di
Roberto PECCHIOLI
L
‘Italia è una causa persa. Cinque secoli fa Francesco
Guicciardini, uno dei grandi del pensiero politico europeo, parlava
del “particulare”, ovvero dell’interesse personale inteso nel
suo significato più nobile, la realizzazione piena della capacità
di agire a favore di se stessi e insieme della comunità e dello
Stato. La formula è da sempre accostata a una caratteristica
negativa del carattere italiano, il disinteresse per la dimensione
pubblica e comunitaria a favore della cura del proprio orticello
privato. La realtà ha dato ragione all’interpretazione più bassa
del “particulare “enunciato dallo storico fiorentino. In più,
assistiamo alla totale decomposizione del costume civile e morale del
nostro popolo.
Pochi
giorni fa si è consumata, in riva al lago di Garda, nell’inazione
della forza pubblica e nell’incapacità di reazione dei cittadini,
la violenza e l’illegalità di massa da parte di una torma di
giovani di origine straniera, una presa di possesso del territorio
con arroganza certa dell’impunità, a conferma della tesi dello
scrittore francese Laurent Obertone: le città e i quartieri
diventano ciò che sono i loro abitanti. Il degrado e la fine sono
già tra noi, nel silenzio istituzionale e nell’indifferenza
popolare, eccetto di chi si trova personalmente coinvolto nei fatti
più gravi.
La
domenica elettorale del 12 giugno ha fornito nuovi argomenti a chi
non crede più possibile il riscatto civile ed etico della nazione. A
Palermo, la quinta città d’Italia per popolazione, i seggi
elettorali sono stati bloccati per ore in quanto centinaia di
presidenti e scrutatori non si sono presentati al loro posto. La
ragione, pare, è che in serata era in programma la partita destinata
a sancire la promozione in serie B della locale squadra di calcio.
Inutile
chiedere punizioni o lamentarsi per il declino del senso del dovere e
di responsabilità degli interessati. Il pesce puzza dalla testa e i
palermitani affezionati alle sorti della squadra rosa (ma chissà che
non vi sia qualche altra ragione meno confessabile) non sono gli
italiani peggiori. Sono lo specchio di questa nazione, qui e adesso,
il contrario del giovane capitano di mare di Conrad, che nella
responsabilità e nella dura accettazione dei suoi doveri attraversa
la “linea d’ombra” e diventa uomo. Pur disoccupati, precari e
sotto occupati, molti rinunciano volentieri a un servizio
discretamente pagato, di rilievo pubblico, infischiandosene non delle
conseguenze personali (non ci saranno) ma del fatto di infliggere una
ferita alla tanto amata democrazia nel suo momento fondante,
l’espressione -si dice così, nonostante tutto- della volontà
popolare.
Sono
in gran parte giovani, educati a vivere la vita come una sequenza di
vacanze e di intrattenimenti, uno dei quali è la festa della squadra
del cuore. Come rinunciarvi? Del resto, vacanza significa, in
origine, assenza. Si sono assentati da un piccolo, ma importante
dovere civico accettato e retribuito. Scommettiamo che hanno in tasca
i soldi per il divertimento, il tatuaggio alla moda o la chiassosa
serata con gli amici. Nessuna colpa: sono come il potere li ha
plasmati senza reazione dei genitori, degli educatori, dei cosiddetti
intellettuali.
Stupisce
un po’ – a pensare male si indovina sempre- che la prefettura,
cioè polizia e governo, si sia fatta cogliere impreparata. Non ne
sapevano nulla, troppo impegnati a stilare liste di dissidenti alla
narrazione governativa su guerra e pandemia e a compulsare l’elenco
degli ultracinquantenni renitenti all’ iniezione. Gli scrutatori
palermitani erano al mare e poi allo stadio, ma con loro c’era un
popolo intero, anch’esso assente, in vacanza dalla storia e
dall’impegno civile.
