Mons. Viganò
09 maggio 2022 Riflessioni di Mons. Viganò sulla riforma della Settimana Santa del 1955 sotto Pio XII Riprendiamo dal sito francese Medias-Presse-Info questa dichiarazione di Mons. Carlo Maria Viganò sullariforma della Settimana Santa Su richiesta di un sacerdote della Tradizione, abbiamo proposto al Vescovo Carlo Maria Viganò di raccontarci cosa pensasse della riforma della Settimana Santa promulgata sotto Pio XII il 16 novembre 1955 dal Decreto Maxima Redemptionis nostrae Mysteria (riforma già avviata in merito al Sabato Santo, ad experimentum, nel 1951).
"Il Novus Ordo dovrebbe essere semplicemente abolito e bandito"
Concordo con lui sul fatto che essa può effettivamente considerarsi una sorta di ballon d’essay con cui gli artefici della successiva riforma conciliare hanno introdotto tutta una serie di modifiche – a mio parere del tutto opinabili ed arbitrarie – all’Ordo Majoris Hebdomadæ fino ad allora in vigore. Direi anzi che queste modifiche possono essere apparse quasi innocue, ancorché cervellotiche, perché la mens che le aveva partorite non si era ancora palesata né con la riforma di Giovanni XXIII né tantomeno con quella ben più devastante inaugurata dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium e poi ulteriormente esasperata dal Consilium ad exsequendam; ma ciò che per un parroco del 1956 poteva sembrare una semplificazione dettata dalle esigenze di adattare la complessità dei riti della Settimana Santa ai ritmi della modernità – e che probabilmente fu presentata per tale allo stesso Pio XII, tenendone nascosta la portata dirompente – acquisisce ai nostri occhi ben altro senso, poiché in essa vediamo anzitutto all’opera la disinvolta mentalità sfrondatrice dei modernisti e degli allievi del mai abbastanza deprecato rénouveau liturgique; e in secondo luogo perché riconosciamo nelle scelte di presunta semplificazione delle cerimonie la stessa impostazione ideologica delle più ardite innovazioni del Novus Ordo. Infine, tra i personaggi che fanno capolino in quella riforma compaiono i protagonisti della riforma conciliare, promossi a più alti incarichi proprio in virtù della loro notoria avversione alla solennità del culto: è difficile pensare che quanto essi avviarono tra il 1951 e il 1955 non fosse concepito come primo passo verso gli stravolgimenti portati a compimento meno di vent’anni dopo. Certo, l’aria che si respira in certe parti del rito di Pio XII – penso al Pater noster recitato dal celebrante e dai fedeli, ad esempio – è la stessa che ritroviamo nel Novus Ordo: vi si percepisce quel “qualcosa” di estraneo, di innaturale che è tipico delle opere che non sono ispirate dal Signore e che sono palesemente umane, intrise di un razionalismo che nulla ha di veramente liturgico ma che puzza di quella presunzione gnostica che giustamente Pio XII condannò nell’immortale Enciclica Mediator Dei. Desta stupore che quegli stessi errori provvidenzialmente condannati nel 1947 siano riusciti a riemergere proprio nella riforma che egli promulgò: non dimentichiamo però che il Pontefice era in età avanzata e molto provato nel fisico e nell’animo dal recente conflitto mondiale; includere Pio XII nell’elenco dei demolitori della Tradizione sarebbe quindi tanto ingiusto quanto ingeneroso.
Fatta questa premessa, rimane da valutare se per il rito promulgato da Pio XII con il Decreto Maxima Redemptionis nostræ Mysteria del 16 Novembre 1955 valgano le medesime eccezioni sollevate per il Novus Ordo Missæ promulgato da Paolo VI con la Costituzione Apostolica Missale Romanum del 3 Aprile 1969. O meglio: premesso che il Motu Proprio Summorum Pontificum riconosce ai Cattolici il diritto di avvalersi del rito precedente in ragione della sua specificità rituale, dottrinale e spirituale; premesso che il Motu Proprio non entra nel merito di una valutazione di ortodossia del Novus Ordo ma si limita ad una questione – per così dire – di gusto liturgico; possiamo estendere tale principio anche ai riti precedenti il Motu Proprio Rubricarum Instructum di Giovanni XXIII e lo stesso Decreto Maxima Redemptionis nostræ Mysteria, esprimendo questa nostra “preferenza” per il rito cosiddetto di San Pio X? Questa è in realtà una provocazione. Anzitutto perché non condivido la compresenza di due forme dello stesso Rito nella Chiesa di rito romano; in secondo luogo perché considero gravemente mancante e certamente favens hæresim il rito riformato, facendo mia tanto la denuncia dei Cardinali Ottaviani e Bacci, quanto quella di Mons. Marcel Lefebvre, e sono convinto che il Novus Ordo vada semplicemente abolito e proibito, e il rito tradizionale dichiarato unico Rito Romano in vigore. Solo in quest’ottica, infatti, ritengo sia possibile “impugnare” canonicamente anche l’Ordo Hebdomadæ Sanctæ instauratus e, volendo essere puntigliosi, anche il Motu Proprio Rubricarum Instructum, soprattutto in ragione della loro coerenza di impostazione con il Novus Ordo e della loro evidente rottura con l’impostazione del Missale Romanum precedente.
