di
Roberto Pecchioli
L’incipit
della Terra desolata (la traduzione più corretta è “guasta”,
The
waste land)
di Thomas Stearns Eliot è un’invettiva contro la primavera.
“Aprile
è
il più
crudele
di tutti i mesi,
genera lillà dalla terra morta, mescola memoria e desiderio, desta
radici sopite con pioggia di primavera. “Per noi che non siamo
poeti, il peggiore dei mesi è luglio, l’estate che scoppia,
ferisce con luce eccessiva, il calore che scioglie e condanna, la
constatazione che siamo esseri fragili a cui basta un eccesso di
temperatura – o il suo contrario, il gelo che rallenta il sangue e
fa battere i denti- per diventare altro, scimmie nude, indifese,
anelanti la penombra, il calare del sole nemico.
Temperature
troppo alte, il sudore che cola, l’umanità sembra disfarsi e
ridursi a istinto, carne sin troppo esibita, desolata, guasta. In
estate, chi scrive sente profondo il desiderio di distanziamento
sociale. Nessun terrore da virus, solo una decisa presa di distanza
dai conspecifici- l’umanità colta da una strana allegria di
naufraghi- resa urgente dalla stagione.
Sorge
una domanda orribile, difficile quanto la risposta immediata: e se
avessero ragione loro, gli oligarchi, i signori del dominio, i
detentori del potere, a farci ciò che fanno, a ridurci sempre più
ad animali ammaestrati, docili, prevedibili, teste senza cervello,
ventri, istinti dominati dalle voglie, greggi condotti per il
tratturo scelto dal pastore? Non è questo il vero destino dell’homo
sapiens,
ridotto a sciame?
Così
pensavamo faticosamente, cercando di chiudere gli occhi e di renderci
insensibili ai rumori, stipati in un treno con destinazione il mare,
preso per necessità, spersonalizzati in una folla sudaticcia,
litigiosa. Non c’è aria condizionata, i posti sono limitati,
bagagli di ogni tipo e colore ingombrano dappertutto, tracimano nel
poco spazio concesso all’homo
deus
transumante, scamiciato, con la carne seminuda arrossata, spesso
sfigurata dai ghirigori e dalle frasi da Baci Perugina (solitamente
in inglese) di tatuaggi senza senso, ansioso di raggiungere la meta
dell’agognata vacanza, la spiaggia del divertimento obbligato, del
soddisfacimento di voglie e aspettative. Il contrario della festa
comunitaria a lungo attesa, impreziosita dal rito, degli abitanti
della Contea nel Signore degli Anelli.
L’uomo
della civiltà digitale, con atrofia delle mani, sempre meno usate
per il lavoro e artrosi delle dita impegnate ad armeggiare sui
dispositivi elettronici, è simile a uno sciame. Il termine
sciame
indica una molteplicità di individui che restano atomi solitari pur
avendo la possibilità di relazionarsi in un attimo (il tempo reale)
con il mondo intero. Caratteristica dello sciame è quella di
muoversi in massa, guidati non da una volontà o da un capo visibile,
bensì mosso da onde invisibili che determinano una cangiante
direzione comune. L’uomo-sciame, a differenza della massa in cui
sacrificava la propria individualità e intelligenza, ma in vista di
un obiettivo comune, resta solo. “Lo
sciame digitale non è una folla, poiché non possiede un’anima,
uno spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame digitale è
composto da individui isolati. “(Byung Chul Han)
Isolati
ed egoisti: anche sul treno affollato lo sciame reclama diritti,
tutti sono in competizione, per un centimetro, per guadagnare un
attimo prima l’uscita o raggiungere i servizi di cui non osiamo
immaginare le condizioni. Nessuno cede il posto ai rari anziani che
sembrano capitati lì per sbaglio. Pochissimi dialogano tra loro o
leggono un libro, tutti smanettano con lo smartphone o telefonano. Si
comunica con l’assente, il distante, si ignora il vicino presente,
il nemico. La transumanità è già qui. Elon Musk ha affermato che
lo smartphone
ha trasformato l’uomo in una sorta di cyborg
(l’individuo a cui sono stati trapiantati membra o organi
artificiali), lamentando la lentezza del salto antropologico. Lo
smartphone
è un’estensione di noi stessi, il medium
tra dita, memoria e cervello.
L’uomo
nuovo senza interiorità –surrogata dagli apparati artificiali –
è un concentrato di dipendenze. Dal sistema degli oggetti, dalle
voglie diventate insaziabili poiché alimentano il sistema, da
comportamenti, modi di vita, scelte, consumi indotti da un sapiente
impianto psicosociale il cui successo più straordinario è farci
credere liberi in mezzo a innumerevoli schiavitù. Uno
psicoterapeuta, Adriano Segatori, usa l’espressione società
tossica, fondata sulle dipendenze, di cui il potere è l’impassibile
spacciatore, con l’obiettivo finale dell’addomesticamento di
massa.
