Russia
01 marzo 2022

LA NATO E QUELLA PROMESSA DEL 1989

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano LA VERITÀ di Domenica 27 febbraio scorso

Di Franco Battaglia

Può l’uomo della strada farsi un’idea del perché potrebbe trovarsi da un giorno all’altro nel mezzo di una guerra, anche lontana ma con tutte le conseguenze del caso che comunque lo affliggerebbero? Certamente non può ascoltando i telegiornali o leggendo i giornali. Sicuramente non quelli italiani, ma se a Roma si piange, altrove non si ride. Abbiamo tutti ascoltato le palesi bugie – palesi perché ogni parola era contraria a ogni logica ed evidenza dei fatti – che per due anni ci hanno resi inquieti in ordine alla pandemia, ai decessi, ai contagiati, al virus, ai vaccini, ai benefìci e agli effetti collaterali di questi, al green pass e ai no-vax.


Forse sul conflitto le cose son diverse? Certo, vedere la corrispondente del Tg1 con tanto di elmetto, giubbotto antiproiettile e unghie smaltate di rosso che vaneggia davanti ad un ufficio postale ove gente, berretto in testa e maglione addosso, sembra essere in, apparente regolare, fila, non è viatico di attendibilità delle parole della signora. In ogni caso, anche senza questa banale e complottista osservazione, perfino Striscia la Notizia ha sgamato le balle raccontate dai Tg.


Quindi al macero qualunque cosa giunge alle nostre orecchie o ai nostri occhi da chi si è auto-nominato ufficiale depositario della verità dei fatti. Tanto più che per settimane questi ci sono stati presentati senza che fosse trasmessa la versione dei medesimi dalla viva voce della controparte. Per questa non possiamo far altro che leggere le notizie come sono raccontate dalla Tass, l’agenzia di stampa russa, sulla cui atendibilità, anche ora, non mettiamo la mano sul fuoco. Proviamo allora a considerare alcuni fatti oggettivi e usiamo anche un po’ di logica sulla coerenza interna dei medesimi. Inoltre prendiamo per buone solo le affermazioni che, avanzate da una delle parti, appaiono non favorevole alla tesi della parte che le enuncia.


Primo. Se si guarda la cartina geografica, la Russia è un Paese enorme, quasi 60 volte l’Italia; l’Ucràina, d’estensione il doppio dell’Italia, è divisa in 24 regioni, tre delle quali – Doneck, Lugansk e Charkiv – sono proprio al confine russo. Come spesso succede nelle regioni di confine, anche in queste citate vi sono stati movimenti separatisti. Senza meraviglia di nessuno, ci sono nei Paesi Baschi e in Irlanda, ove non si sono fatti mancare atti di terrorismo e conseguenti repressioni. E, se ci pensiamo, ci sono anche nel nostro Sud Tirolo, e anche lì non son mancati atti di terrorismo. Per lingua, tradizioni, e costumi il Sud Tirolo è un’area non italica ma germanica, e solo l’autonomia con intelligenza concessa dai nostri governi centrali fa sì che un eventuale referendum, lì, avrebbe quasi sicuramente un esito favorevole al mantenimento di quell’area entro i confini dell’Italia. Almeno così era sicuramente fino a qualche anno fa. Oggi non so. Comunque sia, a quanto pare l’Ucràina non ha avuto un Andreotti, tant’è che nel 2014 i movimenti separatisti di quelle tre regioni ebbero la meglio, e giunsero a indire un referendum popolare su questo quesito: «Sostieni l’atto d’indipendenza della tua regione?». L’affluenza fu superiore all’80% in Doneck e Lugansk, e oltre l’80% votò per l’autonomia. A Charkiv votò per l’autonomia il 60%, però l’affluenza fu del 47% e non si raggiunse il quorum. Alla faccia del rispetto dell’autodeterminazione dei popoli (sancito dalla Carta dell’Onu), le due neo Repubbliche, quella di Doneck e quella di Lugansk, non furono riconosciute da nessuno, Russia compresa. Anzi, nessuno – stavolta eccetto la Russia – riconobbe la validità del referendum.


