di
Roberto PECCHIOLI
Nel
bosco dei ribelli è giunta notizia che in Italia si terranno le
elezioni politiche il 25 settembre. Accogliamo l’informazione con
uno sbadiglio, seguito da un debole sorriso. Anche il Drago ha
gettato la spugna, forse spaventato dall’autunno freddo per
mancanza di energia, dalla conseguente inflazione e dalla possibilità
di reazioni popolari.
La
macchina procedurale della stanca, asmatica democrazia
rappresentativa è avviata. Nel bosco non ci sono sezioni elettorali
e non si eleggono deputati. Ci limitiamo ad aspettare la frescura
settembrina, rammentando una canzone di battaglia di noi ragazzi di
tanti anni fa, che osarono sfidare lo spirito dei tempi. “Democrazia,
democrazia, è cosa vostra e non è mia. Democrazia, democrazia, in
quantoché comandate voi”. Come Walt Whitman, “due strade trovai
nel bosco e io scelsi quella meno battuta, ed è per questo che sono
diverso”. La distinzione rispetto al poeta di Foglie d’erba è
che la sua diversità era l’orientamento sessuale, che non si
chiamava ancora così.
Pure,
nei nostri anni difficili e formativi di democrazia ce n’era assai
più di adesso. Gli spazi bisognava conquistarseli palmo a palmo, ma
non c’era la palude maleodorante e la dura dialettica delle idee
aveva per protagonisti figure dello spessore di Berlinguer,
Almirante, Moro, Andreotti, Craxi, La Malfa. Ora vige il pensiero
unico, e Tocqueville, dalla tomba, può compiacersi di quanto sia
stata profetica la sua analisi sulla tirannia della maggioranza
conformista, imbelle, interessata solo a se stessa. Tramonta anche
l’idea della democrazia liberale di Ortega, “l’unico governo
che rispetta la minoranza, perfino quella più debole. “
Sarà
che una volta la politica contava qualcosa, progetti e modelli erano
alternativi. La gente si divideva su visioni del mondo e della
società e anche per questo correva a votare. Da trent’anni- e
negli ultimo decennio con un’accelerazione impressionante- l’intera
classe politica si è posta al servizio dei poteri globalisti,
rafforzando il modello liberal liberista in economia e
libertario-libertino in campo morale. Tutti hanno promosso la
privatizzazione di beni e servizi, nell’indifferenza per
l’interesse popolare e nazionale; tutti hanno accettato la cessione
di sovranità ad organismi tecnocratici e finanziari sovrannazionali.
L’intero
cerchio della politica “di sistema” ha segato l’albero su cui è
appollaiata, sostenendo il passaggio da un ordinamento democratico ad
uno tecnocratico. La sovranità non appartiene più al popolo, sia
pure esercitata “nelle forme e nei limiti della costituzione”. E’
saldamente nelle mani di oligarchie, “esperti” e “competenti”
avulsi dalla vita e dalla volontà popolare. Le forze politiche hanno
portato all’apice l’arte del camuffamento, continuando a
presentarsi sotto le mentite spoglie della sinistra, della destra e
del centro, dei conservatori, dei progressisti, dei riformisti e dei
moderati. Nella sostanza, termini del lessico politico che non
significano più nulla.
Le
società postmoderne sono diventate postdemocratiche, pur mantenendo,
per motivi cosmetici e per avvalorare la menzogna di massa, le forme
e le procedure della democrazia rappresentativa. Che non rappresenta
più molto, tanto che la tirannia della maggioranza intuita da
Tocqueville quasi due secoli fa è diventata il contrario: tirannia
della minoranza nell’indifferenza e docilità dei più. In maniera
confusa e contraddittoria, un numero crescente di persone lo ha
compreso, disprezza la politica e se ne tiene lontana perfino
nell’occasione del voto. Tra tante sciocchezze divenute patrimonio
di massa, Jean Jacques Rousseau enunciò anche alcune verità. Una
riguarda la sovranità, che per il ginevrino il popolo esercita un
solo giorno, quello del voto, per spogliarsene dopo aver restituito
la matita copiativa.
Gli
ultimi anni sono stati i primi della transizione post democratica:
comandano oligarchie proprietarie di tutto, promotrici di un pensiero
dominante tendenzialmente unico che rende superfluo il rito delle
votazioni. Siamo plasmati per pensare allo stesso modo, parlare,
mangiare, vestirsi in modo uguale, omologato. Perché votare, se i
programmi divergono solo su sfumature e se pezzi sempre più ampi del
ceto politico trasmigrano da uno schieramento all’altro, se non
rispondono al popolo, promettendo ad oligarchie e mercati che saranno
fedeli, fedelissimi alla linea?
