di
Roberto PECCHIOLI
È
celebre, nel libro quarto di Così parlò Zarathustra di Nietzsche,
l’incipit –che è anche la conclusione- del discorso
sollecitato dal Viandante- ombra di Zarathustra- rivolto alle figlie
del deserto, Duda e Suleika: il deserto cresce, guai a chi in sé
cela deserti. Nessun deserto è più arido di quello della morte di
Dio e dello Spirito.
Il
tema del deserto è presente in molte tradizioni letterarie. Per
Giuseppe Ungaretti, ad esempio, italiano nato e cresciuto in Egitto,
il deserto- ai cui margini sorgeva la sua casa di bambino - nella
duplice dimensione fisica e spirituale richiama il sentimento del
nulla. Per Nietzsche è- tra le altre cose- una metafora di quella
cancellazione, di quell’arsura morale di cui fu banditore e
vittima.
Al
contrario, gli alberi rappresentano da sempre il senso dell’identità,
il radicamento, la volontà di attraversare e trascendere le
generazioni, lasciare traccia oltre il breve transito di ciascuna
esistenza umana. Perciò il rogo e la distruzione degli alberi- ed il
deserto che ne consegue- destano tanta impressione. Il fuoco,
nell’immaginario greco, era uno degli elementi dell’arché,
la forza primigenia da cui tutto proviene e a cui tutto è destinato
a tornare. Prometeo – “colui che riflette prima” - ruba il
fuoco agli dei per offrirlo agli uomini: la vendetta di Zeus è
terribile, lo fa incatenare sul più alto del monte e ordina che
un’aquila ogni notte gli squarci il petto e gli dilani il fegato.
La
relazione dell’uomo con il fuoco è sempre stata ambivalente: la
fiamma scalda ma distrugge, illumina ma lascia dietro di sé rovine e
deserti. Pensavamo al mito, al fuoco e al deserto che cresce-
materialmente e spiritualmente – osservando le immagini dei roghi
che stanno devastando pezzi importanti dell’Italia. Il fuoco
distrugge vaste aree boschive e insieme il lavoro dell’uomo, le sue
case, le sue coltivazioni, il paesaggio, l’ambiente e la comunità
che ha tenacemente, pazientemente costruito con il lavoro di
generazioni.
Nell’immaginario
popolare ligure, terra aspra strappata palmo a palmo ai dirupi e agli
scogli, i contadini di una volta piantavano ulivi alla nascita di un
nuovo membro della comunità. Il seme prezioso veniva racchiuso nella
terra, custodito e innaffiato affinché diventasse patrimonio della
generazione successiva. Lunga è infatti la crescita dell’ulivo,
lontano il momento in cui darà il suo frutto. Cicerone invitava-
significativamente nel De Senectute (La vecchiaia) - a
piantare alberi destinati a un’altra generazione. Serit arbores,
quae alteri saeclo prosint. Pianta alberi che gioveranno in un
altro tempo. Sull’altra sponda del Mediterraneo uguale metafora
riguarda il dattero, i cui dolci frutti non assaggerà chi l’ha
messo a dimora.
Piantare
alberi significa andare oltre, credere nel futuro al di là di se
stessi; la continuità nel sangue, nei miti, principi, valori,
tradizioni della nostra gente. Idee senza parole, scolpite nel cuore
in uno stato di natura e di latenza. Se occorre richiamarle, evocarne
la suggestione e la forza, è perché sono in pericolo e se ne è
perduto il radicamento. Smarrita la radice, che cosa resta della
persona, se non appartiene più ad alcuna comunità naturale,
politica o di sentimenti? Questo pensavamo- strana associazione di
idee- alle immagini dei roghi che hanno costretto a sgomberare un
paese intero- Cinigiano in Maremma- stanno riducendo in cenere il
bosco che circonda Isernia, hanno mandato in fumo l’aspra
vegetazione del Carso sino alla Slovenia. Il fuoco, il deserto, non
conoscono confini, neppure quelli della terra “dura e buona” che
Scipio Slataper cantò in scintillante prosa poetica.