Secondo. Per meglio contestualizzare ed avere contezza di ciò di cui stiamo parlando, bisogna sapere che le due aree del contendere riguardano meno di due milioni d’abitanti (meno del 4% della popolazione dell’Ucràina) in un territorio d’estensione insignificante. Dio solo sa per quali ragioni dovrebbe mai iniziare lì un conflitto proprio la Russia: tanto più che essa, pur non negando la validità dei referendum del 2014, ha deciso di riconoscere ufficialmente le due minuscole repubbliche solo pochi giorni fa, in seguito ai recenti eventi. Allora la questione sembra ridursi all’ingresso o meno dell’Ucràina nella NATO. Questa, inizialmente alleanza di mutuo soccorso tra i Paesi membri contro la minaccia comunista sovietica, dissolta questa minaccia, s’è ridotta ad un’alleanza di mutuo soccorso e basta. Il fatto è che l’art.10 del Trattato Atlantico prevede che affinché un Paese europeo possa aderire all’Alleanza, «i Paesi membri possono invitarlo previo loro consenso unanime». Quindi si entra nella NATO solo se si è in Europa, solo se si è invitati, e solo se si è invitati all’unanimità. Naturalmente l’invito avviene dopo contrattazioni diplomatiche (cioè sotto banco) tra il nuovo aspirante (o aspirato) membro e qualche Paese che membro lo è già e che si accolli il compito di convincere tutti gli altri (per esempio, Cipro non vi entra perché la Turchia si oppone).


Non deve essere difficile comprendere che la Russia non veda di buon occhio la possibilità di basi militari americane ai propri confini e che un tale esplicito invito suoni come una vera e propria provocazione, più da guerrafondai che da chi dice di volere la pace. A questo punto sorge un’obiezione che suona legittima: non può certo essere la Russia a decidere chi deve o non deve entrare nella NATO. Ma le cose non stanno esattamente così.


Terzo. Subito dopo la caduta del muro di Berlino il segretario di Stato americano James Baker negoziava con Michail Gorbaciov il ritiro dei 300 mila soldati sovietici dalla Germania dell’Est e la riunificazione di questa con quella dell’Ovest. Il negoziato sembrava non aver conclusione perché Gorbaciov, da parte sua, si opponeva all’ingresso della Germania nella NATO, finché Baker gli disse: «Se smobiliti le truppe e accetti la Germania nella NATO, questa s’impegna a non espandersi di un pollice nell’Est». Di questo colloquio v’è la certezza perché lo stesso Baker lo ammise in un momento in cui volle chiarire che con «nell’Est» egli intendeva nella Germania Est e non nell’Europa dell’Est. Sull’intera vicenda i commentatori si sono divertiti, non ultimo sostenendo che, in assenza di accordi scritti specifici, quelle promesse sono solo parole al vento. Non è chiaro se la mancanza di accordi scritti fu una ingenuità voluta o malaccorta di Gorbaciov. Direi che il chiarimento di Baker sia un arrampicarsi sugli specchi visto che Gorbaciov aveva manifestato contrarietà alla presenza di truppe NATO già solo in Germania. Figurarsi a est di essa! Alla fine Gorbaciov ottenne la promessa che non ci sarebbero state, in Germania, truppe non-tedesche. Anche questa promessa è stata tradita e negli anni successivi molti altri Paesi del vecchio blocco sovietico furono “invitati” a far parte dell’alleanza atlantica.

L’idea che ci si può fare da tutto quanto sopra è che Vladimir Putin ha tutte le ragioni per non fidarsi dell’occidente. Forse si potrebbe auspicare che, innanzitutto, la NATO dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad “invitare” l’Ucràina a farvi parte; e poi che in nome del principio dell’autodeterminazione dei popoli, le regioni ucraìne oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum, il cui corretto svolgimento avvenga sotto il controllo delle parti interessate, con l’impegno che tutti i Paesi ne riconoscano l’esito.










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