(parte prima)
di
Roberto PECCHIOLI
La
guerra semantica è la lotta per il significato delle parole. Chi
possiede le parole- ovvero riesce ad attribuire a un termine (il
significante) il significato che diventerà comunemente accettato e
utilizzato- vince non solo la guerra delle parole, ma possiede il
passato, determina il presente e orienta il futuro. L’ipertrofia
delle immagini rende oggi più difficile contrastare i cambiamenti di
significato (e non di rado di significante) di molte parole e
concetti. L’ Homo videns
(Giovanni Sartori) vive di immediatezza, di strumentalità,
concepisce il linguaggio esclusivamente come mezzo e tende a non
porsi domande.
La
lettura, al contrario, stimola il pensiero astratto e chi legge è
molto meno manipolabile di tutti gli altri. Il politicamente corretto
avrebbe avuto difficoltà a diffondersi a macchia d’olio con
stupefacente rapidità se la massa fosse formata da lettori, anziché
da telespettatori e recettori passivi di suoni e immagini. Costoro
pensano pochissimo, dunque sono facili prede della mistificazione
anche sul terreno minato delle parole e dei significati. Guerra
semantica è un concetto coniato negli anni Settanta da un
intellettuale argentino, Carlos Disandro, riferito alle
trasformazioni di significato che si stavano verificando nel lessico
della Chiesa cattolica per iniziativa della corrente modernista.
Al
di là della polemica intracattolica, linguaggio, ideologia e potere
sono profondamente collegati e il vincitore della guerra delle parole
è colui che deterrà l’egemonia su un popolo o su una cultura. Il
vocabolo semantica proviene dal greco e vuol dire appunto
“significato”. L’atto di dare un nome a cose e concetti è un
gesto istituente: nella tradizione biblica Dio dà a Adamo il potere
di dare il nome agli elementi del creato. Nel Corano la funzione è
attribuita direttamente a Dio, che dando il nome alle cose, le dota
di senso e di significato, le rende vive, non più inerti. Nella
tradizione orientale, Confucio, a chi gli chiedeva quale sarebbe
stato il suo primo provvedimento se avesse avuto incarichi di
governo, rispose che avrebbe
“rettificato le denominazioni”.
“Se
le denominazioni non sono corrette, se non corrispondono alla realtà,
il linguaggio diventa senza oggetto, per cui l'azione diventa
impossibile. La verità confuciana è evidente in un mondo che non
solo ha distorto e capovolto significati e proibito parole, ma
alimenta una confusione insopportabile. Non esiste più la
concordanza tra la parola e la cosa; […] pullulano neologismi
ingannevoli a base di bi, poli, multi, inter, trans. L'inversione o
la semplice modifica delle denominazioni, dell'ordine del discorso,
cambia profondamente la psiche umana, confondendola prima di
impoverirla. Lo sapeva un altro gigante dell'antichità cinese, Lao
Tze: più vi sono interdetti e proibizioni, più il popolo
s'impoverisce. Ogni potere ha l'ambizione di produrre un linguaggio
proprio, al quale il popolo si deve uniformare: è il potere di
stabilire, attraverso le parole, il lecito e l'illecito.
Dietro
la grancassa della libertà e della democrazia, l'epoca contemporanea
non si comporta diversamente, attraverso un proibizionismo malamente
celato che dichiara illegali certi pensieri e determinate parole,
nonché i sentimenti non conformi all'ordine del discorso. Non si
tratta di un potere simbolico: il potere culturale comanda
segretamente tutti gli altri, orientando la rappresentazione
autorizzata della realtà che Freud chiamò Super Io. Il Super Io
postmoderno ha una architrave nel linguaggio e nel pensiero della
correttezza politica. Il politicamente corretto è l'operazione di
ingegneria linguistica e metaculturale per mezzo della quale vengono
ridefiniti i significati di parole e concetti chiave, in modo da
riformulare l'immagine del mondo della massa. (R. Pecchioli,
Dizionario del politicamente corretto e della neolingua, Effepi.
2020).
Non
è quindi esagerato usare la locuzione guerra semantica poiché ogni
disputa sui termini è preceduta da una discordanza intorno alle
idee. Chi la vince esercita l’egemonia culturale, quindi il potere
politico oltre i governi e le generazioni, come sapeva Antonio
Gramsci.
Se
scaviamo in profondità sui significati, rileviamo che le persone e i
gruppi sociali possono pronunciare le stesse parole ma riferirsi a
cose e concetti diversi e persino opposti. È qui che si svolge la
guerra semantica. Il potere la gestisce efficacemente perché ne
conosce le molle psicologiche. Spiazzati, coloro che difendono la
corrispondenza della parola con la realtà- ovvero chi continua a
vedere con i suoi occhi - sono troppo spesso sulla difensiva, finendo
per parlare con le parole del nemico, ossia descrivono il mondo con
occhi altrui.
