Politica
22 luglio 2022

San Giorgio, il Drago, il futuro


di Roberto PECCHIOLI

Riposino in pace. È stato questo il commento del vecchio Silvio- sempre il più lucido- all’abbandono di Forza Italia da parte dei ministri del (quasi) defunto governo Draghi. Orfani del Drago, la povera Mariastella Gelmini e il ministro mignon, Renato Brunetta, hanno lasciato la casa del Padre, come la giovin signora Mara Carfagna, di buona famiglia e bell’aspetto. Ce ne faremo una ragione. I ministri liberal si sono accorti dopo l’inezia di ventotto anni che la compagnia del centrodestra non è raccomandabile.

Non che abbiano tutti i torti, ma non è l’unica lezione della bizzarra crisi di governo che abbiamo vissuto. Uno psicodramma – o una psyop- operazione di guerra psicologica- sulla pelle degli italiani. Vediamo di orientarci senza prendercela troppo: al peggio non c’è mai fine. San Giorgio – il parlamento che ha cacciato l’uomo del Britannia, di Francoforte e del Denaro sceso sulla terra a miracol mostrare- ha infilzato il Drago. Tuttavia, nessuna liberazione è in vista: solo un intoppo nella lunga battaglia contro il popolo italiano, la nazione, la libertà.

Nonostante il caldo soffocante, la vicenda ci ha strappato qualche franca risata. La più irrefrenabile alla lettura dei titoli dei giornali di regime. Il tono è da apocalisse. Vergogna, titola la gazzetta di famiglia del fu gruppo Fiat, che i torinesi ribattezzarono “la busiarda”. Analoga indignazione a gettone – alla millesima battuta scatta il bonus- per l’allegra brigata del giornale unico. C’è chi parla di tradimento, il 25 luglio democratico e progressista, chi evoca il nazismo di ritorno (ti pareva, quando si è a corto di argomenti riciccia il Male Assoluto), altri semplicemente piangono e spiegano come e qualmente l’Italia non possa fare a meno del bankiere (scusate la Kappa, retaggio di una polemica giovinezza).

Pare proprio che nei palazzi romani rinfrescati dai condizionatori si sia consumata una tragedia. Pensiamo piuttosto a una farsaccia, l’ennesima, a spese di un popolo troppo docile, credulone, impaurito, troppo ligio alle direttive dei Superiori. Eppure a mettere in crisi la tigre di carta – il Drago di cartapesta - è bastato qualche giorno di collera dei tassisti – una categoria vessata dal sacro “decreto aiuti” e dalla resa alle piattaforme private, l’indiscutibile, impareggiabile liberalizzazione. Un commento ci ha impressionato per la sua verità: si vota il 25 settembre e se vincerà il centrodestra avremo un governo liberista, atlantista ed europeista. Esattamente come quelli dell’ultimo trentennio.

Il dato più impressionante, il bilancio di quattro anni della legislatura più folle, scalcinata e grottesca della storia repubblicana è la macelleria sociale e il degrado civile che lascia sul campo. Il lavoro di decenni è stato completato mirabilmente. Benedetto San Giorgio, dunque, anche se è lecito dubitare delle intenzioni del più scadente parlamento della galassia. L’inflazione è tornata a ruggire, il debito aumenta, il famigerato spread è più alto rispetto ai pur mediocri governi Conte. La disoccupazione sale, il precariato dilaga. I poveri aumentano di numero, l’irrilevanza e il servilismo geopolitico sono scandalosi, come l’autolesionismo delle sanzioni belliche e l’indifferenza con cui continuiamo a fornire armi all’Ucraina, tra gli applausi dell’opposizione di Sua Maestà di Giorgia Meloni.

L’unica speranza rimasta è il nome beffardo del mesto, inamovibile ministro della salute. Tra i sostenitori del Drago, firmatari di appelli, manifesti, suppliche all’Uomo della Provvidenza, oltre al caravanserraglio dei poteri forti, delle corporazioni e di quasi tutta la classe dirigente di una nazione allo sfascio, perfino un clochard, un barbone. Nessuno stupore: un paese degradato che non dà segni di vita è una nazione di barboni, purtroppo. Privi, peraltro, della dignità ribelle di chi decide di abbandonare la società.

La gente muore non solo di Covid, ma di cure non prestate, terapie interrotte, interventi chirurgici rinviati sine die, di imprese chiuse e prospettive cancellate. È precisamente ciò che vuole l’oligarchia, ma vallo a spiegare al popolo tremebondo e mascherato. Quella che è stata interrotta dal voto parlamentare e dall’assenza dall’aula (un atto di viltà: gettare il sasso e nascondere la mano) è stata la più fruttuosa, la più mirabolante, la più ricca di successi tra le legislature repubblicane. Non per noi, evidentemente. Noi, la trascurabile e infatti trascurata maggioranza, siamo le vittime. Ma che festa per i padroni del vapore. Nell’ormai remoto marzo 2018 i più scelsero partiti e movimenti antisistema (Cinque Stelle), o critici nei confronti del potere oligarchico dell’UE e della finanza, i sedicenti sovranisti (Lega, Fratelli d’Italia).

