di
Roberto Pecchioli
“In
un mondo che/ prigioniero è/ il mio canto libero sei tu… “Non ci
restano che Mogol e Battisti, il rifugio nel privato e nell’intimo,
sottoposti al bombardamento continuo della menzogna, della
manipolazione, del capovolgimento della verità. Il resto lo fa il
bollore, il fastidio fisico e psicologico della stagione. Serve
leggerezza, una licenza temporanea dai temi pesanti.
Ma
quale canto può essere libero in un’affollata stazione
ferroviaria, in mezzo alla folla transumante “a tutti i suoi
retaggi indifferente”, il cui unico obiettivo esistenziale sembra
essere il treno delle vacanze? Se pensiamo a come potrebbe essere
l’inferno, andiamo a colpo sicuro: è assai simile alla stazione
ferroviaria di Milano in estate. Migliaia di persone accalcate che
trascinano le valigie, zaino in spalla, in tutte le direzioni, in
mezzo a un toboga di negozi carissimi che vendono cattiva merce, ma
con il santo marchio. Un’umanità provvisoria, sudaticcia e
brandizzata si aggira nei corridoi di quello che fu il capolavoro di
Ulisse Stacchini. Plebi umane transumanti, multietniche, unite dalla
fretta, dal sudore e dallo straniamento, corrono verso i binari per
raggiungere la meta, il treno delle vacanze.
Viene
da sorridere alle raccomandazioni che ci raggiungono ovunque, agli
altolà terrorifici sul distanziamento sociale, la sanificazione e il
rischio dell’orribile contagio. Il morbo infuria, a sentire le
gazzette, la situazione è grave, ma non seria. Maledetto il vostro
scrivano che non viaggia per necessità o per ferie, ma per
presentare un suo libro, l’invito amorevole di amici cui è
difficile dire no. Vanità, in fondo, un sentimento umanissimo ma
negativo dal quale metteva in guardia Ezra Pound: “strappa da te la
vanità, ti dico strappala”. Ecco la punizione: coazione a
ripetere, la tendenza incoercibile a porsi in situazioni penose o
dolorose senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né
del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze. Così
recita la definizione, consultata in fretta sul fidato smartphone,
di cui ormai siamo la propaggine.
Un
viaggio che somiglia all’inferno, folla, chiacchiericcio scomposto,
promiscuità, l’inutile tentativo, chiudendo gli occhi, di restare
con noi stessi. Ci inseguono, tra gli altri rumori, i continui
messaggi dall’altoparlante. Oltre al solito stucchevole benvenuto-
ripetuto ad ogni stazione- e alle altrettanto seriali raccomandazioni
sull’uso della mascherina FFP2- colpisce l’ invito a sottoporre
ogni problema al “train manager”. Sì, proprio a codesta
strana figura professionale che non è altri che il vecchio
capotreno. E dire che il vettore ferroviario si chiama Italo…
Alla
terza o quarta ripetizione del messaggio relativo al train
manager, scatta l’intuizione. Abbiamo scoperto - o creduto di
scoprire - la ragione profonda di questa transumanza, dei
comportamenti di massa, delle idee che all’improvviso diventano
calamite, di condotte collettive che chi scrive - troppo vecchio e
ignorante per capire - non riesce ad accettare. Non è solo lo
spirito gregario, la riduzione a sciame umano, la manipolazione
subita senza fiatare, la potenza dell’apparato pubblicitario. C’è
qualcosa di più e ci sembra di averlo individuato: è la
colonizzazione. Dell’immaginario, delle parole, dei comportamenti,
dei modi di vita, delle parole.
Non
sussiste speranza di riscatto per un popolo che chiama green pass
il passaporto vaccinale, lockdown la chiusura della nazione e
la prigionia di fatto, week-end il sacro sabato e domenica
della corsa al “divertimento”, delle code in autostrada e al
gelato nelle località turistiche. Il biglietto diventa ticket e,
mannaggia, train manager il ferroviere munito di apparato
elettronico per controllare i biglietti su treni simili a siluri o
astronavi, ma all’interno scomodi trespoli per viaggiatori trattati
come merce immagazzinata. “O macchinista, metti il carbone, quel
macchinone fallo partir”. Altri tempi, la cultura popolare
sorridente e ingenua è finita, sostituita dal colonialismo-
esistenziale e culturale.
L’’identità
coloniale è psicologicamente distruttiva. Infatti ci impedisce di
essere noi stessi, riconoscere le manipolazioni e soprattutto fa
credere di essere uomini – e popoli- di serie B. Il che è
purtroppo vero: si può perdere una guerra e non essere colonizzati
dal vincitore, continuare a considerarlo un oppressore e un intruso.
