di
Roberto PECCHIOLI
Pronunciare
parole può essere paragonato ad accendere un fuoco. Quando vengono
dette, le cose e i concetti– che esistono a prescindere- appaiono
nella mente, sono accanto a noi, possono essere designate e nominate.
Ogni distinta parola denota per la stessa cosa una diversa
caratteristica o una sua sfumatura. La guerra semantica, modificando
quella percezione, diventa il pompiere del lessico.
La
ricchezza del linguaggio segue la ricchezza dell'essere. La parola
trasporta, carica, descrive, guida la nozione concreta del mondo.
Perciò, cancellando, deformando e corrompendo le viscere del
linguaggio, si attacca l'essere dell'uomo. La confusione linguistica
distrugge il dialogo del presente con il passato; la comunicazione
con gli altri si interrompe e si alza una barriera che ostacola
l'accesso al patrimonio storico e culturale. Se le società ignorano
il loro passato, sono inconsapevoli di chi sono. Attaccando la lingua
si spezza l'identità della popolazione.
Stiamo
assistendo a un impoverimento deliberato delle nostre intelligenze.
Il nostro stomaco è sazio, ma la nostra intelligenza è denutrita.
“Solo quando ci saremo liberati di un frasario ingannevole,
riprenderemo possesso delle nostre forze intellettuali.” (Frèdèric
La Play). Il dramma è che la manipolazione
linguistica trova scarsissima opposizione e ancora meno
consapevolezza. Noi stessi cadiamo nelle sue trappole, per abitudine
e disattenzione. La gente tende a usare le parole credendo che siano
neutre, innocenti, intercambiabili come un paio di scarpe.
Poi
ci sono la pigrizia, la presunzione, l’incomprensione del problema
da parte di chi avrebbe la possibilità e il dovere di combatterlo
culturalmente e politicamente. Un altro problema è la complicità
che diventa tradimento. Per quieto vivere, tornaconto, conformismo si
accetta la terminologia del nemico pur sapendola falsa. La condizione
di chi reagisce somiglia sempre più alla voce solitaria, non
creduta, di Laocoonte, unico a mettere in guardia i Troiani dal
cavallo di legno introdotto in città da Ulisse. Infine
vi è l’errore di chi ritiene innocuo usare un vocabolario
ideologizzato poiché questo hanno insegnato referenti intellettuali
disonesti. Timeo danaos et dona
ferentes, dice Laocoonte nella
narrazione virgiliana dell’Eneide: temo i greci anche quando
portano doni.
La
guerra semantica modifica, con il significato, la percezione dei
concetti e il giudizio comune. Esaminiamo la parola uguaglianza: da
Aristotele in poi, dovrebbe essere l’uguaglianza tra gli uguali- ci
si perdoni la tautologia. Per i più è diventata l’egalitarismo
orizzontale che nega il merito e l’evidenza. Cambiamento è
un’altra parola talismano: la pronunciamo con enfasi senza sapere
che cosa vogliamo modificare e soprattutto perché, ma il fascino del
cambiamento- identificato con un altro totem, il progresso- è uno
dei fondamenti del nostro tempo.
Ci
dicono che è opportuno avere idee ed opinione “moderate” come se
la verità fosse sempre nel mezzo, un luogo inesistente. Aborriamo
l’estremismo e il fanatismo, come se avere convinzioni nette sia
negativo. Siamo immersi- a partire dalle parole- nel paradossale
estremismo della moderazione.
Diciamo
“discriminazione”, il cui significato è selezionare discernendo,
differenziando, distinguendo, e molti sono stati indotti a pensare al
disprezzo per ragioni razziali, etniche, politiche, religiose e –
negli ultimi anni – sessuali. In realtà, significa distinguere.
Quindi non discriminare equivale a confondere. La bandiera della non
discriminazione è il simbolo della confusione. D'altra parte, il
linguaggio è necessariamente discriminatorio perché le parole
esistono precisamente per discernere. Viviamo a Elebab, Babele
scritta al contrario. Nella biblica Babele si diceva la stessa cosa
in varie lingue e nessuno capiva. Nella Babilonia contemporanea, la
stessa parola può riferirsi a cose e idee diverse e persino opposte.
Il
pericolo maggiore è che la manipolazione del linguaggio facilita
l’accettazione di ideologie, idee, concetti o prassi voluti da chi
ha il controllo sulle parole. Un esempio di guerra semantica- che
moltissima gente non riesce a riconoscere perché la rappresentazione
ha vinto sulla realtà- è il termine “diritti umani”.
Un’espressione riferita astrattamente alla specie, la cui dignità
sarebbe meglio rappresentata dalla locuzione diritti della persona
umana.
Oppure
la banalizzazione estrema della pratica dell’aborto, promossa a
diritto universale. Per la legislazione, si tratta della neutrale
“interruzione volontaria di gravidanza” o del suo acronimo IVG,
che dalla burocrazia sanitaria tracima nel linguaggio comune. Da
qualche anno le agenzie internazionali (ONU, OMS) parlano – in
termini zootecnici- di “salute riproduttiva”. Ma la maternità
non è una malattia.
La
guerra semantica impone il vocabolario e avanza senza resistenze
apprezzabili. Ecco perché non dobbiamo solo contrastare concetti
falsi (o ideologici, o confusi), ma abbiamo l’obbligo di non
convalidare quel linguaggio con il nostro uso. Le persone possono
accettare locuzioni fuorvianti attraverso una lunga, inavvertita
ideologizzazione. Diffusa ed efficace è l’abitudine mettere i
concetti nel carrello come merci al supermercato. Le parole vengono
assunte, fatte proprie per moda, per essere come tutti, non fare
brutta figura in certi ambienti, sinché piano piano (e
impercettibilmente) entrano in circolo. Trasbordo ideologico e
semantico inavvertito.
