di
Roberto PECCHIOLI
I
novissimi, come sanno i superstiti cattolici, sono le cose ultime, il
destino finale degli uomini: la morte, il giudizio, il destino eterno
di gloria o dannazione. Spenta la narrazione religiosa, in crisi la
ragione illuministica, l’uomo d’Occidente avanza – o arretra –
in uno strano nichilismo nutrito di hybris, l’arroganza che
rifà il mondo, creazione malriuscita. Si inoltra nelle paludi
inesplorate del superamento di se stesso, verso il post e il trans
umano. Sono gli inquietanti novissimi, la rivelazione finale,
l’Apocalisse dell’Homo deus, figlio tecnologico
extrauterino dell’antiquato homo sapiens.
I
Novissimi del mondo capovolto sono la fine dell’uomo-persona, la
sua ibridazione con la macchina e la successiva trasformazione in una
specie nuova, transumana, che da un lato raddrizza il legno storto
delle natura imperfetta (antica illusione gnostica) dall’altro
coltiva il sogno faustiano di un’equivoca immortalità nella mente
alveare tecnologica, una sorta di somma, ultimo rifugio o tecno-anima
di ciò che resta dell’uomo di ieri. Per farci accettare e
desiderare questo destino distopico, hanno dovuto farci dimenticare
tutto ciò che richiamava la legge naturale. L’uomo non è più
persona, ossia un essere con coscienza di sé e senso morale: dopo
essere transitato alla categoria di individuo (un essere irripetibile
ed unico, sì, ma dolorosamente solitario e senza radici), poi
derubricato a soggetto, passante, viandante casuale dell’esistenza,
giunge allo stadio finale, componente di uno sciame.
Ha
approfondito il tema il pensatore tedesco coreano Byung Chul Han, per
il quale lo sciame è la condizione dell’uomo del secolo XXI. Non
più folla- neppure solitaria come per David Riesman- e neanche
massa. Lo sciame è una molteplicità di soggetti che, pur avendo la
possibilità di relazionarsi e comunicare attraverso la Rete, sono
atomi solitari. La differenza con l’uomo-massa è che all’interno
di una massa l’uomo perde la sua individualità, ma resta
all’interno di un insieme comune. Nello sciame, che si muove
secondo ritmi e itinerari sconosciuti ai singoli componenti, ciascuno
resta solo, un puntino in corsa in una direzione che ignora. Lo
sciame digitale non è una folla, non possiede un’anima o uno
spirito. L’anima raduna e unisce: lo sciame è una macchia di
individui isolati.
La
perdita del concetto di persona è particolarmente visibile in una
delle tappe fondamentali della de-umanizzazione della nostra specie,
l’accettazione, ormai acquisita, che l’aborto sia un diritto
umano fondamentale. L’assunto fondamentale è che la donna ha il
diritto di decidere sul proprio corpo. Tuttavia, sebbene l'embrione
sia alloggiato temporaneamente dentro di lei, la questione non è
individuale: entra in gioco una nuova vita. Il nocciolo della
questione sta nel determinare se il nuovo essere sia o meno una
persona. Per alcune culture, la distinzione è tra "esseri
viventi della specie umana" e "persone".
Il
nuovo individuo in fieri è geneticamente diverso dalla madre
che lo ospita: questo sa la scienza. L’idea di "persona"
è altro. Si tratta di un concetto filosofico associato a una serie
di caratteristiche e attribuzioni come la dignità intrinseca o la
titolarità di diritti e doveri. Se l’aborto è un diritto umano,
significa che la vita nascente non è più un valore in sé, è a
disposizione e ciò che cresce all’interno del corpo femminile è
un’escrescenza, un grumo di cellule che può essere rimosso a
piacere, anche senza il consenso dell’altro interessato, il padre
cui appartiene la metà del patrimonio genetico dell’esserino.
Ma
se la vita non è il più intangibile dei valori, è legittimata ogni
barbarie, dall’omicidio agli abusi più turpi sino a una
sottocultura che incita all’autodistruzione e all’auto
soppressione. Più si restringe la definizione di persona, più
estese sono le categorie di esseri umani esclusi dalla dignità, dai
diritti, dalla vita. Il problema di decidere chi è o non è una
persona non è nuovo. L'idea di vite umane non considerate tali in
tutta la pienezza attraversa l’intera storia umana. Più il
concetto di persona declina, più la vita è a disposizione di
qualcuno. I criteri possono essere innumerevoli e sempre arbitrari.