Oppure – è capitato ai popoli d’ Europa e in particolare al
nostro, privo di anticorpi culturali - si può collaborare con il
nemico di ieri, lasciarsi assimilare e, per imitazione, servilismo o
subalternità, assumere le idee, i modi di essere, vivere e parlare
del colonizzatore.
Si
desidera essere come lui, diventare indistinguibile, ma l’imitazione
è maldestra, il prodotto fallato, un surrogato come la cicoria al
posto del caffè. Il mondo coloniale rimane dimezzato, spesso
ridicolo nella sua smania mimetica, nella brama comica di essere
uguale al modello che si crede scelto ed è invece un’imposizione,
una violenza ahimè non più percepita. Alcuni ricorderanno il
personaggio di Alberto Sordi Moriconi Nando, ammiratore sperticato di
tutto ciò che proveniva dall’America vincente, liberatrice ed
occupante. Moriconi vorrebbe farsi piacere il cibo americano, non ci
riesce e attacca un succulento piatto di spaghetti. “Maccarone,
m’hai provocato e me te magno “fu l’indimenticabile dialogo tra
Nando e la pasta.
Erano
gli anni Cinquanta del secolo scorso, un’era giurassica. Oggi, se
andiamo al cinema, siamo inseguiti dall’odore insopportabile dei
popcorn diventati obbligatori compagni della visione.
Colonizzazione dell’immaginario, diceva Serge Latouche, che diventa
irruzione nei gesti quotidiani, incapacità di vivere la propria
esistenza in maniera difforme da quanto prescritto dalla società
dello spettacolo organizzata dai colonizzatori. Pare addirittura che
certi gesti, determinate attitudini e modalità di vita siano quello
a cui aspiravamo segretamente.
Guardiamo
il mondo con l’occhio di chi ci ha infilato il cappio al collo-
pardon di chi ci ha insegnato nuovi modi di vivere – e finiamo per
parlare come lui, in maniera più ridicola. Il capotreno si trasforma
in train manager, l’esposizione commerciale in show-room
e per qualche ministro di incerta alfabetizzazione anche il virus
diventava “vairus”, alla “mericana”. Quasi tutti pronunciano
“tiutor” senza ricordare che la parola tutor è latina,
non anglosassone. Ignoranza più servilismo più snobismo spicciolo.
Snob: parola composta, acronimo latino, s.nob. Sine
nobilitate, senza nobiltà.
Parliamo
come loro, ma da servi. I più anziani ricorderanno il doppiaggio dei
vecchi film americani, in cui gli schiavi delle piantagioni parlavano
in maniera macchiettistica, elementare, cercando di adottare il
linguaggio dei padroni senza riuscirci, in un penoso grammelot
non troppo dissimile dal nostro grugnito che pretende di essere
globale, multilingue e avanzato ed è invece una penosa regressione
al primitivo. E’ dimenticato chi e come eravamo, anzi non ci
poniamo più la domanda, immersi nel presente, assoggettati nei
pensieri, nelle parole, nelle opere e perfino nei tic.
L’oppressore
diventa modello di riferimento: colpa nostra se non riusciamo ad
essere come lui. Sorridiamo pensando alla nostra infanzia, la
passione per i film western visti due, tre volte di seguito
nei cinema di periferia, un tempo in cui il nostro eroe, John Wayne,
lo chiamavamo “vàine”, all’italiana, e i cowboys, in un
miscuglio di inglese, italiano e dialetto, diventavano “caiboi”.
Non eravamo ancora colonizzati del tutto e il massimo della
trasgressione era la gomma da masticare, venduta in esemplari rotondi
multicolori dentro recipienti a maniglia. Il chewing gum a
Genova si chiamava “ciùngai”, in Toscana “cingomma”: forse i
prodotti made in Usa sciacquavano i panni in Arno.
I
colti hanno la parola giusta, il concetto sociologico che spiega
tutto: siamo passati dall’inculturazione all’acculturazione. In
parole semplici, anziché assimilare la cultura della comunità
d’appartenenza durante l’età della crescita individuale,
abbiamo assorbito, a seguito della conquista e della
sovrapposizione-imposizione di modelli estranei, la cultura di un
altro popolo. L’ultimo atto, quello decisivo, è assumere- sia pure
in maniera derivata e mimetica- la lingua del colonizzatore, un simil
inglese raffazzonato, il globish, Colonizzati nell’anima e
nella parola, nei comportamenti e nelle abitudini, lo diventiamo
anche nelle parole, sebbene in modo ridicolo, come dimostrano il
“train manager”, il “dealer” (il venditore, non
più commesso o rappresentante) e il “barman”, di cui non
si capisce che cos’abbia di più e di diverso dal nostro amico
barista.
