COMUNICATO di IUSTITIA IN VERITATE
Eutanasia
la morte del diritto
Ormai
il progetto di legge sull’eutanasia è vicino all’approvazione,
con consenso
probabilmente
larghissimo.
È
un fatto che viene
presentato dai suoi sostenitori
con il solito mantra
del progresso e
dell’allineamento
con paesi più culturalmente
avanzati del nostro. Ciò dà per risolti una volta per
sempre
una quantità di
interrogativi capitali sulla condizione umana e sul senso della vita
associata
e
del diritto, ricattando psicologicamente ed intellettualmente chi
quegli interrogativi non
sia
disposto ad
archiviarli ed anzi comprende l’impossibilità
di ignorarli.
Tale
spostamento e definizione, diremo perimetrazione
del campo della discussione, viene quindi
dissimulato
dietro un registro
linguistico in cui la solenne declamazione di principi di difesa e
di
attenzione
affettuosa dello stato verso il cittadino, deforma e distorce la
verità delle
cose.
Così si
sposta indefinitamente la possibilità di cogliere la posta in
gioco e, quindi, anche
di
instaurare in
proposito un serio ed approfondito, sia pur
aspro, confronto.
Le
tecniche di persuasione possono così avere campo libero,
un campo i cui vertici potrebbero
essere
identificati come la lusinga, la seduzione,
il ricatto e la minaccia.
Non
è qui il caso di richiamare il fatto che l’area
della propaganda, che così si delinea, coincide con
quella
dell’esercizio del
nudo potere, con tutto ciò che questo si trascina dietro.
Questa
propaganda, però, non sarebbe
tanto efficace, se non
trovasse una platea già stordita
dalle
promesse di
una vita senza sofferenza, che lo Stato promette di assicurare
con il suo apparato legale
ed
amministrativo.
Come
si sia arrivati a ciò
è storia lunga, che non si può qui ripercorrere, ma il risultato è
un essere
umano
ridotto alle sue pulsioni, che si affermano come misura della sua
autonomia e
libertà,
riscrivendo
ab imis i
principi della civiltà giuridica.
La
nemesi è che un tale essere
umano che si autoidentifica come cittadino prima
che come essere
umano,
è un minore perenne consegnato per intero alle provvidenze
di “mamma” Stato e la prima
cosa
che chiede non è la tutela del suo
diritto originario di poter affrontare in matura e coraggiosa
libertà
tutte le evenienze
della sua vita, ma di essere sgravato da ogni difficoltà.
Il
prezzo che lo Stato
chiede è la totale sottomissione ed il cittadino in irrescattabile
condizione di
minorità
non chiede altro, a questo punto, che desiderarla con tutte
le sue forze.
La
sofferenza è il punto cruciale di questa degradazione dello
humanum e
delle istituzioni giuridico-
politiche,
in quanto è inaggirabile sfida
a fare i conti con la realtà ed a crescere nella propria statura
di
esseri liberi e
responsabili, di esseri che in maniera incomprimibile
si interrogano e cercano
il
senso della
loro vita.
La
società ipnotizzata e anestetizzata richiesta
dal rifiuto di affrontare la sofferenza, è ormai in
avanzata
fase di realizzazione.
La
depenalizzazione delle pratiche
di aiuto al suicidio, che in realtà
si traducono in un
omicidio
autorizzato e tutelato dallo Stato, è un passo
di tale “progresso” verso il nulla.
È
questo il terreno culturale e spirituale
su cui cresce, fino rivendicare qualificazione e tutela
giuridica,
la pretesa di essere
aiutati a morire e la facoltà di aiutare a morire e qui sta la
posta in
gioco
con questo disegno di legge.
In
continuità con la questione di fondo del modo di comprendere e
vivere la sofferenza e
la morte,
la
legittimazione e
facilitazione giuridica della morte volontaria
pone l’interrogativo se si possa
immaginare
un nesso positivo tra diritto
e morte.
Il
diritto non può non occuparsi della morte, perché fa parte
della vita, ma il problema è
in quali
limiti ed
in che modo se ne possa
e debba occupare. Il
diritto penale, il diritto civile, il diritto
amministrativo
si occupano della
morte, di disciplinarne le conseguenze e di prevenirla punendo chi
la
causi ingiustamente.
