Ambientalismo
01 settembre 2022

MACCHÈ ECOLOGICA! QUELLA IN ATTO È UNA TRANSIZIONE FINANZIARIA

INTERVISTA A MARIO GIACCIO


Nella sua carriera Mario Giaccio ah operato negli Atenei di Modena, Bologna, Ancona e Milano Bicocca e, in ultimo, in quello di Chieti-Pescara ove per 14 anni è stato Preside della Facoltà di Economia e ha insegnato, tra le altre cose, Economia delle Fonti di Energia. Ha diretto la rivista scientifica «Journal of Commodity Science, Technology and Quality» ed è stato responsabile scientifico del «Research Center for Evaluation and Socio-Economic Development», istituito sotto il patronato dell’Onu. Lo studio del clima non è il suo mestiere, ma le premesse e le conseguenze economiche delle misure di presunta mitigazione del clima, sì. Per il grande pubblico ha scritto «Il climatismo, una nuova ideologia» (21mo Secolo, 2017).


Professor Giaccio, che idea s’è fatta delle note misure di riduzione delle emissioni?


«Nel 2015, alla Cop25 di Parigi, la Ue dichiarò che entro il 2030 avrebbe ridotto le proprie emissioni di CO2 del 40% rispetto ai livelli del 1990. Senonché, in atmosfera vi sono 3200 Gt (miliardi di tonnellate) di CO2, quella emessa dall’uomo in un anno si attesta a 32 Gt, un decimo della quale è imputabile alla Ue, il cui 40% fa meno di 1.3 Gt, che è lo 0.04% di tutta la CO2 presente in atmosfera. In termini di concentrazione, si passerebbe in 10 anni dagli attuali 400 ppm a 399.84 ppm, una quantità impossibile anche solo da misurare, posto che le oscillazioni naturali giornaliere e stagionali sono di circa 4 ppm».


Però dal 2009 al 2019 le emissioni europee si sono ridotte del 10%...


«La riduzione è stata conseguenza di due cause. Primo, della grave crisi economica del 2008, innescata dai mutui subprime americani, con conseguente riduzione delle attività economiche e produttive. Secondo, del trasferimento delle produzioni fuori dall’Europa, segnatamente in Cina. Tramite le importazioni dalla Cina la Ue indirettamente emette, ogni anno, la metà di quanto intende ridurre in 10 anni e riversa sul pianeta non soltanto le innocue emissioni di CO2, ma anche i problemi d’inquinamento ai quali molti del resto del mondo sono poco sensibili. Le stesse produzioni, se fossero attuate in Ue, produrrebbero molta meno anidride carbonica, in quanto la Cina adopera il carbone al 70%, mentre l’Europa lo impiega al 20%, visto che usa energia elettronucleare, che non emette CO2».

Quali sono le implicazioni economiche di questa corsa alla decarbonizzazione?


«L’Europa, tramite gli Stati nazionali, stabilisce il limite massimo di CO2 che ogni impresa può emettere. Attualmente le imprese devono pagare 60 euro per ogni tonnellata di CO2 emessa, che è un’ulteriore imposta che viene apposta sulla produzione. Se un’impresa emette meno della quota assegnatale può rivendere i permessi di emissione alle imprese che hanno emesso di più. In questo modo si è creato un mercato dei permessi di emissione che sono dei veri e propri titoli finanziari. Questo meccanismo si chiama Ets (Emissions trading system). Tale ulteriore imposta induce molti settori produttivi a emigrare fuori dalla Ue, che è così costretta ad intervenire con un’assegnazione gratuita alle imprese, dell’ordine di 400 miliardi di euro. Si noti la furbizia della Ue: prima introduce un’ulteriore imposta sulla produzione, poi toglie l’imposta per paura che le industrie emigrino!

Dopo il 2020 la Ue prevede un aumento della spesa destinata «a combattere la CO2» fino a 30 miliardi di euro l’anno. Questa discutibile lotta per il clima fa diminuire la spesa per finalità sociali: all’aumento previsto dei fondi, corrisponde la diminuzione dei fondi destinati all’agricoltura, una volta considerata da proteggere per motivi sociali. In questo settore il nostro Paese perderà quasi 400 milioni di euro e la regione più colpita sarà la Puglia, con tagli per quasi 40 milioni di euro. Il tutto per far diminuire di 16 parti per miliardo all’anno la quantità di CO2 in atmosfera».


