CIORAN,
IL NICHILISTA ATEO CHE PIACE TANTO ALLA DESTRA E...AGLI ADELPHI DELLA
DISSOLUZIONE
La
recente uscita di una serie di lettere dello scrittore romeno Emil
Cioran, intitolata “L’orgoglio del fallimento” (a cura di
Antonio Di Gennaro, Mimesis), ci permette di soffermarci sul pensiero
di questo intellettuale nichilista che piace tanto alla destra
alternativa e ai circoli che gravitano intorno all’Adelphi. La casa
editrice di Calasso ha pubblicato quasi tutte le opere principali di
Cioran, ad eccezione della “pietra dello scandalo”, il pamphlet
nazicomunista La Trasfigurazione della Romania. Per un
ritratto a tutto campo di questo personaggio controverso e oscuro, mi
permetto di rimandare al mio “I Maledetti. Dalla parte
sbagliata della storia” (Lindau 2017). Ma se
vogliamo addentrarci nei meandri della sua visione del mondo, che
propaganda il suicidio (per gli altri ovviamente, in puro stile
malthusiano) e il romanticismo del “fallimento”, vissuto fra i
salotti bene della Parigi che conta, dobbiamo ripercorrere la
biografia del cattivo maestro romeno.
Cioran
nasce l’8 aprile 1911 cittadino austroungarico, ma è di pura
schiatta romena ed è figlio del rinomato Pope ortodosso del
villaggio di Rasinari, arroccato sui monti vampireschi della
Transilvania. Sin da bambino non nutre alcun interesse per la
religione del padre e dei suoi avi e ben presto si trasferisce,
studente perennemente fuori corso, nella capitale Bucarest. Di giorno
vaga per le aule dell’università o per i caffè alla moda della
città, di notte, in preda all’insonnia, legge i deliri di
Nietzsche e scrive. Entra a far parte del gruppo di irrequieti
studenti della “giovane generazione” capeggiati da Mircea Eliade,
ribattezzati “huligani” ossia teppisti intellettuali. Fiero del
suo ateismo nichilistico, Cioran marca la sua distanza dall’emergente
movimento mistico-fascista della Guardia di Ferro, molto popolare fra
i giovani ma che faceva della religiosità ortodossa una bandiera.
Cioran si crede un pensatore apocalittico e veste trasandato, sempre
di nero. Pubblica articoli dai titoli inequivocabili:
L’irrazionalismo nella vita, La prospettiva pessimista
della storia, Sugli stati depressivi. Nelx 1934, a soli
23 anni, sorprende tutti con l’uscita di Al culmine della
disperazione, in cui annuncia la “conversione al nulla”. “Al
culmine della disperazione”, scrive, “solo la passione
dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos”. In
queste pagine, Cioran anticipa quella che diventerà la sua foga
distruttrice: “Il fuoco che appiccherei al mondo, non porterebbe
alla rovina, ma a una trasfigurazione cosmica”. Candidamente
ammette: “Non credo assolutamente a nulla e non ho alcuna speranza.
Sono insoddisfatto di tutto”. Non c’è futuro, nulla che merita
di essere vissuto, difeso, valorizzato, e quindi “se fossi eletto
Dio di questo mondo, mi dimetterei all’istante”. Il “cavaliere
del nulla” ritiene che “l’ingiustizia è l’essenza della
vita sociale”. La conclusione va da sé: “la verità non
esiste” e la “salvezza” si ottiene solo “attraverso il
niente”.