Può
però, il diritto fare proprio l’atto diretto di infliggere
la morte?
Ora,
la relazione tra diritto e morte è, ictu
oculi, di opposizione, in quanto
il diritto è innanzitutto
una
forma di vita, che prende consistenza in relazioni
proporzionate ed equilibrate tra gli
individui
e tra questi ed il contesto ordinamentale
in cui si trovano.
L’apparato
legale ed amministrativo è subordinato
e strumentale a tale finalità primaria e definitoria
del
diritto, per cui non
può contraddirla né sostituirsi ad essa.
Ciò
impone a chi ha la responsabilità
di custodire ed amministrare il diritto, di intervenire nel modo
più
energico e misurato per impedire che tale prenda corpo ciò che ne
nega l’essenza, pena
una
contraddizione
che conduce all’autoannientamento.
In
altri termini, l’inerzia di
chi ha le leve della cura, mediante il diritto, del bene
comune, ossia
dell’ordine
che consente ad una società di vivere, significa
l’autonegazione del diritto
e la
dissoluzione
della convivenza civile, lo sgretolamento
della società.
L’omicidio,
l’atto che causa intenzionalmente la morte
altrui, frattura e distrugge l’ordine
primordiale
che rende possibile la società
e sconvolge il senso della convivenza umana.
Si
potrebbe aggiungere che, se
il diritto è nella sua essenza proportio,
è del tutto escluso
che
possa
ammettere, sotto qualsiasi
forma e qualificazione, l’atto
di causare la morte di chi
quella
proportio non
abbia in nessun modo infranto.
La
morte, infatti, è la nientificazione di uno dei termini della
proportio, il
che significa o che uno
dei
due rapporti che costituiscono la proportio
va a zero
oppure a infinito, squilibrando
insanabilmente
la proporzione.
Nel
caso della morte
naturale si apre il campo delle domande ultime e decisive sulla
condizione
umana
e al diritto, che non può certo varcare i confini della morte,
rimane la regolamentazione
delle
sue
conseguenze materiali, patrimoniali ed amministrative.
Nel
caso della morte intenzionalmente ed ingiustamente inflitta,
il campo del diritto viene
fratturato
e se la frattura non viene ricomposta
indirettamente o su di un altro piano, quel
campo
si inclina verso la sua
dissoluzione.
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Perché
avviene ciò? Perché qualcuno si è eretto a signore
della vita altrui e ha così infranto ogni
proporzione,
qualcuno si è eretto a
dominus del
diritto e della vita
associata.
Senza
entrare nella dimensione
religiosa del discorso, ciò significa consegnare
il campo della vita
e
della convivenza alla legge del più forte e allo strapotere della
tecnica, non
importa se questa
sia
una tecnica sanitaria e palliativa, non
importa se l’infantilismo
del cittadino desidera tale
forma
di benevolenza e si sottomette volentieri
alle sue pratiche filantropiche.
Fondere
la giustizia nel crogiuolo del potere
significa introdurre una contraddizione
insanabile
e distruttiva; questa ha
una potenza di dissoluzione inarrestabile.
Nulla
possono le “buone” intenzioni,
vere o immaginarie che siano, nulla può la volontà, sia
individuale
che collettiva. In questa
linea, non appare casuale che il disegno di legge sull’aiuto
al
suicidio, in
realtà sulla depenalizzazione dell’omicidio del
consenziente, stia maturando
in tempi di
violenza
e di isteria sanitaria, in cui moltissimi
sembrano non desiderare altro che il conformarsi
alle
disposizioni governative.
Qualche
nota tecnica sul disegno di legge: il testo unificato delle varie
commissioni parlamentari
che
se ne sono occupate e che verrà sottoposto all’Aula,
recita: “Disposizioni in materia di morte
volontaria
medicalmente assistita”.
Risaltano
all’aggettivazione della morte, prima come volontaria e
quindi come
medicalmente
assistita.
La morte può essere un atto volontario?