“Carso,
che sei duro e buono! Non hai riposo, e stai nudo al ghiaccio e
all’agosto, mio carso, rotto e affannoso verso una linea di
montagne per correre a una meta; ma le montagne si frantumano, la
valle si rinchiude, il torrente sparisce nel suolo. Tutta l’acqua
s’inabissa nelle tue spaccature; e il lichene secco ingrigia sulla
roccia bianca, gli occhi vacillano nell’inferno d’agosto. Ogni
suo filo d’erba ha spaccato la roccia per spuntare, ogni suo fiore
ha bevuto l’arsura per aprirsi. Per questo il suo latte è sano e
il suo miele odoroso. Disteso sul tuo grembo io sento lontanar nel
profondo l’acqua raccolta dai tuoi abissi, una sola acqua, e
fresca, che porta la tua giovane salute al mare e alla città.”
Radici.
Quanto
tempo ci vorrà perché torni quel paesaggio ventoso in cui le acque
si inabissano e risorgono più a valle in un prodigio della natura.
Anni fa, assistemmo dal finestrino di un treno bloccato per motivi di
sicurezza al rogo – che risultò doloso- di una splendida collina
dietro la ferrovia, a ridosso della città di Sestri Levante.
Impressionante l’azione del fuoco, di un rosso brunito, che
inghiottiva in un baleno la macchia mediterranea, le case e gli orti
degli uomini. L’odore acre, la polvere e il fumo facevano male al
corpo, agli occhi e all’anima, come lo spettacolo della natura che
si riprendeva in un attimo quel che era cresciuto sotto lo sguardo
attivo delle generazioni.
Giorni
dopo, a fiamme spente e a fumo diradato, potemmo osservare il grigio
quasi uniforme della montagna pelata. Oggi la natura sta prendendo la
sua muta rivincita, aiutata dalla testardaggine degli uomini, ma
nella verde collina di ieri prevale ancora un che di brughiera, un
colore malsano, quasi innaturale, mentre nuovi alberi crescono. Disse
qualcuno che grande è il rumore dell’albero che cade, silenzioso
il lavoro della foresta che cresce. Intanto, avanza il deserto dentro
e attorno a noi.
Tuttavia
non lo sappiamo né vogliamo osservare con gli occhi del cuore. Non
distinguiamo più simboli e segnali, viviamo come viandanti casuali
che guardano senza vedere. Nell’estate dei roghi e della siccità
malediciamo noi stessi perché la narrazione ufficiale attribuisce la
responsabilità di tutto – roghi, temperature, scarsità di
precipitazioni- all’azione dell’homo sapiens diventato
homo deus in un delirio di onnipotenza parallelo alla volontà
di cancellazione della civiltà e dell’eredità. Vi è una parte di
verità, ma sorprende la facilità con cui siamo passati dal
fatalismo (il freddo e il caldo vengono sempre, ripetevano i nostri
vecchi) alla condanna di noi stessi.
Eppure,
il simbolo preferito della barbarie è stato sempre il fuoco, mentre
il simbolo principe della civiltà è l’acqua. Nell’anno 2022
dell’uomo che si chiamò Dio, figlio di Dio e figlio dell’Uomo,
dilaga il fuoco e manca l’acqua. Il seme del contadino ha bisogno
di acqua, la vita di uomini e animali è scandita dalla legge
dell’acqua. Un sociologo studioso delle civiltà, Karl August
Wittfogel, formulò addirittura, ne Il dispotismo orientale, la
“teoria idraulica” sulla genesi delle società asiatiche. Le
forme di governo e la struttura della proprietà, nello spazio
storico che abbraccia la “mezzaluna fertile”, l’India e
l’Estremo Oriente, sarebbero state determinate dalla necessità di
realizzare opere gigantesche per l’irrigazione e lo sfruttamento
del suolo.
Dai
tempi più remoti, i popoli meridionali si riunivano in uno spazio
aperto che diventava piazza, attorno a una sorgente o a una fontana.
I popoli nordici lo facevano attorno al fuoco, la luce. Ciascuno
assumeva come simbolo comunitario ciò di cui aveva più necessità e
carenza. Quando l’uomo anela a sottrarsi alla barbarie primigenia,
scava pozzi, costruisce acquedotti, battezza con acqua i suoi figli.
L’ultimo ad affrontare questi temi e restituire vita a questi
simboli ancestrali fu il poeta della terra desolata, Thomas S. Eliot.