La
guerra semantica opera clandestinamente, a livelli psicologici
inconsci, ed è per questo che troppi la sottovalutano. Inutile
schermirsi dicendo a se stessi: parliamo come loro ma mettiamo nelle
parole il nostro senso. L'uso di una certa parola, di una determinata
espressione ci rende implicitamente favorevoli a ciò che è nascosto
nella sua ombra, ovvero al significato che il potere intende
attribuirgli. La storia lo dimostra: quando usiamo il vocabolario del
nemico, finiamo per pensare come lui.
Perché
gli ideologi sono così interessati a cancellare certe parole?
Mettiamoci nei loro panni. Se voglio che le persone perdano la
capacità di distinguere il normale dall'anormale, il vero dal falso,
la natura dall'innaturale, il bene dal male, la virtù dal vizio; se
voglio annientare queste differenze che non possono scomparire nella
realtà, devo cancellarle dalle menti. Come? Evitando di scrivere e
pronunciare le parole che ci portano alla verità delle cose e
possibilmente vietandole.
Io,
l'ideologo, devo seppellire i termini la cui menzione presuppone
l'assoluto: bene e male, virtù e vizio, vero e falso, giusto e
ingiusto, e così via. Tutte hanno un principio che mi rifiuto di
ammettere: se affermo “questo è bene” o “questo è vero”,
inevitabilmente entro nel campo del giudizio di merito. Lo stesso si
dice della giustizia e della virtù, la cui mera evocazione pone
nella rarefatta atmosfera delle verità perenni. Quindi, devo
criminalizzare la verità. Occorre che sia demonizzata, che il suo
solo accenno porti all'indignazione, alla tensione. La verità e la
parola che la esprime devono diventare uno scandalo e se possibile un
delitto.
Tuttavia,
poiché l'uomo ha bisogno di continuare a parlare- io, il servo del
potere- dopo aver condannato e sepolto certe parole- devo fare in
modo che ne siano usate altre. Quali? Termini inclini
all'imprecisione e all'equivoco, cioè parole ed espressioni che non
sottintendono il fondamento del realismo filosofico: l'intelligenza a
contatto con la realtà.
Devo
far parlare come se l'essere umano non possedesse un pensiero
metafisico e una vocazione all'essere. Ci tocca ricorrere alle
impervie categorie e alle parole della filosofia: basta noumeni-
cioè i concetti delle cose in sé che vanne oltre i semplici
“fenomeni” (Kant). La mente umana deve girare intorno alle cose
senza mai penetrarle, e, per usare il lessico della Scolastica,
rendersi incapace di dimorare nell’essenza, ma abitare solo negli
“accidenti”, le qualità che non appartengono al nucleo
concettuale di un oggetto o di un principio.
Il
nuovo criterio di giudizio che imporrò sarà scandito da coppie
oppositive in cui il secondo termine è postulato (mai dimostrato!)
come negativo. Popolare/impopolare; moderno/antico;
moderato/intransigente; maggioranza/minoranza; tollerante
/intollerante o fanatico; costituzionale/incostituzionale.
Dove
sta il trucco? Qualcosa può essere impopolare ed essere vera,
moderna e disastrosa; la moderazione può diventare ipocrisia e
viltà, la maggioranza può essere criminale e il suo giudizio
errato, la tolleranza può nascondere indifferenza e fiacchezza
morale, la costituzionalità (la legalità formale) può essere
conseguenza di una premessa errata. Per questo, tutti questi
aggettivi sono adattabili sia alla verità sia all'errore.
Per
Joseph De Maistre “quella che oggi si chiama idea nuova, pensiero
audace, grande pensiero, si chiamava quasi sempre, nel dizionario
degli scrittori del secolo precedente, audacia criminale, delirio o
attacco".
Per
gettare le basi di una lotta che sappia affrontare il domani,
dobbiamo rispolverare una virtù condannata oggi come orribile
chiusura mentale, mentre è saldezza nelle convinzioni; ci può
salvare solo l’intransigenza, il duro esercizio di non cedere nelle
idee, nel linguaggio, nelle attitudini, perseverando sino a costruire
una corazza impermeabile, diventare una testimonianza senza mezzi
termini, vino non annacquato. Il nemico, anche nella guerra
semantica, vuole costringerci ad avere un complesso di inferiorità,
prologo della resa. Vuole
distruggere la cultura, seminare il caos e corrompere il linguaggio.
E’ più abile di chi difende la verità.
Con
Tommaso d’Aquino, prendiamo atto che prima viene l’intelletto e
poi la volontà. Perciò dobbiamo studiare, pensare, agire più e
meglio del nemico. Ad esempio, cominciando dai mille concetti da
demistificare sul terreno più congeniale all’ideologia avversaria,
l’economia. Scateniamo noi una guerra semantica, andando
all’attacco, decostruendo uno per uno tutti i termini “positivi”
delle loro visione: libero mercato, liberismo, libertarismo,
liberalismo, sviluppo, benessere, rendita, profitto, concorrenza,
crescita, progresso.
L’inganno
sui significati – e la torsione dei significanti- è talmente
grande da non essere quasi più visibile. La guerra consiste talvolta
nella capacità- e nella temerità- di penetrare in territorio nemico
e stabilirvi avamposti, a partire dalle parole. Dario Fo, nel suo
linguaggio bizzarro e paradossale di consumato teatrante, enunciò in
una commedia una verità da non dimenticare: il padrone conosce mille
parole, l’operaio trecento; per questo è il padrone.