Filosofia
27 maggio 2021

CIORAN, IL NICHILISTA ATEO CHE PIACE TANTO ALLA DESTRA E...AGLI ADELPHI DELLA DISSOLUZIONE

CIORAN, IL NICHILISTA ATEO CHE PIACE TANTO ALLA DESTRA E...AGLI ADELPHI DELLA DISSOLUZIONE



La recente uscita di una serie di lettere dello scrittore romeno Emil Cioran, intitolata “L’orgoglio del fallimento” (a cura di Antonio Di Gennaro, Mimesis), ci permette di soffermarci sul pensiero di questo intellettuale nichilista che piace tanto alla destra alternativa e ai circoli che gravitano intorno all’Adelphi. La casa editrice di Calasso ha pubblicato quasi tutte le opere principali di Cioran, ad eccezione della “pietra dello scandalo”, il pamphlet nazicomunista La Trasfigurazione della Romania. Per un ritratto a tutto campo di questo personaggio controverso e oscuro, mi permetto di rimandare al mio “I Maledetti. Dalla parte sbagliata della storia (Lindau 2017). Ma se vogliamo addentrarci nei meandri della sua visione del mondo, che propaganda il suicidio (per gli altri ovviamente, in puro stile malthusiano) e il romanticismo del “fallimento”, vissuto fra i salotti bene della Parigi che conta, dobbiamo ripercorrere la biografia del cattivo maestro romeno.

Cioran nasce l’8 aprile 1911 cittadino austroungarico, ma è di pura schiatta romena ed è figlio del rinomato Pope ortodosso del villaggio di Rasinari, arroccato sui monti vampireschi della Transilvania. Sin da bambino non nutre alcun interesse per la religione del padre e dei suoi avi e ben presto si trasferisce, studente perennemente fuori corso, nella capitale Bucarest. Di giorno vaga per le aule dell’università o per i caffè alla moda della città, di notte, in preda all’insonnia, legge i deliri di Nietzsche e scrive. Entra a far parte del gruppo di irrequieti studenti della “giovane generazione” capeggiati da Mircea Eliade, ribattezzati “huligani” ossia teppisti intellettuali. Fiero del suo ateismo nichilistico, Cioran marca la sua distanza dall’emergente movimento mistico-fascista della Guardia di Ferro, molto popolare fra i giovani ma che faceva della religiosità ortodossa una bandiera. Cioran si crede un pensatore apocalittico e veste trasandato, sempre di nero. Pubblica articoli dai titoli inequivocabili: L’irrazionalismo nella vita, La prospettiva pessimista della storia, Sugli stati depressivi. Nelx 1934, a soli 23 anni, sorprende tutti con l’uscita di Al culmine della disperazione, in cui annuncia la “conversione al nulla”. “Al culmine della disperazione”, scrive, “solo la passione dell’assurdo può rischiarare di una luce demoniaca il caos”. In queste pagine, Cioran anticipa quella che diventerà la sua foga distruttrice: “Il fuoco che appiccherei al mondo, non porterebbe alla rovina, ma a una trasfigurazione cosmica”. Candidamente ammette: “Non credo assolutamente a nulla e non ho alcuna speranza. Sono insoddisfatto di tutto”. Non c’è futuro, nulla che merita di essere vissuto, difeso, valorizzato, e quindi “se fossi eletto Dio di questo mondo, mi dimetterei all’istante”. Il “cavaliere del nulla” ritiene che “l’ingiustizia è l’essenza della vita sociale”. La conclusione va da sé: “la verità non esiste” e la “salvezza” si ottiene solo “attraverso il niente”.