Alle
elezioni amministrative si è presentato meno della metà del corpo
elettorale, per cui i sindaci più votati sono l’espressione di un
concittadino su quattro. Terribile il dato dei referendum: quattro
italiani su cinque indifferenti. Un popolo chiuso per cessata
attività. E sì che i quesiti – complicati, ma non più di altre
volte - riguardavano l’amministrazione della giustizia. Tutti, a
parole, si lamentano delle disfunzioni, dei processi lenti, dello
strapotere delle procure, della politicizzazione della giustizia
portata all’attenzione generale dal caso Palamara.
Eppure,
ancora una volta, silenzio, accettazione dello status quo,
fastidio per doversi disturbare a pronunciare un sì o un no.
Vittoria schiacciante di quello stesso potere che la maggioranza, a
parole, afferma di disprezzare. Ci riempiamo la bocca di
partecipazione diretta, cittadinanza attiva, società civile ed altre
amenità, ma al dunque, tutti a casa. Abbiamo ciò che meritiamo;
almeno, venga proibito per decreto – ne sono emanati a bizzeffe- il
lamento inane di un popolo morto, come ci chiamava il Lamartine,
abitatori casuali di una semplice espressione geografica, secondo il
Metternich.
Chi
non è andato a votare alle elezioni amministrative ha abbondanti
ragioni: città maltenute, servizi pubblici e sociali scadenti e
clientelari, classe politica generalmente di livello imbarazzante.
Per di più, negli ultimi due anni e mezzo, il rapporto tra il potere
e la gente si è ulteriormente decomposto: obblighi, divieti, servizi
interrotti o rimandati sine die- come sa chi aspetta
interventi chirurgici- un autoritarismo di bassa lega che ha
ulteriormente convinto i più a interessarsi unicamente del
“particulare”.
Chi
va a votare lo fa - a parte una minoranza sempre più sparuta di
fedelissimi dell’’uno o dell’altro schieramento- per interesse
o clientelismo. E l’interesse, inevitabilmente, premia il potere,
il che spiega il successo di molti sindaci in carica. Marcello
Veneziani, a proposito di questo degrado individualistico e briccone,
parlò di una nuova divinità italica, il dio Kazzimiei (perdonate il
turpiloquio), gran patrono dell’Italia peggiore, che sembra
diventata l’Italia tutta, quella ufficiale e quella quotidiana,
della strada.
Intanto,
assoluzioni generalizzate chiudono la vicenda delle bancarotte degli
istituti di credito. Le sentenze si rispettano, ingiunge il potere
con l’indice puntato e le sopracciglia aggrottate. E sia; le
responsabilità penali non sussistono, ma allora le banche sono
cadute da sole, per un capriccio del destino, o magari per
l’incapacità di chi le guidava. Un altro segnale di degrado delle
classi dirigenti: la causa dell’Italia è persa e lottare diventa
una specie di lite temeraria.
Vero
o meno che fosse – e temiamo che di leggenda si trattasse- una
volta ci consolavamo dicendo: italiani brava gente. Però le madri
uccidono i figli e questi i genitori. Il caso recentissimo di
Catania, la giovane madre assassina della sua creatura, ci mette
davanti a un'altra stazione della Via Crucis. Generazioni
fragilissime, incapaci di responsabilità e di fare fronte alla vita,
per le quali i figli, quando si ostinano a nascere, sono un fardello,
un ingombro, non una gioia e una benedizione. Sempre, nei casi di
cronaca diventati quotidiani, la cornice è quella di famiglie
inesistenti, polverizzate, e poi disinteresse, abbandono. Silenzio
delle istituzioni, interrotto da eccesso di protagonismo quando
diventa obbligo ideologico punire i padri e lacerare ancor più gli
ultimi brandelli di tessuto familiare.
