di
Roberto PECCHIOLI
Riposino
in pace. È stato questo il commento del vecchio Silvio- sempre il
più lucido- all’abbandono di Forza Italia da parte dei ministri
del (quasi) defunto governo Draghi. Orfani del Drago, la povera
Mariastella Gelmini e il ministro mignon, Renato Brunetta,
hanno lasciato la casa del Padre, come la giovin signora Mara
Carfagna, di buona famiglia e bell’aspetto. Ce ne faremo una
ragione. I ministri liberal si sono accorti dopo l’inezia di
ventotto anni che la compagnia del centrodestra non è
raccomandabile.
Non
che abbiano tutti i torti, ma non è l’unica lezione della bizzarra
crisi di governo che abbiamo vissuto. Uno psicodramma – o una
psyop- operazione di guerra psicologica- sulla pelle degli
italiani. Vediamo di orientarci senza prendercela troppo: al peggio
non c’è mai fine. San Giorgio – il parlamento che ha cacciato
l’uomo del Britannia, di Francoforte e del Denaro sceso sulla terra
a miracol mostrare- ha infilzato il Drago. Tuttavia, nessuna
liberazione è in vista: solo un intoppo nella lunga battaglia contro
il popolo italiano, la nazione, la libertà.
Nonostante
il caldo soffocante, la vicenda ci ha strappato qualche franca
risata. La più irrefrenabile alla lettura dei titoli dei giornali di
regime. Il tono è da apocalisse. Vergogna, titola la gazzetta di
famiglia del fu gruppo Fiat, che i torinesi ribattezzarono “la
busiarda”. Analoga indignazione a gettone – alla millesima
battuta scatta il bonus- per l’allegra brigata del giornale unico.
C’è chi parla di tradimento, il 25 luglio democratico e
progressista, chi evoca il nazismo di ritorno (ti pareva, quando si è
a corto di argomenti riciccia il Male Assoluto), altri semplicemente
piangono e spiegano come e qualmente l’Italia non possa fare a meno
del bankiere (scusate la Kappa, retaggio di una polemica giovinezza).
Pare
proprio che nei palazzi romani rinfrescati dai condizionatori si sia
consumata una tragedia. Pensiamo piuttosto a una farsaccia,
l’ennesima, a spese di un popolo troppo docile, credulone,
impaurito, troppo ligio alle direttive dei Superiori. Eppure a
mettere in crisi la tigre di carta – il Drago di cartapesta - è
bastato qualche giorno di collera dei tassisti – una categoria
vessata dal sacro “decreto aiuti” e dalla resa alle piattaforme
private, l’indiscutibile, impareggiabile liberalizzazione. Un
commento ci ha impressionato per la sua verità: si vota il 25
settembre e se vincerà il centrodestra avremo un governo liberista,
atlantista ed europeista. Esattamente come quelli dell’ultimo
trentennio.
Il
dato più impressionante, il bilancio di quattro anni della
legislatura più folle, scalcinata e grottesca della storia
repubblicana è la macelleria sociale e il degrado civile che lascia
sul campo. Il lavoro di decenni è stato completato mirabilmente.
Benedetto San Giorgio, dunque, anche se è lecito dubitare delle
intenzioni del più scadente parlamento della galassia. L’inflazione
è tornata a ruggire, il debito aumenta, il famigerato spread
è più alto rispetto ai pur mediocri governi Conte. La
disoccupazione sale, il precariato dilaga. I poveri aumentano di
numero, l’irrilevanza e il servilismo geopolitico sono scandalosi,
come l’autolesionismo delle sanzioni belliche e l’indifferenza
con cui continuiamo a fornire armi all’Ucraina, tra gli applausi
dell’opposizione di Sua Maestà di Giorgia Meloni.
L’unica
speranza rimasta è il nome beffardo del mesto, inamovibile ministro
della salute. Tra i sostenitori del Drago, firmatari di appelli,
manifesti, suppliche all’Uomo della Provvidenza, oltre al
caravanserraglio dei poteri forti, delle corporazioni e di quasi
tutta la classe dirigente di una nazione allo sfascio, perfino un
clochard, un barbone. Nessuno stupore: un paese degradato che
non dà segni di vita è una nazione di barboni, purtroppo. Privi,
peraltro, della dignità ribelle di chi decide di abbandonare la
società.
La
gente muore non solo di Covid, ma di cure non prestate, terapie
interrotte, interventi chirurgici rinviati sine die, di
imprese chiuse e prospettive cancellate. È precisamente ciò che
vuole l’oligarchia, ma vallo a spiegare al popolo tremebondo e
mascherato. Quella che è stata interrotta dal voto parlamentare e
dall’assenza dall’aula (un atto di viltà: gettare il sasso e
nascondere la mano) è stata la più fruttuosa, la più mirabolante,
la più ricca di successi tra le legislature repubblicane. Non per
noi, evidentemente. Noi, la trascurabile e infatti trascurata
maggioranza, siamo le vittime. Ma che festa per i padroni del vapore.