Il primo atto contro il popolaccio che si era permesso di votare “male” fu impedire la nomina di un ministro, il professor Paolo Savona, considerato non abbastanza allineato con le centrali di Bruxelles, di Francoforte, dei mercati. Addio sovranità. Intanto la massa di deputati di nuova nomina- in gran parte ignari di tutto, vincitori di un totocalcio su cui essi stessi non contavano- dimostrava la sua inettitudine. Presto imitata dal Capitano leghista- degradato a caporale- che se ne andò dal governo nella folle estate del Papeete, lasciando campo libero al PD, il partito-Stato che comanda anche se sconfitto. L’Ancien Régime burocratizzato che resiste nonostante ogni cambiamento, come capì Tocqueville dopo la Rivoluzione Francese-

Poi è arrivato il virus con il suo carico di drammi, ma anche di bugie, di restrizione della libertà, di autoritarismo, di governo attraverso la paura, di sospensione della libertà e della democrazia. Una manna per il potere vero, di cui il parlamento è stato la foglia di fico e il silenzioso complice. Sarà solo una singolare coincidenza, ma il diritto al vitalizio per i deputati della legislatura finita tra le lacrime di signori e clochard, scatta il 24 settembre prossimo, la vigilia delle elezioni. Sospiro di sollievo della plebe parlamentare che risale in disordine le valli che aveva disceso nel 2018 con orgogliosa sicurezza.

Chi doveva aprire le istituzioni come una scatoletta ne è diventato ostaggio, in un’epidemia di sindrome di Stoccolma. Roma, la gran meretrice, li ha avviluppati nelle sue spire. Qualcuno aveva lavorato affinché vincesse un movimento non populista, ma plebeo, formato da un grumo raccogliticcio davvero convinto che uno vale uno e che chiunque può dirigere un paese. Non che gli altri siano migliori: sovranisti iscritti all’Aspen Institute, patrioti “ma anche “atlantisti” (cioè maitre d’ hotel degli americani), collaborazionisti di sinistra della disfatta dei diritti sociali e delle classi popolari.

Non poteva che finire con Mario Draghi al comando. E non è tutto: lo dimostrano le dichiarazioni di Sergio Mattarella, l’impassibile esecutore dei desiderata dei Superiori, che ha invitato il governo uscente – in carica “per il disbrigo degli affari correnti”, recita la formula burocratica di Palazzo - a non mollare la presa, cioè a continuare il lavoro. Detto fatto: Draghi minaccia decreti legge di ferragosto. Poi c’è il tentativo, da parte del PD, partito di chi sta bene, dei ceti garantiti senza merito, dei docenti e di “color che sanno “, di creare un’area Draghi per le urne e dopo. Hanno tutto: comunicazione, scuola, cultura, magistratura, gran parte dell’economia e della finanza.

Ce la possono fare, a dispetto delle ambizioni del centrodestra – l’altra faccia, i figli del Dio minore, che possono andare al governo ma non al potere, e non si azzarderebbero mai a cambiare di una virgola l’agenda calata dall’alto dei cieli d’Occidente. Quanto ai grillini, riposino in pace anche loro e se hanno ancora un po’ di amor proprio, vadano all’ultima battaglia chiedendo scusa e garantendo che, se rieletti, faranno l’esatto contrario di questo disgraziato quadriennio.

In una guerra, uno vince e altri perdono. Dopo averci espropriato delle libertà-perfino quella di disporre del nostro corpo e mostrare il viso - stanno abolendo quel che resta delle procedure della democrazia formale. Avanza un fastidio irriducibile per il voto e la volontà popolare nell’ insopportabile tono didattico di troppi maestrini dalla penna rossa (e di altri colori…) che dilagano senza contraddittorio. Quale vergogna, quale tradimento, quale nazismo nella scelta di congedare un governo e ridare – per poche ore, giusto il 25 settembre – la parola al popolo?

Li abolissero una buona volta questi maledetti “ludi cartacei” che disturbano il manovratore, intralciano i Mercati, mettono in forse il duro lavoro di banchieri, commissari dell’UE, lobby, di oligarchie che sanno che cosa è meglio per noi e non possono perdere tempo con schede, percentuali e parlamenti- luoghi dove si parla e non si agisce. Sostituiamo le elezioni con i mercati (che “votano ogni giorno”) e con l’applausometro della televisione. Strilla di democrazia in pericolo chi vorrebbe incoronare Draghi imperatore, chi disprezza la patria ma strologa sul “bene del paese”, chi piagnucola sui diritti dopo averci imposto la serrata.