L’esito
è la cultura dello scarto, che fornisce patenti di umanità, di
dignità, di vita solo ad alcuni, negandole ad altri. Il primo
diritto umano è la vita. Saltato quello, il cammino mortuario è in
discesa. Oggi arriviamo a legalizzare l’aborto sino al nono mese di
gravidanza e a ragionare seriamente sull’infanticidio, detto
pudicamente aborto post natale. In nome della vita “degna di essere
vissuta”, decidiamo al posto di un altro essere. E’ la rupe
tarpea postmoderna o il monte Taigeto di Sparta, da cui venivano
precipitati i neonati “imperfetti”. L’uso può essere esteso a
chiunque - in qualsiasi fase dell’esistenza- non corrisponda ai
canoni (e agli interessi) del potere.
L’argomento
è, come si dice oggi, divisivo. E divisione sia, ma non divieto di
dibattito. Meta, l’ex Facebook, ha proibito a dipendenti e
collaboratori di affrontare il tema del diritto alla vita nelle chat
interne dell’azienda. Avanza la peggiore lezione di Wittgenstein:
“di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. E'
un’autorizzazione al silenzio per intere categorie del sapere, le
quali, invece, hanno un disperato bisogno di essere comunicate. La
cultura dello scarto diventa irrefrenabile allorché ragiona in
termini di soppressione legale degli esseri umani anziani, malati, o
fragili, moralmente o psichicamente. La chiamano eutanasia (buona
morte) o suicidio assistito, mentre George Soros, con maggiore
franchezza, finanziandola, la definì “Progetto Morte”.
L’essere
umano (marchiato, sorvegliato da remoto, trasformato in codice a
barre o QR) non conta nulla, non è più nulla, in ossequio
all’Agenda 2030 di Davos e dell’ONU. Impressiona, nei Novissimi
postmoderni, il destino del corpo umano defunto. Il feto è trattato
come rifiuto misto (oh, la raccolta differenziata!) oppure diventa
materia prima nell’ industria estetica e farmaceutica. Per i
cadaveri, secondo un influente professore svedese, una soluzione è
il cannibalismo: l’umanità saprofita. In alcuni stati Usa si può
scegliere, dopo morti, di diventare compostaggio.
Il
rispetto di noi stessi, della dignità della specie attraverso il
culto dei defunti, le tombe e i cimiteri, è crollato ai minimi dal
tempo in cui Antigone sfidò il potere del re di Tebe per dare
sepoltura al fratello Polinice, gettato in pasto agli animali. Tutto
è funzionale alla fine non solo di una lunghissima civiltà, ma di
un’antropologia. Per Giovan Battista Vico ogni civiltà è
caratterizzata da tre invarianze universali: qualche forma di culto
religioso, il rispetto dei morti e nozze fastose, il preliminare per
la riproduzione della società. Vengono i brividi se paragoniamo
l’antropologia culturale del pensatore napoletano alla realtà di
oggi. L’uomo contemporaneo sembra insensibile a ogni appello: è
stato denaturato e gli è imposta una conoscenza strumentale,
settoriale, esclusivamente tecnica. Non possiede più gli strumenti
culturali per formulare giudizi, produrre idee, ribellarsi alla
riduzione a materiale umano.
Tutto
nasce dal rifiuto della legge naturale, il tentativo superbo
dell’intelligenza umana di “andare oltre”, il filo antico della
cultura gnostica, sfida continua ai limiti e alla natura. La parola
sfida, etimologicamente, indica il non fidarsi, non accettare ciò
che è. Anziché lasciarsi interrogare dalla cose, la volontà di
dominarle. La prima evidenza è: “le cose sono”. La cultura
dominante – non ci stanchiamo di ripetere che è sempre la cultura
della classe dominante – ha deciso che non è più così, arrivando
ad abolire la realtà.
Il
sociologo Giuseppe De Rita descrisse il presente con l’immagine dei
coriandoli, pezzetti di carta colorata che svolazzano secondo il
vento e non servono a nulla se non a un breve allegria da ultimo
ballo sul Titanic. Il fenomeno che più dovrebbe colpire è
l’insoddisfazione, l’infelicità, l’ansia e la confusione che
hanno colto l’umanità occidentale, nonostante l’enorme quantità
di mezzi materiali. E’ la prova del carattere negativo di una
visione in cui “andare oltre” è abolire la realtà, la verità,
l’evidenza.