Nell’ormai remoto marzo 2018 i più scelsero partiti e movimenti
antisistema (Cinque Stelle), o critici nei confronti del potere
oligarchico dell’UE e della finanza, i sedicenti sovranisti (Lega,
Fratelli d’Italia).
Il
primo atto contro il popolaccio che si era permesso di votare “male”
fu impedire la nomina di un ministro, il professor Paolo Savona,
considerato non abbastanza allineato con le centrali di Bruxelles, di
Francoforte, dei mercati. Addio sovranità. Intanto la massa di
deputati di nuova nomina- in gran parte ignari di tutto, vincitori di
un totocalcio su cui essi stessi non contavano- dimostrava la sua
inettitudine. Presto imitata dal Capitano leghista- degradato a
caporale- che se ne andò dal governo nella folle estate del Papeete,
lasciando campo libero al PD, il partito-Stato che comanda anche se
sconfitto. L’Ancien Régime burocratizzato che resiste
nonostante ogni cambiamento, come capì Tocqueville dopo la
Rivoluzione Francese-
Poi
è arrivato il virus con il suo carico di drammi, ma anche di bugie,
di restrizione della libertà, di autoritarismo, di governo
attraverso la paura, di sospensione della libertà e della
democrazia. Una manna per il potere vero, di cui il parlamento è
stato la foglia di fico e il silenzioso complice. Sarà solo una
singolare coincidenza, ma il diritto al vitalizio per i deputati
della legislatura finita tra le lacrime di signori e clochard,
scatta il 24 settembre prossimo, la vigilia delle elezioni. Sospiro
di sollievo della plebe parlamentare che risale in
disordine le valli che aveva disceso nel 2018 con orgogliosa
sicurezza.
Chi
doveva aprire le istituzioni come una scatoletta ne è diventato
ostaggio, in un’epidemia di sindrome di Stoccolma. Roma, la gran
meretrice, li ha avviluppati nelle sue spire. Qualcuno aveva lavorato
affinché vincesse un movimento non populista, ma plebeo, formato da
un grumo raccogliticcio davvero convinto che uno vale uno e che
chiunque può dirigere un paese. Non che gli altri siano migliori:
sovranisti iscritti all’Aspen
Institute,
patrioti “ma anche “atlantisti” (cioè maitre
d’ hotel
degli americani), collaborazionisti di sinistra della disfatta dei
diritti sociali e delle classi popolari.
Non
poteva che finire con Mario Draghi al comando. E non è tutto: lo
dimostrano le dichiarazioni di Sergio Mattarella, l’impassibile
esecutore dei desiderata
dei Superiori, che ha invitato il governo uscente – in carica “per
il disbrigo degli affari correnti”, recita la formula burocratica
di Palazzo - a non mollare la presa, cioè a continuare il lavoro.
Detto fatto: Draghi minaccia decreti legge di ferragosto. Poi c’è
il tentativo, da parte del PD, partito di chi sta bene, dei ceti
garantiti senza merito, dei docenti e di “color che sanno “, di
creare un’area Draghi per le urne e dopo. Hanno tutto:
comunicazione, scuola, cultura, magistratura, gran parte
dell’economia e della finanza.
Ce
la possono fare, a dispetto delle ambizioni del centrodestra –
l’altra faccia, i figli del Dio minore, che possono andare al
governo ma non al potere, e non si azzarderebbero mai a cambiare di
una virgola l’agenda calata dall’alto dei cieli d’Occidente.
Quanto ai grillini, riposino in pace anche loro e se hanno ancora un
po’ di amor proprio, vadano all’ultima battaglia chiedendo scusa
e garantendo che, se rieletti, faranno l’esatto contrario di questo
disgraziato quadriennio.
In
una guerra, uno vince e altri perdono. Dopo averci espropriato delle
libertà-perfino quella di disporre del nostro corpo e mostrare il
viso - stanno abolendo quel che resta delle procedure della
democrazia formale. Avanza un fastidio irriducibile per il voto e la
volontà popolare nell’ insopportabile tono didattico di troppi
maestrini dalla penna rossa (e di altri colori…) che dilagano senza
contraddittorio. Quale vergogna, quale tradimento, quale nazismo
nella scelta di congedare un governo e ridare – per poche ore,
giusto il 25 settembre – la parola al popolo?
Li
abolissero una buona volta questi maledetti “ludi cartacei” che
disturbano il manovratore, intralciano i Mercati, mettono in forse il
duro lavoro di banchieri, commissari dell’UE, lobby, di oligarchie
che sanno che cosa è meglio per noi e non possono perdere tempo con
schede, percentuali e parlamenti- luoghi dove si parla e non si
agisce. Sostituiamo le elezioni con i mercati (che “votano ogni
giorno”) e con l’applausometro della televisione. Strilla di
democrazia in pericolo chi vorrebbe incoronare Draghi imperatore, chi
disprezza la patria ma strologa sul “bene del paese”, chi
piagnucola sui diritti dopo averci imposto la serrata.