Un
alto funzionario dell’oligarchia, l’ex ministro “tecnico”
Enzo Moavero Milanesi, ha spiegato in un’intervista ciò che dovrà
fare obbligatoriamente il futuro governo “da chiunque sia
composto”. Le figurine intercambiabili, oltre a non poter discutere
in alcun modo la collocazione internazionale dell’Italia, le sue
alleanze (o sottomissioni) e i suoi impegni bellici (nonostante
l’evidente dissenso della maggioranza ex sovrana) dovranno
praticare una politica di bilancio definita “imprescindibile”.
Ovvero spenderanno i nostri soldi come vogliono loro. C’è il patto
di stabilità (ma la democrazia è per natura instabile, a differenza
delle dittature) con l’impianto sanzionatorio per chi sgarra deciso
da chi gestisce i fondi creati dal nulla dalla Banca Centrale, che,
in qualità di creditrice (non di prestatrice di ultima istanza) ha
“vasta influenza” sulle scelte (obbligate) dell’esecutivo.
La
vocazione dogmatica dell’oligarchia sono le liberalizzazioni
(balneari, tassisti, imprenditori, siete avvisati) opporsi alle quali
significa perdere “gli ingenti fondi europei “, ossia prestiti da
onorare. Che ci resta, se il gioco è definito in partenza, le
squadre fungibili e decide tutto l’arbitro? Se – puta caso-
qualcuno volesse cambiare le regole o il gioco, fuoriuscendo dallo
schema obbligato liberal liberista e dal sistema dei diritti
individuali che hanno decostruito l’uomo, polverizzato la famiglia,
innescato il dramma della denatalità e generato un’impressionante
confusione di massa?
Nessun
problema, recitano i paladini della democrazia terminale. Si può
partecipare alle elezioni e presentare un programma alternativo. E’
la sfolgorante democrazia, il sistema politico più bello ed
inclusivo inventato da mente umana. Peccato che ci abbiano appena
detto che dobbiamo fare ciò che vogliono loro: si chiama governance,
amministrazione controllata dell’esistente. I governi sono
amministratori condominiali che rispondono ai costruttori dei
palazzi. Se hanno trasferito il potere ad organismi transnazionali,
vertici non elettivi, poteri di fatto, cupole finanziarie, mercati,
commissioni, lo hanno fatto precisamente per bypassare l’ingombrante
parere dei popoli. I quali, nonostante il bombardamento mediatico e
culturale, si ostinano a non pensarla come i Superiori.
Pazienza,
ripete l’Ottimista Democratico. Andrete in parlamento e farete
sentire la vostra voce. Ma il parlamento- il cui nome evoca più la
logorrea che l’azione-non conta quasi nulla. I deputati sono scelti
uno per uno dai capi dei partiti e se si azzardano a dissentire,
l’agiata carriera è finita. Se presentano leggi o proposte, i
vertici parlamentari faranno in modo che non vengano discusse o siano
stravolte. Se poi le decisioni del governo non piacciono, c’è una
doppia tagliola. Il voto di fiducia – il governo Draghi ne ha
totalizzati cinquantacinque- blocca il dibattito e costringe ad
approvare tutto a scatola chiusa. Oppure si governa a colpi di
decreti immediatamente esecutivi che diventeranno legge con le
metodologie descritte, o di provvedimenti amministrativi contro cui
non vi è possibilità di opposizione o impugnazione, tipo i DPCM
(Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri).
E
poi, entrare in parlamento: mica facile. Innanzitutto ci sono gli
sbarramenti percentuali, i collegi blindati in cui si sa in anticipo
chi vincerà, la difficoltà creata ad arte contro la rappresentanza
nella democrazia detta rappresentativa. Negli ultimi tempi sono stati
raggiunti vertici impensabili nella negazione della democrazia reale
da parte dei cantori h.24 della democrazia teorica. Già svuotato di
potere, formato da yes men (e women, non dimentichiamo
le quote rosa obbligatorie, che dovranno estendersi ai “generi”
inventati dagli intellettuali di servizio) il mezzo migliore per
costituire un parlamento privo di vera opposizione, è impedire con
regole burocratiche la partecipazione alle elezioni di chi non fa
parte del cerchio magico.