Ora, vista la vacatio legis in cui ci troviamo, credo che se la Fraternità San Pio X ritiene legittimo far riferimento al Messale di Giovanni XXIII perché riconosce in tutte le successive riforme che portarono al Messale di Paolo VI la medesima mente dolosa; per lo stesso motivo – di natura principalmente prudenziale – essa potrebbe applicare il medesimo principio alla riforma della Settimana Santa, anche se in essa – come nel Messale di Giovanni XXIII – non vi è alcunché di eterodosso o di nemmeno lontanamente incline all’eresia.
Questo, credo, fu il motivo per cui mons. Lefebvre scelse appunto il rito del 1962. D’altra parte, avendo egli una mente giuridica in virtù della sua solida formazione, comprendeva bene che non sarebbe stato possibile applicare una sorta di “libero esame” alla Liturgia, perché questo avrebbe autorizzato chiunque a adottare qualsiasi rito. Allo stesso tempo, però, non gli sfuggiva – come non sfugge a noi oggi – l’indole eversiva della riforma conciliare, volutamente aperta alle deroghe ad experimentum, agli infiniti ad libitum, col pretesto di ritrovare una presunta purezza originaria dopo secoli di sedimentazioni rituali. Proprio per questo Mons. Lefebvre decise di tornare al rito meno compromesso, ossia quello del 1962, forse senza cogliere alcuni aspetti controversi delle riforme di Pacelli e di Roncalli che solo un esperto liturgista avrebbe colto, soprattutto in quei travagliati anni Settanta. Non dimentichiamo inoltre che il Rénouveau liturgique iniziò in Francia ben prima che in Italia, e che molte novità poi diventate norma della Chiesa universale furono sperimentate sin dagli anni Venti in Diocesi francesi, ad iniziare dall’uso dei paramenti gotici e dell’altare versus populum, sempre in nome di quell’archeologismo che avrebbe cancellato con un tratto di penna un intero millennio di vita della Chiesa. Immagino che agli occhi di un Prelato italiano celebrare coram populo con la casula medievale apparisse una stravaganza, mentre per un Arcivescovo francese era ormai un uso acquisito e per certi versi addirittura incoraggiato.
Dobbiamo inoltre comprendere – e in questo credo di essermi ampiamente espresso – che la mens della riforma iniziata a livello locale ben prima di Pio XII e poi progressivamente diffusa nell’orbe cattolico è del tutto antigiuridica: i loro artefici si sono avvalsi dell’autorità del Legislatore per imporre con forza di legge un rito che doveva essere tutto, fuorché un’applicazione pedissequa del testo liturgico; il Messale non doveva più contenere i testi che il celebrante doveva recitare fedelmente, ma una sorta di canovaccio che autorizzasse le peggiori eccentricità e insinuasse nel corpo ecclesiale una inesorabile perdita del senso del sacro. Questo non è ancora visibile né nell’Ordo Hebdomadæ Sanctæ instauratus, né nel Messale di Giovanni XXIII; ma il principio della perpetua mutevolezza del rito e del suo disinvolto aggiornamento (assieme all’erronea persuasione che esso si sia corrotto col passare dei secoli e che in quanto tale necessiti di essere “sfrondato” dalle superfetazioni, mentre esso è invece il risultato di uno sviluppo armonico dato dalle circostanze, dal tempo e dai luoghi) era già posto. E certamente la modifica del Canone Romano da parte di Roncalli con l’inserimento del nome di San Giuseppe andava nella stessa direzione, toccando addirittura la preghiera più antica e sacra del Santo Sacrificio.
Concludo con una constatazione. Molte comunità che si avvalgono del Motu Proprio Summorum Pontificum celebrano i riti della Settimana Santa seguendo il Messale precedente alla riforma di Pio XII: la stessa Commissione Ecclesia Dei ha autorizzato questa deroga, considerando legittime le motivazioni addotte da chi la chiedeva. Non vedo quindi per quale motivo la Fraternità, che nella custodia della Messa tradizionale è stata all’avanguardia in tempi ben più difficili, non possa fare altrettanto. Di certo, quando la Chiesa ritroverà se stessa, tutto ciò dovrà essere ricondotto nell’alveo della legge; una legge che, possiamo sperare, terrà saggiamente conto delle criticità sollevate. Auspico che queste mie considerazioni possano in qualche modo essere di aiuto al reverendo abbé …
L’occasione mi è grata per impartire a tutti voi, cari amici, la mia paterna benedizione.
+ Carlo Maria Viganò, Arcivescovo ... |