Dappertutto,
lamenti sterili e docilità ai diktat governativi, non solo
sanitari: il simbolo di sottomissione, la maschera, ha agito nel
profondo della gente. Si avverte non rassegnazione, ma
un’indifferenza rancorosa che non sa farsi movimento, volontà,
leva di riscatto. Il potere ci ha condizionato in maniera perfetta,
dal suo punto di vista. Nelle sfide - si fa per dire- amministrative
non abbiamo ascoltato programmi e tanto meno progetti distinti, solo
la stanca ripetizione dell’elenco dei problemi irrisolti. Non c’è
alternativa, disse una volta Margaret Thatcher e l’abbiamo presa in
parola, purtroppo. Abbiamo ascoltato, a proposito dei referendum,
virtuosi pistolotti di buoni cittadini che giustificano la loro
vacanza-assenza con il fatto che sono problemi di cui si deve
occupare la politica. Altri dicevano che era troppo difficile capire
il senso dei quesiti. Strano, in un paese in cui quasi tutti sono
diplomati e laureati.
Come
è difficile, persino quando c’è l’opportunità, prendere in
mano il proprio destino e decidere, partecipare. Ma già, quella era
la democrazia tramontata degli antichi. Quella dei moderni è lasciar
fare, lasciar passare, a meno che non siano in gioco le questioni del
dio Kazzimiei. Troppe volte ricordiamo un lenzuolo sdrucito appeso
accanto a una lisa bandiera arcobaleno alla finestra di una scuola di
montagna: lasciateci in pace. Ossia, non disturbate il nostro sonno
narcotico, la nostra esistenza di Peter Pan interrotta a orari
definiti dal baccano, dallo sballo, dalle vacanze. Siamo un popolo
vacante di disertori del destino. Anzi, rifiutiamo tenacemente di
avere un destino e di modellarlo con le nostre mani. Ci pensi qualcun
altro. Sempre qualcun altro. Ricordiamo un conoscente munito di porto
d’armi, sostenitore delle ronde notturne. Richiesto di farne parte,
rifiutò dicendo di avere molti impegni. Un italiano esemplare, un
cultore del “particulare”.
Peraltro,
il rapporto di fiducia con le istituzioni è rotto in maniera
irrevocabile per colpe delle classi dirigenti. L’ultimo pessimo
esempio è il blocco del bonus edilizio per le ristrutturazioni, un
duro colpo per un comparto economico importantissimo. Come dare
fiducia a uno Stato che si rimangia la parola, fornendo l’esempio
pessimo a tutti noi, moralmente autorizzati a fare lo stesso, ogni
volta che possiamo, in barba a stucchevoli lezioni di “legalità”
a uso di scolaresche annoiate?
Allo
stesso modo, come dare fiducia a noi stessi, diventati delatori e
zelatori di un sistema opprimente di cui la mascherina d’ordinanza
è diventata un simbolo senza speranza del potere di Roberto
Speranza, il ministro uscito dalla London School of Economics, fucina
dei funzionari di rango del sistema globalista.
Se
è vero che ognuno è fabbro del proprio destino, quello della
popolazione stanziata in questa piccola penisola affacciata sul mare
Mediterraneo è la servitù. Nulla di nuovo, come sapeva
Guicciardini, testimone, al tempo suo, delle scorrerie straniere nel
Bel Paese. Gli italiani, osiamo affermarlo, amano le loro catene,
convinti che la straordinaria furbizia di cui si sentono dotati- la
scaltrezza plebea del servo- li metterà al riparo dalle peggiori
conseguenze. Inutilmente la storia ha dimostrato la vacuità di
questa radicata credenza. Si ama, nonostante tutto, anche se respinti
ogni giorno, il luogo natio, la sua lingua, la faccia della gente, il
profilo dei monti e l’orizzonte delle pianure, l’odore del mare,
le mura e gli archi. Si ama, in definitiva, una Patria che non c’è
più, un’idea smarrita di Italia. Ma l’Italia in carne e ossa,
che vive e veste panni, quella è una causa persa.