Occorre
riuscire nell’operazione contraria: tornare a far parlare gli altri
come noi, ovvero ripristinare- rettificandole- le denominazioni, come
aveva capito Confucio. Quando parliamo come il nemico, stiamo
arretrando, stiamo perdendo la partita. Questa è la chiave della
guerra semantica. Gli esempi sono innumerevoli: riflettiamo sul
significato vero e su quello che viene diffuso, di termini come
tolleranza, diritti, genere, o su locuzioni e sintagmi inventati per
produrre confusione prima, sentire positivo o neutralizzazione dei
significati dopo: fine vita, interruzione volontaria di gravidanza,
matrimonio ugualitario.
L’arte
della manipolazione della parola ebbe un geniale maestro nel truce
Lavrenti Beria, collaboratore di Stalin poi ucciso a freddo durante
una riunione del Comitato Centrale del Partito Comunista Sovietico.
Beria, maestro di psicopolitica, disse chiaramente che l’obiettivo
numero uno era produrre il massimo caos nella cultura nemica.
Nietzsche
dice che la ragione è una "vecchia imbrogliona" penetrata
nel linguaggio, poiché questo riflette una struttura razionale del
mondo. Arrivò ad asserire “temo molto che non potremo liberarci di
Dio finché continueremo a credere nella grammatica". Più
vicino a noi, un influente agente del caos fu Herbert Marcuse,
esponente della velenosa Scuola di Francoforte che Gyorgy Lukàcs
chiamò Grand Hotel Abisso. Per l’autore dell’Uomo a una
dimensione, guru del Sessantotto, fondamentale
è “rompere con
l'universo linguistico dell'ordine costituito”.
Ecco
come lo spiega: “È un fenomeno noto che i gruppi sottoculturali
sviluppino il proprio linguaggio, togliendo dal loro contesto le
parole innocue della comunicazione quotidiana e usandole per
designare oggetti o attività che sono state trasformate in tabù dal
sistema stabilito. Questa è la sottocultura hippie: trip (viaggio,
ovvero l’uso della droga)
erba (la
marijuana e altre sostanze psicotiche
vegetali)
pot (cannabis),
acid
(l’acido
lisergico o LSD, la droga artificiale degli anni Sessanta e Settanta)
eccetera.” Priorità fattuali e linguistiche che la dicono lunga
sulle derive che hanno innescato, ma qui importa mostrare un sistema
consolidato di utilizzo delle parole in cui il mondo di Marcuse, per
contrastarlo, riorganizzava le parole in un diverso contesto.
Marcuse
spiega che si tratta di promuovere "una ribellione linguistica
sistematica, che frantuma il contesto ideologico in cui le parole
sono usate e definite, e le colloca nel contesto opposto: una
negazione di quello stabilito". Parlò
addirittura di “terapia linguistica, cioè
il compito di liberare le parole (e quindi i concetti) dalla totale
distorsione dei loro significati operata dall'ordine costituito.
Esige lo spostamento dei criteri morali (e la loro convalida),
sottraendoli dall'ordine stabilito, e la rivolta contro di esso”.
Cambia le parole per provocare una rivolta, una rivoluzione.
La
rivoluzione, marxista, sessuale e psicanalitica per Marcuse, mentre
oggi è direttamente globalista- ha i suoi indicatori. “Il grado in
cui una rivoluzione sviluppa condizioni sociali e relazioni
qualitativamente diverse può forse essere indicato dallo sviluppo di
un linguaggio diverso: la rottura con il continuum del dominio deve
anche essere una rottura con il vocabolario del dominio.”
Ecco
svelata l’origine del politicamente corretto: il linguaggio della
post borghesia rivoluzionaria nei costumi e conservatrice nel campo
economico imposto come cammino obbligato verso la cancellazione della
cultura europea e occidentale. Uno dei diritti più effettivi del
Sovrano, soggiunge Marcuse, è il diritto a stabilire definizioni
coercitive delle parole. In parole semplici, chi comanda stabilisce
il significato, l’uso e la proibizione delle parole. Lo intuì
Lewis Carroll, l’autore di Alice nel paese delle meraviglie,
introducendo il personaggio di Humpty Dumpty, buffo omino a forma di
uovo il cui eloquio è incomprensibile alla piccola Alice.
La
questione è illuminante: “quando io uso una parola, spiega
Humpty Dumpty – metafora del potere di ogni tempo – essa
significa esattamente ciò che io voglio che significhi.
All'osservazione di Alice che le parole possono avere tanti
significati, l'ometto replica: quando faccio fare a una parola un
simile lavoro, la pago sempre di più. Modernissimo, anzi
contemporaneo. Potremmo dire che nelle parole di Humpty Dumpty c'è
l'intero impianto teorico e pratico del politicamente corretto: la
torsione delle parole per far assumere loro significati graditi al
potere, padrone del linguaggio, anzi, per usare un'espressione a sua
volta politicamente corretta, della narrazione; un potere che prende
l'iniziativa e paga profumatamente settori sociali e personalità
della cultura di servizio". (R.
