Di
Roberto Pecchioli
Nella
prima parte della presente riflessione abbiamo mostrato alcuni grandi
cambiamenti antropologici e sociali, invocando contro di essi –
ovvero contro l’oligarchia che li impone- una reazione, una rivolta
morale in nome di un rinnovato umanesimo. Ci rendiamo conto – e ne
abbiamo avuto la prova in recenti confronti pubblici- che le
difficoltà sono perfino superiori a quelle messe in preventivo.
L’immaginario di milioni di persone – anche di chi dà segni di
insofferenza e di opposizione - è stato colonizzato in materia
amplissima e, ad esempio, non riesce a comprendere che molti dei
cosiddetti diritti, specie nell’ambito civile e intimo, sono in
realtà trappole predisposte e disseminate con grande maestria dai
nostri aguzzini.
Non
si cambia un mondo adottando o accettando la mentalità e il sistema
di pensiero che l’ha generato, né si esce dalla caverna senza
rendersi conto di essere prigionieri che si credono liberi solo
perché evitano di toccare i muri della cella. (Gòmez Dàvila). La
stessa libertà, per l’uomo “organico”, non è astratta. Libero
da che cosa? ammonisce Zarathustra. “Il tuo occhio deve
limpidamente annunciarmi: libero per che cosa”? Homo faber,
artefice, non l’odierno, pallido, seriale homo fabricatus, l’ex
persona regredita a utente.
Umanesimo
significa innanzitutto che la persona è un fine in sé e non un
mezzo. Ciò implica respingere la riduzione zoologica dell’essere
umano posta in atto dalla tenaglia della tecnocrazia e dal potere del
denaro. Dunque, opposizione intransigente alla digitalizzazione
dell’uomo, ridotto a codice a barre, grumo di carne manipolabile
con il controllo dei mezzi di comunicazione di massa e i
valori/disvalori da essi comunicati, e addirittura con l’inserimento
nel corpo di apparati e sostanze di cui ignoriamo la composizione,
gli effetti, gli autentici obiettivi di chi li produce e controlla.
Ribellarsi
è gridare che il corpo fisico, il cervello e l’anima sono
patrimonio indisponibile di ciascun essere umano. La lotta contro
l’esproprio del Sé e del corpo da parte del biopotere diventa il
primo gesto rivoluzionario. Io sono mio, dovrebbe essere –
parafrasando uno slogan del femminismo di ieri- il primo comandamento
del Ribelle.
Umanesimo
è innanzitutto rivendicazione di libertà, personale e poi
comunitaria, come componenti di un popolo e di una storia. Giungiamo
al punto essenziale, difficilissimo da comprendere e accettare. Siamo
oggetto di una gigantesca operazione di addomesticamento,
standardizzazione di consumi e spersonalizzazione, non in nome di una
pretesa uguaglianza tra gli uomini, ma per renderci docili strumenti
di un sistema in cui tutto il potere, a partire dalla proprietà dei
beni comuni, dei mezzi di produzione, dei servizi, della tecnologia e
ovviamente del denaro è concentrata in pochissime mani.
Ci
hanno convinto che non è mai accettabile l’uso della forza neanche
per autodifesa, fondamento della responsabilità nei confronti di noi
stessi, della famiglia, dei nostri simili, della protezione dei
nostri principi e interessi. Così indebolito, espropriato delle
risorse interiori e delle virtù del coraggio, anche fisico, simile
all’Homunculus di Faust, l’occidentale postmoderno è privato in
un colpo del desiderio di reagire al male e delle energie morali che
inducono alla rivolta accettandone le conseguenze.
Ci
hanno privato dei diritti umani e sociali, della proprietà di noi
stessi (“non avrai nulla e sarai felice”), ci hanno estirpato il
diritto e l’orgoglio di essere persone e comunità con una storia,
un passato, un futuro e un destino, cioè di essere pienamente
uomini, esseri sociali in senso aristotelico. Tale gigantesco
esproprio ha cancellato gran parte dei diritti sociali, che la
civiltà nostra aveva elaborato e conquistato duramente.
Forse
dovremmo rovesciare l’XI tesi su Feuerbach di Karl Marx. Per
l’autore del Capitale, i filosofi avevano soltanto descritto il
mondo ed era giunta l’ora di cambiarlo. L’ operazione è riuscita
non ai filosofi, ma all’alleanza tra tecnocrazia e finanza. E’
questa potentissima alleanza che va attaccata alla radice.
Rivoluzionario è chi si pone grandi obiettivi, per quanto difficili.
Ci hanno compresso nel consumo- anche di noi stessi- in quello che
Jean Baudrillard chiamava “sistema degli oggetti”, rendendo la
creatura umana una cosa, un essere tra tanti. Dopo l’appello alla
libertà, è necessario decolonizzare l’immaginario dalla
“forma-merce” estesa addirittura a noi stessi.
