poi toglie l’imposta per paura che le industrie
emigrino!
Dopo il 2020 la Ue prevede un aumento
della spesa destinata «a combattere la CO2»
fino a 30 miliardi di euro l’anno. Questa discutibile lotta per il
clima fa diminuire la spesa per finalità sociali: all’aumento
previsto dei fondi, corrisponde la diminuzione dei fondi destinati
all’agricoltura, una volta considerata da proteggere per motivi
sociali. In questo settore il nostro Paese perderà quasi 400 milioni
di euro e la regione più colpita sarà la Puglia, con tagli per
quasi 40 milioni di euro. Il tutto per far diminuire di 16 parti per
miliardo all’anno la quantità di CO2
in atmosfera».
Ma siamo in mano a stupidi o c’è un
furbo nascosto?
«Nel dicembre 2017, a due anni
dall’Accordo di Parigi, Macron ha ospitato un Summit per un patto
Finanza-Clima. In esso si denunciava «il
caos climatico e finanziario verso il quale si dirige l’umanità».
Curiosamente, il caos finanziario, dovuto all’uomo, è presentato
come un evento naturale; il cambiamento climatico, che è un fatto
naturale, viene imputato all’uomo. Al summit si chiedeva di
riorientare la politica monetaria per finanziare la transizione
energetica che – ha stimato la Corte europea – richiede più di
1000 miliardi di euro di risorse all’anno. Fra le tante proposte vi
è questa: «l’emissione di
nuova moneta sia messa al servizio della lotta contro gli
sconvolgimenti climatici». A
livello internazionale la green
economy rappresenta lo sforzo
per salvare il sistema finanziario globale da una nuova gigantesca
bolla finanziaria. Non a caso, l’IIF (Institute
of International Finance, che
è il cartello della finanza globale), in una pubblicazione del 9
dicembre 2019, ha definito la green
economy «il nuovo oro».
Si
badi che tutto ciò è possibile perché c’è il sussidio dello
Stato a eolico e solare: se questo venisse a mancare non vi sarebbe
più convenienza economica ad investire in queste fonti discontinue.
Se una fonte rinnovabile, dopo trent’anni di laute incentivazioni,
non è ancora in grado di competere con le fonti tradizionali, forse
significa che non sarà mai competitiva».
Sembra
una operazione a danno di tutti noi. Chi la guida?
«Per
capire chi governa il clima bisogna seguire i miliardi e i
miliardari. Nel 2015, il Financial
Stability Board
(FSB) della Bank
for International Settlements,
ha creato la «task force per il clima», per consigliare
«investitori, finanziatori e assicurazioni sui rischi legati al
clima». Fanno parte della task force le maggiori banche mondiali,
imprese di assicurazioni, fondi di investimenti, le grandi imprese
petrolifere, siderurgiche, minerarie, chimiche, che rappresentano
oltre 100 trilioni di dollari di capitale a livello globale.
Il
primo indice globale di titoli ambientali di alto livello è stato
promosso dalla Goldman Sachs ed è finanziato dalle maggiori banche
mondiali e da varie altre società. Il patrimonio complessivo da
investire è di oltre 600 miliardi di dollari. Vi è anche un fondo
europeo d’investimenti, il «Breakthrough
Energy Europe»,
cui partecipano i maggiori miliardari mondiali».
Insomma è un club per soli
miliardari...
«L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per
lo sviluppo sostenibile «per
garantire un presente e un futuro migliore al nostro Pianeta e alle
persone che lo abitano», è
stata sottoscritta il 25 settembre 2015 da 193 Paesi delle Nazioni
Unite. In pratica, «per trasformare il nostro mondo», si richiede
un impegno di trilioni di dollari di investimenti e di nuova
ricchezza per le banche globali e i giganti finanziari, che sono i
veri poteri costituiti.
L’Agenda
2030 contiene una novità: viene riproposto, dopo il Club di Roma del
1972, un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale
modello di sviluppo, ma questa volta viene espresso non solo sul
piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. È
l’aggiornamento in funzione oligarchico-finanziaria dell’ideologia
già presente nel rapporto «Our
Common Future» della
commissione Brundtland del 1987.
Quando
le multinazionali più influenti e i maggiori investitori
istituzionali del mondo si schierano per finanziare una cosiddetta
Agenda Verde, sarebbe meglio chiedersi cosa c’è sotto le campagne
pubblicitarie che cercano di convincere la gente comune a fare
sacrifici inspiegabili per «salvare il nostro pianeta». O per
salvare il “loro” pianeta. Ecco perché il tema del clima,
essendo ormai entrato profondamente negli interessi della grande
finanza, non è più discutibile e non può più essere oggetto di
dibattito. La verità è che non si tratta di transizione energetica
ma di transazioni finanziarie. La finalità dell’ideologia
climatica non è il benessere del pianeta e dei suoi abitanti, è il
benessere della grande finanza».
Franco Battaglia - articolo pubblicato sul quotidiano LA VERITÀ il 1° settembre 2022