In
questo stato d’animo parte per Berlino, grazie a una borsa di
studio della Fondazione Humboldt. Il nazismo è al potere da quasi
due anni: i giovani in uniforme che marciano per le strade con i
tamburini, le trombe e gli stendardi appaiono allo scrittore rumeno i
profeti di un’alba eroica. Ciò che vede gli piace: Emil, il
pessimista cosmico nato in un Paese senza una forte identità
nazionale, ha trovato la sua patria ideale nella svastica. Scrive:
“Non c’è alcun uomo politico al mondo che mi ispiri una simpatia
e un’ammirazione più grande di Hitler. C’è qualcosa di
irresistibile nel destino di quest’uomo, per il quale ogni atto
della vita acquista significato solo attraverso la partecipazione
simbolica al destino storico di una nazione. La mistica del Führer
in Germania è pienamente giustificata”. “Sto bene a Berlino e mi
entusiasma il suo ordine politico”, rivela a Mircea Eliade. Poi
annota che “solo un regime dittatoriale potrebbe ancora
appassionarmi. Gli uomini non meritano la libertà”. E anticipa
quello che sarà il tema chiave dell’auspicata trasfigurazione del
suo Paese: “La cialtroneria autoctona potrebbe essere arginata, se
non distrutta, da un regime dittatoriale. In Romania solo il terrore,
la brutalità e un’inquietudine infinita potrebbero far cambiare
qualcosa. Tutti i romeni dovrebbero essere arrestati e picchiati a
sangue; solo così un popolo superficiale potrebbe fare la storia”.
E’ sotto il segno di questa maledizione esistenziale del suo
popolo, ammirando per contrasto le file serrate delle camicie brune
tedesche in marcia, che Cioran concepisce La Trasfigurazione della
Romania. Un testo che vorrebbe essere un manifesto del nuovo
nazionalismo romeno e che si rivela invece un impietoso atto
d’accusa contro i suoi compatrioti, definiti “un piccolo popolo”
di contadini vigliacchi e ignoranti, senza storia né destino,
arretrati, incapaci di creare una vera cultura, sottomessi da secoli
a potenze più vigorose. Il bizantinismo ortodosso per Cioran grava
su questa terra come un macigno di superstizioni che impediscono ogni
impulso modernizzatore. Lo scrittore propone quindi un modello di
collettivismo che si potrebbe definire nazional-bolscevico. Tesse gli
elogi sia della dittatura staliniana sia dell’hitlerismo, ma non
cita mai né la Guardia di Ferro né il suo leader Corneliu Codreanu.
Pubblicato nel 1936, quando è tornato nel suo Paese dopo
l’esperienza tedesca, questo libro viene accolto con curiosità dal
pubblico, e con un’evidente freddezza dai circoli che gravitano
intorno alla Guardia di Ferro. Il movimento fascista romeno infatti,
al contrario di Cioran, punta tutto sul recupero di un nazionalismo
basato sulla religione ortodossa e sulle tradizioni agrarie.
Codreanu, dopo aver letto La trasfigurazione della Romania,
gli scrive una lettera di circostanza in cui osserva: “Tu vuoi che
questa nazione si scrolli di dosso l’abito di pigmeo che porta da
tanto tempo e si vesta di un abito imperiale”. Ma il Capitano, come
il leader carismatico viene chiamato dai suoi seguaci, si rende conto
che la rivoluzione modernizzatrice voluta da Cioran non coincide con
i piani della Guardia di Ferro.
Il
giovane scrittore deve capire però anche come sopravvivere: al suo
rientro in patria, non riesce a sfuggire al servizio militare dove,
artigliere semplice, dà il peggio di sé. Dopo innumerevoli
lamentele riesce ad imboscarsi in un ufficio. Curioso comportamento
per chi esaltava il militarismo hitleriano. Ma d’altronde lui
stesso ha più volte rimarcato che le contraddizioni sono il sale
della vita. Quindi, abbandonata finalmente l’odiata divisa, fra il
1936 e il 1937 veste i panni più confortevoli del professore di
liceo nella ridente cittadina montana di Brasov. Tra una lezione e
l’altra scrive il suo testo di “mistica” nichilista e blasfema,
Lacrime e Santi, in cui sostiene: “Tutto è niente –
questa è la rivelazione dei conventi”. Legge così, in senso ateo,
il nada ascetico di San Giovanni della Croce. Nell’aprile
del 1937 confida a Eliade di voler scappare a Parigi: “Cosa farei
restando qui? Non essendo in grado di integrarmi in modo militante
nel movimento nazionalista, non vedo in cosa potrei essere utile alla
Romania”.