Abbiamo
letto un’offerta di lavoro per ingegneri con conoscenza della
lingua inglese e disponibilità agli spostamenti. Al nomade
poliglotta laureato è offerto uno stipendio di seicento euro
mensili. La rivolta, la rivoluzione morale deve ripartire da questo:
l’uomo ha bisogno di sogni, ideali e principi, ma intanto deve
soddisfare esigenze basilari e pratiche. Il liberismo reale nella sua
forma globalizzata di appropriazione del mondo e dell’uomo è un
potere schiavistico a cui va opposto il rigetto a partire dal rifiuto
di accettare le sue condizioni. Il lavoro - sicuro, giustamente
retribuito, fonte di dignità, componente essenziale della dinamica
sociale - deve tornare ad essere rispettato.
Gli
uomini, nonostante tutti i meccanismi del capitalismo di ultima
generazione (precariato, concorrenza al ribasso, divisione) devono
sentire nuovamente l’appartenenza alle categorie del lavoro,
l’orgoglio del mestiere e della professione, la comunanza di
interessi, la rivendicazione del loro ruolo. Il processo di
omologazione-disidentificazione-deculturazione ha raggiunto ogni
ambito della vita umana. Risultato, un individualismo gretto con cui
hanno svuotato cuore e cervello, centrifugato con l’identitarismo
minimo di infinite minoranze contrapposte ed agonistiche.
Tutto
questo va attaccato e capovolto, per ristabilire l’ordine normale.
Si deve tornare a identità forti e condivise, alla dignità che
nasce e vive nei conflitti sociali e ideali. Non riusciamo a
incasellare tali convinzioni nei contenitori ideologici del passato.
Non ci attardiamo a stabilire se il globalismo dei padroni del mondo
è di destra o di sinistra: combattiamolo, liberiamoci dalle sue
catene. Spezziamo la dipendenza e i fuochi sparsi diventeranno un
incendio.
Siamo
uomini e donne “normali”, dicevamo. Le nostre divisioni – che
sempre ci saranno e fanno parte della libertà e del fascino
dell’avventura umana- non devono essere la più potente leva per il
potere nemico. Rifiutare la tirannia del consumo, degli oggetti e del
soggettivismo estremo e privo di significato – lo sciame che si
sposta senza una meta apparente, obbedendo a onde invisibili, parole
d’ordine talmente insinuanti che ci convinciamo di avere fatto noi
le scelte indotte dal potere – significa innanzitutto rimettere sul
trono l’uomo respingendo la tirannia del mercato misura di tutte le
cose.
Karl
Marx fallì nella pars construens della sua teoria, ma colse
nel segno annunciando la “società mondiale dei contabili”. Essa
è insieme “cupa religione del tecnicismo” e “morte spirituale,
meccanica priva di anima “(Claudio Bonvecchio). Un’umanità
deprivata di tutto, disanimata, nullatenente e nulla pensante, è una
folla solitaria di atomi alla deriva, che diventa gregge al fischio
del pastore. Recuperare la dimensione comunitaria e sociale è quindi
essenziale, a partire dalla concreta rivendicazione dei veri diritti
di chi vive in società e vuole essere protagonista del suo destino.
Rivoluzionario
è ripoliticizzare l’uomo, restituirgli il gusto della
partecipazione comunitaria, ridargli la passione perduta per la
giustizia, comunicargli l’entusiasmo di avere una causa e degli
obiettivi. L’idea di partecipazione era alla base della libertà
degli antichi, che il liberalismo nascente ha sottratto in nome della
delega in bianco, di procedure sempre più lontane dominate dal
denaro (il riferimento allo stato della sedicente democrazia è
voluto) di un individualismo indifferente, egoistico ed egolatrico.
Non
possiamo partire dall’anima e dallo spirito, troppo feriti.
Ripartiamo dallo stomaco e dall’ovvio desiderio di avere diritti
sociali e potere decisionale. Dicevamo del “sistema degli oggetti”:
dobbiamo distinguere tra beni e merci. Secondo Maurizio Pallante,
merce è tutto ciò che può essere acquistato sul mercato; i beni
sono ciò che serve e dà senso alla vita. Alcuni possono essere
goduti e posseduti individualmente –la proprietà privata diffusa-
altri hanno, per la loro rilevanza, per l’enorme impatto sulle
nostre vite, una prevalente dimensione pubblica. Sono i “beni
comuni”, che devono essere sottratti al mercato, all’arbitrio e
al profitto.
Assistiamo
all’attacco ai fondamenti della vita: acqua, cibo, farmaci, salute,
conoscenza, fonti energetiche. Oggi è rivoluzionario pretendere che
siano restituiti alle concrete comunità, agli Stati, sottraendoli,
espropriandoli a chi ci ha derubato con false ideologie, promesse non
mantenute, veri e propri soprusi. Ed insieme ai beni comuni, il cui
elenco va aggiornato secondo momento e necessità, dobbiamo
riappropriarci del controllo – e del giudizio - sulle grandi reti
di comunicazione, sulle tecnologie che entrano nella vita e nella
carne, sui settori economici ed industriali di interesse generale.