Vittoria
su tutta la linea. L’uomo ha delegato ogni cosa, qualunque
decisione ai manufatti tecnici e al magistero superstizioso della
scienze e della tecnica. Tutto è divenuto meccanica e non ha più
senso l’espressione latina homo
faber, artefice di se stesso,
sostituita da homo fabricatus,
plasmato, programmato, seriale, reso prevedibile dalla tecnica.
Chi
ha meglio compreso la natura umana sono le oligarchie che la
sfruttano per i loro scopi, dirigendola a piacimento, come le onde
che muovono lo sciame. Scrisse Marcello Veneziani che l’uomo imita
nella sua grande maggioranza i comportamenti di chi lo guida. Con la
medesima annoiata indifferenza con cui ieri seguiva – o almeno
approvava – i precetti, le virtù personali e sociali diffuse dal
potere, oggi pratica i comportamenti – rovesciati come un guanto-
propagandati da un apparato mai tanto potente e pervasivo. Il mezzo è
il messaggio.
La
domanda che inquieta e attraversa l’uomo libero, il ribelle che
cerca di usare autonomamente le facoltà intellettuali, è: hanno
ragione loro? Se l’umanità e questo – e ne abbiamo prove
sovrabbondanti- forse conviene mettersi dalla parte dei pastori che
si sono impadroniti del gregge, senza credere alle loro bugie il cui
scopo- ieri come oggi- è il controllo, il potere, il dominio. Leo
Strauss lo teorizzò nel suo circolo riservato, definendo nobile
menzogna tutto quanto viene fatto credere alla massa. La certezza è
che la grande maggioranza non si accorge nell’inganno, in cui vive
serenamente sino alla tomba.
Anche
la democrazia è un inganno illusionistico creduto per le accecanti
luci del varietà e per coazione a ripetere. La finta libertà in cui
“uno vale uno” nella scelta dei governanti- plenipotenziari del
potere tecnologico, economico e finanziario fattosi plutocrazia- è
talmente inquinata dal potere del denaro e della comunicazione
(un’endiadi, sono la stessa cosa) che perfino il gregge sta
iniziando a fiutare l’imbroglio.
Manca
del tutto un’alternativa, però, un’idea forza a cui consegnare
l’energia positiva, il desiderio di cambiamento, la speranza.
“Loro”, il grumo di potere che ci dissangua, ci espropria e
occupa le nostre menti, hanno vinto un’altra volta: “Tina”,
il gelido acronimo incapacitante di there
is no alternative. Se ci
crediamo, vuol dire che hanno ragione loro. Significa che hanno
realizzato l’auspicio di Sun Tzu nell’Arte della guerra:
sottomettere il nemico senza combattere. Ci conoscono talmente bene –
meglio di quanto noi stessi ci conosciamo – che traggono vantaggio
dai nostri limiti e difetti.
Per
il fondatore dell’antropologia filosofica, Arnold Gehlen, il
frenetico progresso della tecnica è avvenuto in strettissimo
collegamento con la produzione capitalistica. Ma l’uomo moderno è
indifferente alle ragioni e ai nessi di causalità; si limita a
lasciarsi vivere, ovvero a farsi agire dall’esterno. Il meccanismo
primario è la seduzione, con la ragione economica e strumentale che
rimpiazza la cultura, assorbendola in sé e cacciando ogni
concorrenza di idee esattamente come gli spiriti animali del
capitalismo (J. Schumpeter) tendono a eliminare ogni agente diverso
dal soggetto più grande e potente.
La
servitù diventa volontaria, addirittura un dato di natura, per cui
la caverna di Platone diventa un comodo habitat. L’uomo ama
l’inganno, o l’illusione. Il mondo classico chiamava vizi
capitali le debolezze umane che arrecano gravi conseguenza alla
persona; il cristianesimo, più indulgente, li derubricò a peccati
pur continuando a condannarli. Il potere ne prende atto
concretamente, lavora su di essi, li considera opportunità per i
suoi fini e li utilizza senza scrupoli. L’antichità ne individuava
sette – un numero altamente simbolico, incomprensibile nel mondo
dissacrato e desimbolizzato.