Cioran
arriva nella capitale francese nell’inverno del 1937 con un’altra
borsa di studio e inizia ad assaporare quell’atmosfera decadente di
tramonto della civiltà che caratterizza la metropoli adagiata sulla
Senna. L’eterno studente intuisce già che proprio quel mondo
elegante ma vago, senza una precisa identità, potrebbe diventare il
suo rifugio, il luogo prediletto di un apolide per vocazione. Qui
scorrazza tra i bordelli e i caffè del Quartiere Latino. Con la
proclamazione dello Stato nazional-legionario, legato alla Guardia di
Ferro, il 14 settembre 1940, Cioran si precipita di nuovo in Romania,
nella vana speranza che il suo Paese possa riscattarsi da secoli di
asservimento agli stranieri. L’idillio dura poco. Sarà però la
Guardia di Ferro a nominarlo consigliere culturale dell’ambasciata
romena di Vichy. La sua carriera diplomatica dura appena tre mesi. Il
capo della legazione lo considera non solo politicamente
inaffidabile, ma del tutto inadatto al lavoro di ufficio. Lo
scrittore viene quindi licenziato senza tanti complimenti e nella
Parigi occupata dai tedeschi si ritrova a vivere ai margini, in
alberghi di infima categoria, con pochi soldi in tasca, e la
consapevolezza che ora è veramente un senza patria, completamente
sradicato e disilluso. Eppure, dopo il conflitto, riuscirà a
costruirsi un’altra vita, di grande successo, convertendosi non
solo ai “valori”, ma anche alla lingua del Paese che lo ospiterà
fino alla morte, la Francia. Una nazione che gli darà la notorietà
e gli farà dimenticare di essere nato romeno. Tutti i suoi sforzi
nel periodo postbellico saranno tesi verso il tentativo di nascondere
le sue simpatie naziste di gioventù. Smascherato, si difende dicendo
che si trattava di “peccati di gioventù”. Arriva addirittura a
scrivere un elogio degli Ebrei. Lui, che pochi anni prima aveva
dichiarato: “Se scoprissi di essere Giudeo, mi ucciderei”, tanto
era il suo disprezzo per il popolo israelitico. D’altronde il
nichilista radicale non solo non ha alcun rispetto per la verità, ma
per lui la coerenza è cosa da rozzi e ingenui benpensanti: la
menzogna, come per il Leninisti, è la sua arma prediletta. Il 20
giugno del 1995 Cioran, arricchito da una serie di best seller
all’insegna dell’eleganza stilistica fine a se stessa e del
disincanto nichilistico, lascia questo mondo nella sua Parigi.
Il
percorso esistenziale di Cioran riaffiora anche nelle lettere appena
pubblicate da Mimesis. Già dal titolo si capisce dove si va a
parare. Il primo concetto, “l’orgoglio”, è appunto ciò che
contraddistingue gli atei di tutti i tempi, compresi i nichilisti
alla Cioran. Un orgoglio da “eletto”, da uomo distaccato dalla
massa volgare, che si culla nel sentimento autocompiaciuto del
“fallimento”. In queste lettere lo scrittore romeno si definisce
sospeso “tra il Nirvana e l’elettroshock” e “simpatizzante”
del buddhismo. E si capisce: questa “religione” atea orientale,
che non ammette alcun Dio trascendente, si adatta alla perfezione
alla visione di Cioran: la sua cupio dissolvi è perfettamente
conforme al verbo di questo cantore della disperazione.