In questo stato d’animo parte per Berlino, grazie a una borsa di studio della Fondazione Humboldt. Il nazismo è al potere da quasi due anni: i giovani in uniforme che marciano per le strade con i tamburini, le trombe e gli stendardi appaiono allo scrittore rumeno i profeti di un’alba eroica. Ciò che vede gli piace: Emil, il pessimista cosmico nato in un Paese senza una forte identità nazionale, ha trovato la sua patria ideale nella svastica. Scrive: “Non c’è alcun uomo politico al mondo che mi ispiri una simpatia e un’ammirazione più grande di Hitler. C’è qualcosa di irresistibile nel destino di quest’uomo, per il quale ogni atto della vita acquista significato solo attraverso la partecipazione simbolica al destino storico di una nazione. La mistica del Führer in Germania è pienamente giustificata”. “Sto bene a Berlino e mi entusiasma il suo ordine politico”, rivela a Mircea Eliade. Poi annota che “solo un regime dittatoriale potrebbe ancora appassionarmi. Gli uomini non meritano la libertà”. E anticipa quello che sarà il tema chiave dell’auspicata trasfigurazione del suo Paese: “La cialtroneria autoctona potrebbe essere arginata, se non distrutta, da un regime dittatoriale. In Romania solo il terrore, la brutalità e un’inquietudine infinita potrebbero far cambiare qualcosa. Tutti i romeni dovrebbero essere arrestati e picchiati a sangue; solo così un popolo superficiale potrebbe fare la storia”. E’ sotto il segno di questa maledizione esistenziale del suo popolo, ammirando per contrasto le file serrate delle camicie brune tedesche in marcia, che Cioran concepisce La Trasfigurazione della Romania. Un testo che vorrebbe essere un manifesto del nuovo nazionalismo romeno e che si rivela invece un impietoso atto d’accusa contro i suoi compatrioti, definiti “un piccolo popolo” di contadini vigliacchi e ignoranti, senza storia né destino, arretrati, incapaci di creare una vera cultura, sottomessi da secoli a potenze più vigorose. Il bizantinismo ortodosso per Cioran grava su questa terra come un macigno di superstizioni che impediscono ogni impulso modernizzatore. Lo scrittore propone quindi un modello di collettivismo che si potrebbe definire nazional-bolscevico. Tesse gli elogi sia della dittatura staliniana sia dell’hitlerismo, ma non cita mai né la Guardia di Ferro né il suo leader Corneliu Codreanu. Pubblicato nel 1936, quando è tornato nel suo Paese dopo l’esperienza tedesca, questo libro viene accolto con curiosità dal pubblico, e con un’evidente freddezza dai circoli che gravitano intorno alla Guardia di Ferro. Il movimento fascista romeno infatti, al contrario di Cioran, punta tutto sul recupero di un nazionalismo basato sulla religione ortodossa e sulle tradizioni agrarie. Codreanu, dopo aver letto La trasfigurazione della Romania, gli scrive una lettera di circostanza in cui osserva: “Tu vuoi che questa nazione si scrolli di dosso l’abito di pigmeo che porta da tanto tempo e si vesta di un abito imperiale”. Ma il Capitano, come il leader carismatico viene chiamato dai suoi seguaci, si rende conto che la rivoluzione modernizzatrice voluta da Cioran non coincide con i piani della Guardia di Ferro.

Il giovane scrittore deve capire però anche come sopravvivere: al suo rientro in patria, non riesce a sfuggire al servizio militare dove, artigliere semplice, dà il peggio di sé. Dopo innumerevoli lamentele riesce ad imboscarsi in un ufficio. Curioso comportamento per chi esaltava il militarismo hitleriano. Ma d’altronde lui stesso ha più volte rimarcato che le contraddizioni sono il sale della vita. Quindi, abbandonata finalmente l’odiata divisa, fra il 1936 e il 1937 veste i panni più confortevoli del professore di liceo nella ridente cittadina montana di Brasov. Tra una lezione e l’altra scrive il suo testo di “mistica” nichilista e blasfema, Lacrime e Santi, in cui sostiene: “Tutto è niente – questa è la rivelazione dei conventi”. Legge così, in senso ateo, il nada ascetico di San Giovanni della Croce. Nell’aprile del 1937 confida a Eliade di voler scappare a Parigi: “Cosa farei restando qui? Non essendo in grado di integrarmi in modo militante nel movimento nazionalista, non vedo in cosa potrei essere utile alla Romania”.