Alcuni componimenti del suo poema hanno per titolo Il sermone
del fuoco, La morte per acqua, Cosa disse
il tuono.
Un
secolo dopo, non sappiamo più vedere né ascoltare; quando l’uomo
brama di rigettarsi nella braccia della barbarie – tentazione
ricorrente che il tempo nostro sta pericolosamente abbordando- danza
attorno al fuoco, brucia la polvere, incendia una montagna. Nella
terra bruciata c’è sempre una distruzione, una decostruzione
perseguita di civiltà, un arretramento verso la barbarie. Il fuoco
acceca e il fumo non fa distinguere cosa da cosa, bene da male.
Nella
quotidianità sono insufficienti gli aerei che gettano acqua – la
vita, la nemica del deserto- sugli incendi; abbondano le forniture di
armi per altri fuochi, quelli dei bombardamenti e delle rovine.
Attorno, arde la nostra terra, sfuma il nostro lavoro, il paesaggio e
la civiltà. La siccità prosciuga i fiumi e dissecca le sorgenti; il
vero dramma non è la mancanza di pioggia, ma l’enorme, colpevole
dispersione dell’acqua captata e distribuita, un terzo della quale
non raggiunge i rubinetti per perdite, carenza manutentiva e
abusivismi più o meno criminali. Un rivolo in più nel gran fiume
del degrado del Belpaese, che resta soltanto il nome di un formaggio.
Dismessa
la limpida chiarezza dei cieli, ci illumina solo un fuoco d’inferno.
Quando un albero brucia, è come il martirio di un parente
sull’altare capovolto della barbarie. Niente come l'albero illustra
le aspirazioni di una vita piena: le radici affondate nella terra, il
tronco forte e robusto, i rami desiderosi del cielo, i frutti fecondi
e saporiti. Tutte le civiltà degne di questo nome hanno visto
nell'albero l'asse del mondo. Nella civiltà che abbiamo abiurato il
primo Albero della Vita era al centro del Paradiso, il secondo al
centro del Calvario e dell'esistenza umana.
Opposta
al significato dell'albero come axis mundi c'è la visione
barbarica che fa dell'albero un oggetto di adorazione o di avidità.
Perfino di basso elettoralismo per ambientalismo con annessa aria
condizionata: Berlusconi pone nel programma di governo la
piantumazione di un milione di piante all’anno. Bene, ma nel
frattempo incendi e siccità ci divorano e le città sono il nuovo
habitat dei cinghiali, presto promossi ad animali da
compagnia.
Così
è nella nostra epoca barbarica, in cui le foreste possono essere
adorate da postborghesi di città con pruriti ecologisti che nella
loro estatica adorazione le vogliono selvagge, ignari che dove non ci
sono capre da pascolare o contadini che ripuliscono il sottobosco
avanzante, le foreste finiscono per bruciare come esche di piromani.
Così l’adorazione astratta del wilderness alla moda dei
signorini con pretese ambientaliste si allea paradossalmente con
l'avidità di gente senza scrupoli che vuole la foresta bruciata
perché sta cercando di ottenere una riclassificazione dei terreni
per costruire case “sostenibili” o per installare un parco eolico
sovvenzionato.
Con
le foreste, bruciano anche le discussioni bizantine sul perché degli
incendi, utili solo ad alimentare il fuoco di dispute senza fine
della clasa
discutidora,
la fulminante definizione di borghesia di José Donoso Cortés.
Azzardiamo un’eresia che forse non è tale: perché le foreste
smettano di bruciare, è necessario tornare alla civiltà. Una
civiltà che esige che si coltivi e si ami la terra, che ci si
radichi in essa come fanno gli alberi. Piantati nella terra, in
quella patria concreta che i vandeani controrivoluzionari sentivano
viva sotto i piedi, chissà, il fuoco infernale smetterà di
illuminarci, l’acqua tornerà a dissetarci e ad irrigare terreni e
anime. Pianteremo nuovamente alberi per un’altra generazione:
estinzione o rinascita. È
il tempo della decisione, come sapeva Oswald Spengler: “l’unica
cosa che promette la saldezza dell’avvenire è il retaggio dei
nostri padri che abbiamo nel sangue. Idee senza parole”.