Stiamo ascoltando distillati di odio contro la libertà, la volontà popolare e la democrazia rappresentativa. Ci odiano e non lo nascondono più. Usiamo, per una volta, il loro linguaggio. Hanno gettato la maschera mentre l’anno imposta a noi: sono fascisti della più bell’acqua. E se sono fascisti, devono essere smascherati, combattuti, cacciati e forse processati. Leggiamo il post di un tale Felice: “e basta con il suffragio universale, una porcheria immonda. Si deve andare al voto ponderato. Il mio voto che leggo, studio e mi informo non può valere lo stesso di un imbecille qualunque “. Più fascista lui o il vostro scrivano che militò nel MSI fino a quando non lo sciolsero in ossequio al libero mercato?

Eterogenesi dei fini: principio formulato da Wilhelm Wundt, uno dei padri della psicologia, secondo cui le azioni umane possono produrre effetti diversi da quelli perseguiti dal soggetto agente. I democratici di ieri sono diventati i “fascisti” di oggi; chi non credeva nella liturgia democratica deve al contrario rivendicarla al pari dei diritti sanciti dalle costituzioni. Un rovesciamento formidabile.

La democrazia è diventata una finzione. Domina il denaro e se per caso- capita spesso- il popolo si esprime in dissenso da lorsignori, comprano i parlamenti a prezzi di saldo, dopo averli svuotati trasferendo altrove (mercati, oligarchie, agenzie transnazionali, banche) i poteri che il diritto scritto assegna ai popoli. L’esempio italiano è lampante. Un’altra vittoria dei “fascio-progressisti” è avere destituito di prestigio le forze politiche che asserivano rispetto per la volontà popolare e desiderio di restaurare ed ampliare la sovranità. Ai parlamenti resta il ruolo di notai, una ciurma che ricorda il famoso (apocrifo) ordine della Marina borbonica in occasione della visita del re: facite ammuina, ossia gridate e fingete di fare qualcosa.

A questo è ridotta la politica e il suo tempio massimo, il parlamento. Non cambierà nulla, temiamo, eccetto qualche suonatore. La musica è decisa altrove, lo spartito è stato consegnato da tempo. Sono ammesse tonalità diverse, qualche nota in libertà, ma la sinfonia è quella stabilita. Il Drago fa un passo indietro, o di lato, ma la bacchetta di direttore d’orchestra ha il pilota automatico che muove gli orchestrali nella direzione voluta dai pifferai. La chiamano governance. Infine, se Dio vorrà, ci permetteranno di votare. Ma per chi? Quali sono i programmi, non diciamo i progetti alternativi? Qualcuno oserà eccepire sulla narrazione bellica, l’atlantismo servile, la mistica dei diritti da biancheria intima contrapposti a quelli concreti, sociali? Qualcuno vorrà o cambiare il gioco? In un momento di sincerità, il sindaco di Genova, esponente del centrismo manageriale indifferente ai principi, ha affermato che non è un gran problema se la gente non vota. Infatti ciò permette a lui e a una casta politica trasversale di perpetuarsi.

Il voto improvviso impedirà alle forze non omologate di organizzarsi: un altro regalo del Drago, del suo dante causa al Quirinale e dei superiori di entrambi. Del resto, sappiamo che i veri cambiamenti non passano dai parlamenti, ma dai movimenti sociali e dalle lotte popolari.

Nessuno spiraglio, dunque? Al contrario, il popolo ha almeno tre strade: rafforzare comunque chi riuscirà ad essere presente sulle schede elettorali nonostante le forche caudine delle “procedure”, sperando che la pattuglia degli eletti non svenda se stessa e la fiducia della gente dopo aver assaporato gli agi parlamentari. Continuare a lavorare per costruire un vero polo alternativo su pochi punti, avendo la forza, il coraggio e la generosità di rinunciare a un pezzo di identità in cambio di una speranza di libertà e liberazione. Chiedere a coloro che non si sentono di votare per movimenti, partiti o coalizioni “di sistema” di non disertare, andare ai seggi e annullare la scheda scrivendo una parola d’ordine concordata.

Dopo il 25 settembre, arriverà il 26. Facciamo in modo che quel giorno nasca un articolato, appassionato fronte – nazionale, popolare e sociale- di italiani che vogliono cambiare le regole del gioco e il gioco stesso. La strada è più che impervia. Ma non possiamo morire liberali, liberisti, atlantisti, europoidi, servi e senza diritti. Anche se tutti, noi no!








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