I
partiti- tutti- hanno stabilito per sé un vero e proprio “ius
primae noctis”. Poiché la norma prevede che gli aspiranti
partecipanti alle elezioni presentino a sostegno un ingente numero di
firme di cittadini- autenticate da pubblici ufficiali-il gioco è
fatto. Hanno esentato se stessi dall’obbligo – comprese sigle
formate in parlamento allo scopo di aggirare la norma- confermandolo
per gli altri. Immaginate quanto sia arduo, in piena estate e in
tempo di epidemia, raccogliere decine di migliaia di firme “in
presenza”. E’ una legge criminogena: chiunque abbia conoscenza
della realtà, sa quali illegalità, quali trucchi siano
generalizzati e sa altresì che quasi mai chi autentica le firme è
presente al momento della sottoscrizione.
Problema
risolto per “loro”: nessuna firma. Problema insormontabile per
tutti gli altri, se vogliono agire nella legalità. I costi
dell’operazione sono ingenti: notai, avvocati, ufficiali
giudiziari, modulistica, corse affannose per raccogliere i
certificati anagrafici dei sottoscrittori. Una corsa a ostacoli al
termine della quale, stremati e senza più un soldo, i potenziali
oppositori potranno affrontare il Golia dei partiti di sistema,
ignorati, tranne pochissimi spazi contingentati, da radio, tv e
giornali, se non per essere attaccati e irrisi.
La
corsa è ampiamente truccata. Un esempio: da anni il sistema
mediatico offre enormi spazi a Carlo Calenda, leader di se stesso.
Perché? Evidentemente è “una riserva della Repubblica”,
destinato ad affiancare o sostituire chi dicono loro, fingere
opposizione o una fronda interna al sistema. Adesso il pariolino,
perfetto esemplare di uomo di potere (destra in economia, sinistra
nell’agenda dei “diritti”, centro nella gestione degli affari),
coglie i frutti e diventa l’alleato preferenziale del PD,
partito-Stato filiale dei poteri esterni. E gli altri? Si sgolano a
rassicurare, giurare fedeltà ai Superiori mentre si scannano
all’interno per accaparrarsi i posti migliori in lista. E
l’opposizione? Non pervenuta, come la temperatura di remote
località alpine, oppure impegnatissima a mostrarsi più devota ai
mercati, alla finanza, agli alleati-padroni.
E
quella vera, che si è formata nonostante tutto in questi terribili
anni? Generosi e sinceri i militanti, tante persone di ogni
orientamento che vogliono cambiare le cose, ma duci e ducesse l’un
contro l’altro armati, rissosi, incapaci di unirsi. Dissensi
ideologici, certo, linee spesso incompatibili, è vero. Ma
soprattutto appetiti di piccoli personaggi la cui aspirazione non è
cambiare il mondo, ma il proprio status sociale. Un posticino
in parlamento fa gola, eccome, come sanno i grillini transumanti a
destra e a manca (più a manca, invero), impegnati a ostentare il più
alto tasso di progressismo.
Una
certezza: nessuna soluzione al presente stato di cose può venire
dalla stessa mentalità, dal medesimo humus che l’ha
prodotto. Lo diceva Einstein e lo ripetiamo noi, convinti che la via
parlamentare – in assemblee destituite di potere, svuotate di
prestigio, piene di soggetti ricattabili che alla politica hanno
affidato la loro realizzazione personale- non sia più praticabile.
Il mondo cambierà- se cambierà- solo per iniziativa di lotte di
massa, movimenti sociali, insorgenze di popolo. Assai improbabili al
tempo dei tremebondi sudditi mascherati che il potere ha convinto
della sua inamovibilità e della mancanza di alternative. Masse
depoliticizzate non cambiano il mondo: per questo chi comanda
gradisce la nostra assenza alle urne, benché abbia predisposto ogni
cosa affinché nulla muti.
Quindi,
è la triste conclusione, poco o nulla cambierà dopo il 25
settembre. Per questo chi non se la sente di votare il meno peggio o
il meno distante dai suoi interessi e principi si asterrà o
annullerà la scheda. Nel gioco della “tela” vi è una situazione
in cui uno dei giocatori, qualunque mossa faccia avrà le pedine in
posizione vincente e “mangerà” quelle avversarie. E’ la
condizione dell’oligarchia davanti al voto del 25 settembre.
Diceva
un campione di coraggio e libertà, Aleksandr Solzhenitsyn, che se
non sussiste la possibilità di opporsi al male o manca il coraggio
per affrontarlo, almeno non si collabori con esso, non si diventi
complici. E’ poco, poco davvero. Ma questo resta a noi ribelli, a
noi irriducibili innamorati delle libertà, costretti a gridare al
pilota automatico, come tanti anni fa, “democrazia, democrazia, è
cosa vostra e non è mia.”