Pecchioli, Dizionario del politicamente corretto e della neolingua)
Paulo
Freire, ideologo dell’educazione e agitatore sociale brasiliano
(1921-1997) inventò il concetto di parole generatrici. Si tratta
delle parole chiave della comunità, come mattone,
acqua, casa, carestia
che, una volta apprese, suscitano una riflessione. In questo modo, il
popolo si abituava a riflettere sul mondo circostante. Freire ne
individuò ottanta, proponendo di ridurle a quindici. Sconcertante:
si era sempre pensato che la
cultura consistesse nell’imparare più cose. Freire credette di
scoprire che la sua essenza è apprenderne meno. Ha cioè invertito
il cammino di ogni civiltà conosciuta. La sua rivoluzione culturale
produce una semplificazione totale: prima bisognava imparare almeno
ottanta parole generatrici. Con quindici, si diventa semi analfabeti
funzionali. Eppure anche per il positivista Wittgenstein i limiti del
linguaggio sono i limiti del pensiero.
L’obiettivo
del potere è dunque la nostra ignoranza, la compressione del nostro
pensiero per possederlo, controllarlo, guidarlo, a partire dalle
parole che usiamo. Ne era consapevole George Orwell che inventò in
1984 il personaggio di Syme, il cui compito all’interno del Partito
(il potere…) è la redazione di un dizionario per dare alla lingua
la sua “forma finale”, la “neolingua”. Interrogato dal
protagonista, Winston, Syme – la voce del padrone - fa una
rivelazione di capitale importanza.
“Penserai
sicuramente che il nostro compito principale sia inventare nuove
parole. Niente di tutto questo. Quello che facciamo è distruggere le
parole, centinaia di parole ogni giorno. Stiamo potando la lingua per
lasciarla nelle ossa”. Syme dice a Winston che il vecchio
linguaggio soffre di grande vaghezza poiché incorpora "inutili
sfumature di significato". Questa molteplicità deve essere
tagliata alla radice: “non vedi che lo scopo della neolingua è
limitare la portata del pensiero, restringere il raggio d'azione
della mente? Alla fine, finiamo per rendere impossibile qualsiasi
crimine mentale". Cioè il libero pensiero. Syme conclude: “La
rivoluzione sarà completa quando il linguaggio sarà perfetto”. Se
rendiamo impossibile alle persone il pensiero, renderemo impossibile
anche la critica. Senza pensiero, non c'è critica. E poiché si
pensa con le parole, non si può pensare senza le parole.
Nel
momento in cui ci tolgono le parole e si ribaltano, rimaneggiano o
pervertono i significati, chi comanda ci rende schiavi. L'avversario
conosce il valore delle parole e padroneggia i saperi e le conoscenze
della guerra psicologica condotta contro di noi.
Per
Platone il nome è l’archetipo della cosa. Se la cosa sta
nella parola, diminuire la quantità delle parole significa diminuire
le cose? Modificarle nella loro essenza? Distruggerle? Non del tutto,
poiché l'ordine naturale è intangibile, l'ordine fisico ha le sue
leggi e l'ordine artificiale non viene modificato magicamente quando
parliamo. Tuttavia, non c'è dubbio che confondere i significati e
ridurre il numero delle parole equivale a impedire che l'intelligenza
umana veda, comprenda, impari, colga l’essenza delle cose.
Se
ogni parola porta in un certo senso un fuoco, se ogni locuzione
irradia una luce, alterare il linguaggio – confondendo o
cancellando le parole– lascia al buio per capire la realtà e
attingere la verità. Gli uomini non possiedono più le parole e le
definizioni precise. Impieghiamo- specie le generazioni più giovani-
un lessico impoverito, impreciso, elementare, mentre la progressiva
scomparsa dei tempi e dei modi verbali (congiuntivo, imperfetto,
forme composte del futuro, participio passato) genera un pensiero
declinato quasi sempre al presente, limitato al momento, incapace di
proiezioni nel tempo. Man mano che il vocabolario si riduce, si
perdono anche le sottigliezze linguistiche che rendono possibile il
pensiero complesso.
Meno
parole e meno verbi coniugati (per di più utilizzati in maniera
artefatta dalla correttezza politica e dalla brutale semplificazione
della comunicazione di massa calata dall’alto) implicano minore
capacità di esprimere le emozioni e scarsa possibilità di elaborare
un pensiero.
Dell’intuizione
di Orwell fanno tesoro i nemici della cultura e della libertà: senza
parole per costruire un ragionamento, il pensiero complesso si fa
impossibile. E anche la dissidenza, alla quale vengono sottratti i
termini per esprimere, argomentare, descrivere se stessa. Juan Ramòn
Jiménez, il maggiore poeta spagnolo del XX secolo, così invocava:
intelligenza! Dammi il nome esatto delle cose!