Stiamo
ascoltando distillati di odio contro la libertà, la volontà
popolare e la democrazia rappresentativa. Ci odiano e non lo
nascondono più. Usiamo, per una volta, il loro linguaggio. Hanno
gettato la maschera mentre l’anno imposta a noi: sono fascisti
della più bell’acqua. E se sono fascisti, devono essere
smascherati, combattuti, cacciati e forse processati. Leggiamo il
post di un tale Felice: “e basta con il suffragio universale, una
porcheria immonda. Si deve andare al voto ponderato. Il mio voto che
leggo, studio e mi informo non può valere lo stesso di un imbecille
qualunque “. Più fascista lui o il vostro scrivano che militò
nel MSI fino a quando non lo sciolsero in ossequio al libero mercato?
Eterogenesi
dei fini: principio formulato da Wilhelm Wundt, uno dei padri della
psicologia, secondo cui le azioni umane possono produrre effetti
diversi da quelli perseguiti dal soggetto agente. I democratici di
ieri sono diventati i “fascisti” di oggi; chi non credeva nella
liturgia democratica deve al contrario rivendicarla al pari dei
diritti sanciti dalle costituzioni. Un rovesciamento formidabile.
La
democrazia è diventata una finzione. Domina il denaro e se per caso-
capita spesso- il popolo si esprime in dissenso da lorsignori,
comprano i parlamenti a prezzi di saldo, dopo averli svuotati
trasferendo altrove (mercati, oligarchie, agenzie transnazionali,
banche) i poteri che il diritto scritto assegna ai popoli. L’esempio
italiano è lampante. Un’altra vittoria dei “fascio-progressisti”
è avere destituito di prestigio le forze politiche che asserivano
rispetto per la volontà popolare e desiderio di restaurare ed
ampliare la sovranità. Ai parlamenti resta il ruolo di notai, una
ciurma che ricorda il famoso (apocrifo) ordine della Marina borbonica
in occasione della visita del re: facite
ammuina,
ossia gridate e fingete di fare qualcosa.
A
questo è ridotta la politica e il suo tempio massimo, il parlamento.
Non cambierà nulla, temiamo, eccetto qualche suonatore. La musica è
decisa altrove, lo spartito è stato consegnato da tempo. Sono
ammesse tonalità diverse, qualche nota in libertà, ma la sinfonia è
quella stabilita. Il Drago fa un passo indietro, o di lato, ma la
bacchetta di
direttore
d’orchestra ha il pilota automatico che muove
gli orchestrali nella direzione voluta dai pifferai. La chiamano
governance.
Infine, se Dio vorrà, ci permetteranno di votare. Ma per chi? Quali
sono i programmi, non diciamo i progetti alternativi? Qualcuno oserà
eccepire sulla narrazione bellica, l’atlantismo servile, la mistica
dei diritti da biancheria intima contrapposti a quelli concreti,
sociali? Qualcuno vorrà o cambiare il gioco? In un momento di
sincerità, il sindaco di Genova, esponente del centrismo manageriale
indifferente ai principi, ha affermato che non è un gran problema se
la gente non vota. Infatti ciò permette a lui e a una casta politica
trasversale di perpetuarsi.
Il
voto improvviso impedirà alle forze non omologate di organizzarsi:
un altro regalo del Drago, del suo dante causa al Quirinale e dei
superiori di entrambi. Del resto, sappiamo che i veri cambiamenti non
passano dai parlamenti, ma dai movimenti sociali e dalle lotte
popolari.
Nessuno
spiraglio, dunque? Al contrario, il popolo ha almeno tre strade:
rafforzare comunque chi riuscirà ad essere presente sulle schede
elettorali nonostante le forche caudine delle “procedure”,
sperando che la pattuglia degli eletti non svenda se stessa e la
fiducia della gente dopo aver assaporato gli agi parlamentari.
Continuare a lavorare per costruire un vero polo alternativo su pochi
punti, avendo la forza, il coraggio e la generosità di rinunciare a
un pezzo di identità in cambio di una speranza di libertà e
liberazione. Chiedere a coloro che non si sentono di votare per
movimenti, partiti o coalizioni “di sistema” di non disertare,
andare ai seggi e annullare la scheda scrivendo una parola d’ordine
concordata.
Dopo
il 25 settembre, arriverà il 26. Facciamo in modo che quel giorno
nasca un articolato, appassionato fronte – nazionale, popolare e
sociale- di italiani che vogliono cambiare le regole del gioco e il
gioco stesso. La strada è più che impervia. Ma non possiamo morire
liberali, liberisti, atlantisti, europoidi, servi e senza diritti.
Anche se tutti, noi no!