Il
colonizzato è per definizione portatore (in)sano di subalternità e
spirito gregario. Non si spiega altrimenti il dilagare di mode prive
di significato, tipo i tatuaggi, la dipendenza dall’alcool e dalla
droga. Nelle società tradizionali, l’alcool aveva finalità legate
al gusto alimentare e alla socializzazione domestica e comunitaria.
Oggi è uno strumento di sballo a basso costo. La droga era un
pericoloso strumento di sperimentazione culturale per nicchie d’élite
o un elemento di liturgie di carattere magico religioso. Adesso si
tratta di sostanze utilizzate a scopo di trasgressione (finta), di
fuga dalla realtà o di ricerca della prestazione, della
“performance”.
I
tatuaggi erano indicatori corporei di identificazione, di
appartenenza a un particolare ambiente o status. Attualmente non sono
che moda estranea ad ogni simbolizzazione, privi di ogni indicatore
di distinzione, o addirittura una forma di costruzione del Sé
fisico, l’autocreazione attraverso un’individualizzata
deprivazione di significati. Un altro elemento che favorisce la
colonizzazione culturale è l’ignoranza, a partire dal
disconoscimento delle proprie radici e dalla preferenza modaiola per
comportamenti o scelte considerate più moderne, “internazionali”.
La scuola, sino all’università, ha smesso di trasmettere una
cultura e si limita a addestrare a compiti professionali e all’uso
degli apparati tecnologici.
Tuttavia,
temiamo che esista un elemento in più, che finisce per permeare e
contenere ogni altro: la stupidità perseguita, una cretineria di
massa sapientemente favorita e manipolata dai pastori del gregge
umano. Ne era convinto un economista, Carlo Maria Cipolla, autore del
delizioso Le leggi fondamentali della stupidità umana.
I
pupari sanno che il gregge è conformista, non guarda oltre il suo
naso; se qualcuno indica la luna, invariabilmente osserva il dito e
non l’astro del cielo. Non resta che favorire in ogni modo la
stupidità attraverso l’uso delle neuroscienze, della
programmazione neurolinguistica e della propaganda. Il cretino è
imposto come modello comportamentale nella specifica variante del
colonizzato: nell’immaginario, nella parola e nei gusti. Cipolla ha
involontariamente fornito un formidabile strumento alla classe dei
manipolatori. Chi meglio di loro ha preso atto delle cinque leggi
della stupidità enunciate dal professore pavese?
La
prima è che il numero di persone stupide è sottostimato. In alto lo
sanno, e l’errore più grande che possiamo fare è escludere noi
stessi dal computo. La seconda legge spazza le illusioni sulla
cultura e sul ceto di appartenenza: la probabilità che una persona
sia stupida è indipendente dalle altre caratteristiche. Nessun
privilegio etnico, di educazione, reddito o idee: la percentuale di
stupidi è costante, dal Forum di Davos a noi gente della strada.
La
terza legge spiega che uno stupido crea problemi agli altri senza
trarne alcun beneficio. E’ la caratteristica più pericolosa.
Pensiamo ai delatori, agli “odiatori” delle reti sociali, ai
buoni cittadini pronti a seguire alla lettera le indicazioni del
potere. Quarto: i non stupidi sottostimano i danni che possono fare
gli stupidi. La quinta legge – che riassume le altre- è che lo
stupido è la più pericolosa delle categorie umane.
La
conclusione è disarmante: se tra la popolazione non stupida la
proporzione di mascalzoni e di chi agisce contro i propri interessi è
troppo elevata, “allora il paese diventa un inferno”. Stupido e
ingenuo, ignorante e manipolato, docile perché disidentificato dai
colonizzatori: è il ritratto del cretino coloniale, il più diffuso
esemplare umano contemporaneo. Ultimamente, costui ha manifestato
un’altra delle caratteristiche gregarie: il bisogno di essere
comandato, la ricerca dell’uomo della provvidenza. In Italia il
ruolo- non sappiamo se suo malgrado- è esercitato da Mario Draghi.
Sindaci,
corporazioni, associazioni professionali, gli ambienti più diversi
lo invocano, lo implorano perché resti, affinché – pensando per
tutti con l’avallo delle centrali coloniali- ci liberi da ogni
responsabilità. Cretini coloniali: sì, siamo davvero all’inferno.