Ma siamo in mano a stupidi o c’è un furbo nascosto?


«Nel dicembre 2017, a due anni dall’Accordo di Parigi, Macron ha ospitato un Summit per un patto Finanza-Clima. In esso si denunciava «il caos climatico e finanziario verso il quale si dirige l’umanità». Curiosamente, il caos finanziario, dovuto all’uomo, è presentato come un evento naturale; il cambiamento climatico, che è un fatto naturale, viene imputato all’uomo. Al summit si chiedeva di riorientare la politica monetaria per finanziare la transizione energetica che – ha stimato la Corte europea – richiede più di 1000 miliardi di euro di risorse all’anno. Fra le tante proposte vi è questa: «l’emissione di nuova moneta sia messa al servizio della lotta contro gli sconvolgimenti climatici». A livello internazionale la green economy rappresenta lo sforzo per salvare il sistema finanziario globale da una nuova gigantesca bolla finanziaria. Non a caso, l’IIF (Institute of International Finance, che è il cartello della finanza globale), in una pubblicazione del 9 dicembre 2019, ha definito la green economy «il nuovo oro».

Si badi che tutto ciò è possibile perché c’è il sussidio dello Stato a eolico e solare: se questo venisse a mancare non vi sarebbe più convenienza economica ad investire in queste fonti discontinue. Se una fonte rinnovabile, dopo trent’anni di laute incentivazioni, non è ancora in grado di competere con le fonti tradizionali, forse significa che non sarà mai competitiva».

Sembra una operazione a danno di tutti noi. Chi la guida?


«Per capire chi governa il clima bisogna seguire i miliardi e i miliardari. Nel 2015, il Financial Stability Board (FSB) della Bank for International Settlements, ha creato la «task force per il clima», per consigliare «investitori, finanziatori e assicurazioni sui rischi legati al clima». Fanno parte della task force le maggiori banche mondiali, imprese di assicurazioni, fondi di investimenti, le grandi imprese petrolifere, siderurgiche, minerarie, chimiche, che rappresentano oltre 100 trilioni di dollari di capitale a livello globale.

Il primo indice globale di titoli ambientali di alto livello è stato promosso dalla Goldman Sachs ed è finanziato dalle maggiori banche mondiali e da varie altre società. Il patrimonio complessivo da investire è di oltre 600 miliardi di dollari. Vi è anche un fondo europeo d’investimenti, il «Breakthrough Energy Europe», cui partecipano i maggiori miliardari mondiali».

Insomma è un club per soli miliardari...


«L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile «per garantire un presente e un futuro migliore al nostro Pianeta e alle persone che lo abitano», è stata sottoscritta il 25 settembre 2015 da 193 Paesi delle Nazioni Unite. In pratica, «per trasformare il nostro mondo», si richiede un impegno di trilioni di dollari di investimenti e di nuova ricchezza per le banche globali e i giganti finanziari, che sono i veri poteri costituiti.

L’Agenda 2030 contiene una novità: viene riproposto, dopo il Club di Roma del 1972, un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, ma questa volta viene espresso non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. È l’aggiornamento in funzione oligarchico-finanziaria dell’ideologia già presente nel rapporto «Our Common Future» della commissione Brundtland del 1987.

Quando le multinazionali più influenti e i maggiori investitori istituzionali del mondo si schierano per finanziare una cosiddetta Agenda Verde, sarebbe meglio chiedersi cosa c’è sotto le campagne pubblicitarie che cercano di convincere la gente comune a fare sacrifici inspiegabili per «salvare il nostro pianeta». O per salvare il “loro” pianeta. Ecco perché il tema del clima, essendo ormai entrato profondamente negli interessi della grande finanza, non è più discutibile e non può più essere oggetto di dibattito. La verità è che non si tratta di transizione energetica ma di transazioni finanziarie. La finalità dell’ideologia climatica non è il benessere del pianeta e dei suoi abitanti, è il benessere della grande finanza».


Franco Battaglia - articolo pubblicato sul quotidiano LA VERITÀ il 1° settembre 2022








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