Nulla
di più lontano dal concetto cristiano di “fallimento”, che è in
realtà il coraggio e l’eroismo nel portare anche le più atroci
Croci in imitazione e sull’esempio della Passione di Nostro
Signore, come è evidente nei Santi, ad esempio nella breve epopea di
quella vergine toscana che visse fra fine ‘800 e inizi ‘900 dal
nome di Gemma Galgani. Tutta la vita di questa ragazza è stata
all’insegna del “fallimento”, dal punto di vista mondano,
eppure il suo cammino di sofferenza e continua umiliazione è un
luminoso incoraggiamento per tutti noi: un impulso a vivere le
contrarietà di questa valle di lacrime come mezzo di santificazione
personale, e non come nichilistico disprezzo per la propria ed altrui
umanità.
Cresciuta
sin da piccolissima in un ardente amore per Gesù, la Madonna,
l’Angelo Custode, san Gabriele dell’Addolorata, Gemma matura ben
presto la vocazione religiosa. È
confortata da diverse visioni soprannaturali e da estasi in cui è il
Cristo stesso a dirle: “Sarai Passionista”. Tuttavia, la giovane
era perseguitata da una salute malferma e anche se guarì
miracolosamente da una gravissima forma di osteite, continuò a
soffrire di vari disturbi, aggravati dall’insorgenza delle
Stigmate, il segno che era stata prescelta per rendere testimonianza
della Passione di Gesù nei confronti di un mondo distratto e già
ampiamente secolarizzato. Erano gli anni infatti dell’attacco dello
Stato Sabaudo alla Chiesa e della prevalenza delle forze massoniche
nella politica italiana ed europea. Una situazione aggravata
dall’insorgere di tendenze socialiste ed anarchiche fra le masse
proletarie, abbruttite da un capitalismo selvaggio e disumano (la
cosiddetta “rivoluzione industriale”). La piccola Gemma è del
tutto indifferente alle vicende politiche che la circondano,
unicamente concentrata sul suo Gesù. Ma deve affrontare non solo lo
scetticismo del suo confessore, monsignor Giuseppe Volpi (un santo
sacerdote, strumento a suo modo provvidenziale della Via Crucis della
Galgani), ma l’opposizione di quasi tutti i suoi conoscenti che la
consideravano un’isterica, se non addirittura una posseduta dal
demonio. Non entrerà mai quindi nel convento delle Passioniste, non
riuscirà a soddisfare la chiamata divina, e morirà dilaniata dalla
tubercolosi, abbandonata, a soli 25 anni, il Sabato Santo del 1903.
Un fallimento totale, vero, sofferto all’estremo, non la posa
artificiosa dell’ennesimo “poeta maledetto”, di un vanesio
coccolato dalla cricca intellettuale, come Cioran. Nella umile
vergine toscana c’è il dramma autentico, dietro la sua evidente
sconfitta esistenziale, cresceva però di giorno in giorno la
santità, e accanto alle sofferenze fisiche e morali, le consolazioni
portate direttamente da Gesù, da Maria Santissima, da San Gabriele
dell’Addolorata. Già San Pio X intuì che nella storia di quella
apparentemente semplice e povera ragazza si nascondeva una forza
immensa, capace di risvegliare il senso sovrannaturale in un popolo
indaffarato con le vane cose del mondo. Sarà Pio XII, alla vigilia
dell’entrata in guerra dell’Italia, il 2 maggio 1940, a
proclamarla santa, esempio di eroismo e fortezza per tutti i
cristiani che vivono nelle acque agitate del nostro tempo.
Per
chi volesse approfondire il meraviglioso mondo di questa Santa, c’è
il bellissimo libro di Cornelio Fabro, “Gemma Galgani testimone del
soprannaturale” (CIPI 1987). La saggezza della Croce è il miglior
antidoto al nichilismo che attanaglia il nostro mondo disperato e
dimentico dell’unico vero Dio.
ANDREA
COLOMBO