Umanesimo
della libertà e del rispetto della persona umana – nelle varie
dimensioni individuali, familiari, comunitarie, professionali e
culturali in cui si dispiega- significa altresì proclamare la
sovranità dell’uomo. Ecco un altro momento fondante. La propaganda
avversa ci rinchiude nel soggettivismo per dominarci meglio, ma se
l’uomo, nelle formazioni sociali in cui organizza la sua convivenza
civile, non è sovrano, padrone di sé, del destino e delle scelte, è
uno schiavo.
Decolonizzare
l’immaginario dalle luci e dai miraggi indotti è il primo passo.
Il secondo è proclamare la sovranità, sottraendosi al ricatto di
chi, padrone di tutto, lo è anche delle parole. Il padrone
squalifica la volontà del servo attribuendo significati negativi
alle sue scelte, cambiando i significati o vietando le parole. Un
uomo – e un popolo- che non sono sovrani degradano a greggi,
passeggeri senza meta. La sovranità è la nemica assoluta del
globalismo proprietario che ci domina: perciò è screditata dai
servi a fattura; la sovranità è un grande principio generale che va
declinata e praticata nei vari ambiti della vita degli uomini e dei
popoli.
Per
Nicolò Machiavelli la sovranità di un popolo fattosi Stato si
esprime essenzialmente nella monetazione e in un esercito proprio.
Sovranità politica, dunque, garantita dalla capacità di difenderla
da ingerenze esterne, e sovranità finanziaria. Il paragone con la
realtà sconcerta, nella colonia Europa. Eserciti di mercenari
senz’anima, lontani dal popolo e soggetti al comando altrui, le
strutture Nato. La moneta è creata dal nulla da banche private,
straniere, anzi apolidi, le quali la prestano agli Stati dopo averne
rivendicato la proprietà. I partecipanti principali di Bankitalia,
Unicredit e Intesa San Paolo, sono terminali italiani di gruppi
esteri, e l’istituto di Via Nazionale è solo uno dei soci della
Banca Centrale Europea, anch’essa in mano ai poteri finanziari.
Quale
sovranità, quale libertà hanno Stati e popoli senza moneta emessa
dal potere pubblico, senza indipendenza per l’impossibilità di
svolgere politiche economiche autonome e senza orientare la spesa
secondo gli interessi popolari e nazionali? Si diventa prigionieri
della spirale del debito con i padroni del mercato, l’altra faccia
della finanza. E’ il tempo della governance, la parola che
esprime la spoliticizzazione: governo come semplice amministrazione
dell’esistente in nome e per conto di poteri non eletti. Ma non
c’erano la democrazia, il suffragio popolare, l’articolo 1 della
costituzione? (La sovranità appartiene al popolo).
Anticaglie
come la sovranità economica, quella energetica – con le
conseguenze che la guerra si è incaricata di evidenziare- e perfino
la sovranità alimentare. La nostra l’abbiamo svenduta alla PAC
(Politica Agricola Comune dell’UE) e adesso la invoca anche
Coldiretti, che in passato poco eccepì quando gli agricoltori erano
pagati per dismettere stalle, coltivazioni e distruggere raccolti.
Per vergogna – la carità di Patria di ieri- tacciamo sulla
sovranità culturale, polverizzata dall’inculturazione
dell’americanismo d’accatto, dall’abbandono di ogni uso e
costume nostro, dall’imbarbarimento linguistico che chiama green
pass il passaporto vaccinale, lockdown la chiusura del
paese e show room le esposizioni commerciali.
Senza
sovranità non c’è libertà e, a rigore, non c’è popolo né
politica. E’ ciò che vogliono i globalisti. Sorge dunque
un’esigenza, rivoluzionaria nonostante sia un semplice esercizio di
libertà e pensiero: mettere in discussione l’assetto di potere
tecnocratico e finanziario del mondo, il liberismo reale
globalizzato. Ci sono infinite altre modalità per organizzare
l’economia e i rapporti socio economici. Non è vero che “non c’è
alternativa”. Dobbiamo ricominciare a parlarne, lontani
dall’obbligo neoliberale, un’altra delle dipendenze a cui ci
costringe il Dominio per impadronirsi di noi, corpo e anima. Un
potere che agiva per seduzione e oggi ha ripreso, attraverso
l’autoritarismo e l’uso della pandemia, il vecchio metodo della
paura.
Abbandonare
la paura è l’altro grande gesto rivoluzionario, il più arduo ma
anche il più facile, se pensiamo che tra poco non avremo da perdere
che le nostre catene. Seneca disse a Nerone che nulla poteva su di
lui, giacché non aveva più paura. E’ la rivoluzione più grande:
vivere da uomini e non da pecore. La marcia comincia da un piccolo
passo, l’atto di volontà di prendere coscienza e porsi il più
grande obiettivo: cambiare il mondo a cominciare da se stessi.