Nelle
Memorie del Sottosuolo, Dostoevskij fa dire a un personaggio di quel
mondo sordido ed angosciato: “sono un uomo malato, sono un uomo
cattivo. Credo di avere mal di fegato. Il fegato mi fa male e allora
avanti, che mi faccia ancora più male”. Introduciamo nel corpo e
nell’’animo quantità crescenti di ciò che ci fa male, in
un‘ansia nichilistica senza posa, evidente nel mondo fluido,
liquido, gassoso; un gas che nel mondo invertito, anziché salire,
scende verso il basso. L’uomo ha bisogno di stabilità, non di
nomadismo morale ed esistenziale. Eppure, siamo andati oltre negando
perfino che “maschio e femmina li creò”, una ribellione
sconcertante a Dio – per chi ci crede- o alla natura.
E’
uscito in Spagna un libro diventato un caso editoriale. Si intitola-
traduciamo alla lettera- “Nessuno nasce nel corpo sbagliato:
successo e miseria dell’identità di genere “. I suoi autori,
José Errasti e Marino Pérez Alvarez, sono docenti di psicologia
orientati a sinistra, e l’autrice della prefazione, Amelia
Varcàrcel, è una filosofa femminista. Per aver smontato
scientificamente da posizioni progressiste le tesi assurde di chi fa
credere che milioni di persone soffrano di disforia di genere, ossia
che il loro corpo e aspetto non corrispondano al rispettivo sentire
interiore, sono stati attaccati da gruppi di esagitati e hanno subito
aggressioni fisiche. Il motivo è precisamente il rifiuto della
realtà, l’incapacità di distinguere reale e virtuale e
soprattutto la tendenza a vietare il dibattito.
Il
drammaturgo Bertolt Brecht, che pure era sostenitore del governo
comunista della Germania Est, scrisse, a proposito delle rivolte
operaie: “Il Comitato centrale del partito ha deciso: poiché il
popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo. “Il
nuovo Comitato Centrale sono i promotori della cultura della
cancellazione (l’oligarchia tecno finanziaria occidentale) e il
popolo è ingannato e manipolato più che mai. Non esistono maschi e
femmine, incede una specie di androgino cangiante secondo orario,
umore e capriccio.
Per
Errasti e Pérez, psicologi clinici, la questione è chiara: nessun
errore nell’allineamento dei cromosomi. Farlo credere è un
inganno, una falsa credenza quasi metafisica. Esistono, poiché
l’uomo è un misto di natura e cultura, comportamenti che si
apprendono e stereotipi, anche sessuali, ma nulla a che vedere con la
fluidità di genere, o la disforia. E’ criminale sottoporre
adolescenti e addirittura bambini a trattamenti chimici invasivi:
nella stragrande maggioranza dei casi basta una buona attenzione
psicologica e il rispetto per le sofferenze autentiche. Del resto,
concludono gli autori, molti/e non avrebbero dubbi sulla propria
identità sessuale se non fossero sottoposti a un bombardamento
mediatico incessante.
La
responsabile per l’uguaglianza del partito laburista britannico
parla di “sesso assegnato alla nascita”. Una barbarità, una
posizione irrazionale e falsa, che nega ciò che vedono gli occhi. L’
immersione mediatica proclama che unica provvisoria verità è ciò
che uno sente, e che le sensazioni soggettive sono indiscutibili.
Certe teorie non vengono confutate in quanto elaborate nelle
università finanziate dalle oligarchie di potere. Il cerchio si
chiude: i novissimi del mondo capovolto vengono creduti senza
contraddittorio perché sono parte di un’agenda antropologica
precisa. Errasti arriva a dire che l’ideologia gender e
queer (bizzarro, strambo) sono le nuove religioni laiche.
Se
i sacerdoti sono docenti e intellettuali, ispiratori e ufficiali
pagatori sono i soliti: i gran maestri del globalismo, della
privatizzazione del mondo, interessati al dominio. L’uomo è
imperfetto, antiquato, e fastidiosamente incline alla libertà: va
formattato, resettato, la sua essenza ridotta alla dimensione
zoologica. Per gli illuminati, le élite, ci sono l’ibridazione con
la macchina, l’intelligenza artificiale, il trasbordo verso una
specie nuova, inventata dall’ homo deus: la transumana
futura umanità.