Gli
infiniti omicidi e la stessa pratica del suicidio sembrano mettere in
ridicolo la domanda.
A
guardare meglio, però, si nota che la volontà umana può
adottare dei mezzi per
facilitare o
causare
la morte, ma la morte rimane un evento
fuori dalla sua portata. Così come, all’estremo
opposto,
l’uomo può manipolare
indefinitamente l’inizio della vita, ma non la può in nessun
modo
creare
ex nihilo.
La
morte non può essere
direttamente voluta, ossia specificare
l’atto di volontà che la intende, in
quanto
non si può volere il nulla.
Se
si ammette una vita oltre la soglia della morte, tutto ciò che oltre
quella soglia ci
sfugge.
In questo
senso la morte rimane
un mistero inviolabile e non è
certo il diritto a poterne
sciogliere
i nodi: l’ordinamento che pretende di farlo semplicemente
deraglia dal suo senso, dai
suoi
fini, abusa dei suoi stessi mezzi.
Non
a caso il disegno di legge aggiunge subito l’assistenza
medica.
Così
facendo la morte viene subordinata ad un intervento tecnico,
qualificato verbalmente
come
“assistenza”.
Si
noti che, in tal modo, si segna anche la fine
della medicina, in quanto quella “assistenza” non è
certo
il frutto di una valutazione
clinica e di un conseguente atto terapeutico, ma registra la
volontà
del
malato e la attua con una qualche tecnica di rottura dell’integrità
biologica, sia pur
ormai
profondamente
minata dalla malattia, del “paziente”.
È
un intervento che interrompe
il funzionamento di organi o lo svolgimento di processi
vitali.
Ancora una
volta, trionfa il nulla, ma il nulla rimane nulla.
Insomma
qualificare la morte volontaria medicalmente assistita come
decesso cagionato da un
atto
autonomo,
sembra una forzatura inaccettabile dei
concetti e della realtà delle cose.
Di
conseguenza, il nulla partorisce la menzogna.
Aggiungere
che, così, si pone fine alla propria vita in modo volontario,
dignitoso e consapevole, fa
dipendere
la qualità umana e morale dei
momenti ultimi della vita da un intervento anestetico, ossia
dalla
cancellazione dei presupposti
stessi della consapevolezza.
La
dignità, termine
peraltro ambiguo e indeterminato, viene appesa alla tecnica, alla
tecnica della
morte
che un qualsiasi assassino “compassionevole” sa usare.
Direi
che l’atto eutanasico
segna anche l’autoestinzione della medicina come
arte che il compito
divino
di alleviare la sofferenza.
Il
richiamo alla qualità della
vita non fa, oltre alla sua indeterminatezza, che dilatare lo
sfalsamento
dei
piani per cui si fa coincidere un qualcosa che è in sé un tutto,
come la vita di un
essere vivente,
con
la eventuale somma dei suoi attributi.
È
chiaro che, in tal
modo, viene negato funditus
il diritto di vivere, che
residua solo come il risultato
di
una sorta di accreditamento sociale, culturale e psicologico;
insomma, una vita a punti.
Non
solo quanto c’è di
più sacro, dal punto di vista dell’esistenza
nel tempo, viene messo nelle
fredde
mani della burocrazia statale
o in genere sanitaria, le mani quelle di un contabile per cui
tutto
è misurabile.
Il
riferimento, enfatico, all’adeguato sostegno sanitario,
psicologico e
socio-assistenziale alla
persona
malata e alla famiglia, sembrano
a questo punto solo delle maschere dell’espropriazione
totale,
a carico dell’uomo
che soffre e lotta di fronte al muro ultimo della sua vita ed a
carico dei
suoi
cari, di tutto ciò che, alla vita stessa, dà un senso ed un
valore inestimabile.
Gli
interrogativi sollevati
dalla legalizzazione dell’omicidio del consenziente
sarebbero ancora
tanti;
basterebbe,
però, prendere sul serio quelli esposti per
capire come così non solo non si rende più
umano
il momento del trapasso,
ma ci si muove
velocemente verso l’eutanasia di una intera civiltà.
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