Si
tratta della superbia, la pretesa di superiorità unita al disprezzo
per l’altro; l’avarizia, smania di possesso, cupidigia che
inibisce ogni gesto di generosità; la lussuria, che fa predominare
l’istinto sessuale e la sua soddisfazione , riducendo l’altro a
oggetto di piacere; l’invidia, che rode il cuore odiando il bene
altrui; la gola, ingordigia rivolta al cibo, un piacere che non può
diventare scopo; l’ira, impulso negativo incontrollabile nei
confronti di cose o persone; l’accidia, indifferenza, disinteresse,
pigrizia morale, fisica e mentale.
Tutti
questi vizi paiono il ritratto dell’uomo moderno, compresa
l’accidia, che il potere alimenta per diffondere egoismo,
solitudine, inazione e disinteresse a comprendere- o almeno
riconoscere - i perché degli eventi. E’ forse questo il carattere
più profondo dell’uomo medio, sui cui limiti e debolezze punta il
potere per dominarlo. Nulla di veramente nuovo: per gli antichi, gli
Dei toglievano il senno a coloro che volevano rovinare; un cardinale
cattolico teorizzò secoli fa che il popolo vuole essere ingannato,
dunque va ingannato.
La
novità post moderna è lo sfruttamento intensivo delle debolezze,
dei vizi, dei desideri e dei capricci, prima accompagnati dalla
riprovazione ufficiale, oggi considerati medaglie di buon cittadino,
un’acrobazia che ha spalancato la finestra di Overton del bene e
del male. Ovvio, sono i fondamenti del consumo e della corsa
forsennata verso i piaceri più futili. Tutt’al più, allorché
certe condotte, gli ex vizi, creano problemi, il sistema li tratta da
malattie, disturbi. Così può inquadrarli meglio, eliminare l’ultima
traccia di senso di colpa, guadagnarci e aumentare il controllo
sociale attraverso la medicalizzazione della vita.
Ancora
Segatori: “la gola diventa disturbo dell’alimentazione
incontrollata; l’invidia, disturbo antisociale di personalità;
l’accidia disturbo depressivo; la superbia, disturbo narcisistico
della personalità; l’avarizia, disturbo da accaparramento; la
lussuria disturbo del controllo degli impulsi o sessodipendenza;
l’ira, disturbo del controllo degli impulsi.”
Il
male (come il bene) è nell’uomo e ogni civiltà, ogni tradizione
spirituale ha cercato gli antidoti, attraverso la diffusione di
modelli di vita e comportamento considerati etici, virtuosi. La
nostra, al lumicino, è l’unica che chiama bene il male e normalità
la devianza. Arriva a denominare diritti i capricci e a destituire
la realtà, la natura, se non corrispondono alla volontà soggettiva.
Ne L’Impero del bene, Philippe Muray indicava la modernità come
banca mondiale dei diritti; il cortocircuito è che ai diritti non
corrispondono più i doveri, con il disfacimento irreversibile della
compagine sociale.
Suscita
entusiasmo tutto ciò che sembra “comodo”, ossia che, a un esame
superficiale (l’unico alla portata di popolazioni ridotte a plebi
non pensanti) sembra facilitare la vita e farci risparmiare tempo.
Tempo per farne che cosa, se non alimentare la spirale dei
vizi-voglie-desideri? Diventa semplice far accettare la scomparsa del
denaro contante, l’esproprio del frutto del nostro lavoro, dei
risparmi e la decisione su come, quando e in che misura spenderlo.
Appare un gioco da ragazzi, specie dopo la prova pandemica–
riuscita oltre le più rosee aspettative- far accettare anche il
codice a barre, il segno della bestia, il chip sottocutaneo. Il corpo
diventa cifra, proprietà di chi lo ha marchiato, come il bestiame
d’allevamento.
Oltre
ogni limite; perfino il materialista Ludwig Feuerbach scrisse che il
Dio Termine romano “si trova all’entrata del mondo in funzione di
sentinella. La condizione di entrarvi è l’autolimitazione”.
Accettare l’esproprio del corpo e l’introduzione in esso di
segnali o apparati ci rende trans umani, in attesa dell’ibridazione
vera e propria con la macchina, nella convinzione gnostica (alla
gente non va spiegato, qualcuno potrebbe spaventarsi) che il corpo
sia la prigione. Viviamo nel pieno di quella che Isaiah Berlin
chiamava libertà negativa; uno psicanalista freudiano, Massimo
Recalcati, parla di uomo senza inconscio.
Ha
vinto quello che il marxista eretico e psicanalista Jacques Lacan ha
descritto come il formidabile attacco alla psiche umana sferrato dal
capitalismo tecnocratico, il Grande Altro. Conoscitori sopraffini di
ciò che siamo, dell’uomo concreto, reale, lorsignori ci hanno reso
schiavi docili, domestici, perfino felici. Il rovello è quello
iniziale: e se avessero ragione loro?