Cioran arriva nella capitale francese nell’inverno del 1937 con un’altra borsa di studio e inizia ad assaporare quell’atmosfera decadente di tramonto della civiltà che caratterizza la metropoli adagiata sulla Senna. L’eterno studente intuisce già che proprio quel mondo elegante ma vago, senza una precisa identità, potrebbe diventare il suo rifugio, il luogo prediletto di un apolide per vocazione. Qui scorrazza tra i bordelli e i caffè del Quartiere Latino. Con la proclamazione dello Stato nazional-legionario, legato alla Guardia di Ferro, il 14 settembre 1940, Cioran si precipita di nuovo in Romania, nella vana speranza che il suo Paese possa riscattarsi da secoli di asservimento agli stranieri. L’idillio dura poco. Sarà però la Guardia di Ferro a nominarlo consigliere culturale dell’ambasciata romena di Vichy. La sua carriera diplomatica dura appena tre mesi. Il capo della legazione lo considera non solo politicamente inaffidabile, ma del tutto inadatto al lavoro di ufficio. Lo scrittore viene quindi licenziato senza tanti complimenti e nella Parigi occupata dai tedeschi si ritrova a vivere ai margini, in alberghi di infima categoria, con pochi soldi in tasca, e la consapevolezza che ora è veramente un senza patria, completamente sradicato e disilluso. Eppure, dopo il conflitto, riuscirà a costruirsi un’altra vita, di grande successo, convertendosi non solo ai “valori”, ma anche alla lingua del Paese che lo ospiterà fino alla morte, la Francia. Una nazione che gli darà la notorietà e gli farà dimenticare di essere nato romeno. Tutti i suoi sforzi nel periodo postbellico saranno tesi verso il tentativo di nascondere le sue simpatie naziste di gioventù. Smascherato, si difende dicendo che si trattava di “peccati di gioventù”. Arriva addirittura a scrivere un elogio degli Ebrei. Lui, che pochi anni prima aveva dichiarato: “Se scoprissi di essere Giudeo, mi ucciderei”, tanto era il suo disprezzo per il popolo israelitico. D’altronde il nichilista radicale non solo non ha alcun rispetto per la verità, ma per lui la coerenza è cosa da rozzi e ingenui benpensanti: la menzogna, come per il Leninisti, è la sua arma prediletta. Il 20 giugno del 1995 Cioran, arricchito da una serie di best seller all’insegna dell’eleganza stilistica fine a se stessa e del disincanto nichilistico, lascia questo mondo nella sua Parigi.

Il percorso esistenziale di Cioran riaffiora anche nelle lettere appena pubblicate da Mimesis. Già dal titolo si capisce dove si va a parare. Il primo concetto, “l’orgoglio”, è appunto ciò che contraddistingue gli atei di tutti i tempi, compresi i nichilisti alla Cioran. Un orgoglio da “eletto”, da uomo distaccato dalla massa volgare, che si culla nel sentimento autocompiaciuto del “fallimento”. In queste lettere lo scrittore romeno si definisce sospeso “tra il Nirvana e l’elettroshock” e “simpatizzante” del buddhismo. E si capisce: questa “religione” atea orientale, che non ammette alcun Dio trascendente, si adatta alla perfezione alla visione di Cioran: la sua cupio dissolvi è perfettamente conforme al verbo di questo cantore della disperazione.

Nulla di più lontano dal concetto cristiano di “fallimento”, che è in realtà il coraggio e l’eroismo nel portare anche le più atroci Croci in imitazione e sull’esempio della Passione di Nostro Signore, come è evidente nei Santi, ad esempio nella breve epopea di quella vergine toscana che visse fra fine ‘800 e inizi ‘900 dal nome di Gemma Galgani. Tutta la vita di questa ragazza è stata all’insegna del “fallimento”, dal punto di vista mondano, eppure il suo cammino di sofferenza e continua umiliazione è un luminoso incoraggiamento per tutti noi: un impulso a vivere le contrarietà di questa valle di lacrime come mezzo di santificazione personale, e non come nichilistico disprezzo per la propria ed altrui umanità.

Cresciuta sin da piccolissima in un ardente amore per Gesù, la Madonna, l’Angelo Custode, san Gabriele dell’Addolorata, Gemma matura ben presto la vocazione religiosa. È confortata da diverse visioni soprannaturali e da estasi in cui è il Cristo stesso a dirle: “Sarai Passionista”. Tuttavia, la giovane era perseguitata da una salute malferma e anche se guarì miracolosamente da una gravissima forma di osteite, continuò a soffrire di vari disturbi, aggravati dall’insorgenza delle Stigmate, il segno che era stata prescelta per rendere testimonianza della Passione di Gesù nei confronti di un mondo distratto e già ampiamente secolarizzato. Erano gli anni infatti dell’attacco dello Stato Sabaudo alla Chiesa e della prevalenza delle forze massoniche nella politica italiana ed europea. Una situazione aggravata dall’insorgere di tendenze socialiste ed anarchiche fra le masse proletarie, abbruttite da un capitalismo selvaggio e disumano (la cosiddetta “rivoluzione industriale”). La piccola Gemma è del tutto indifferente alle vicende politiche che la circondano, unicamente concentrata sul suo Gesù. Ma deve affrontare non solo lo scetticismo del suo confessore, monsignor Giuseppe Volpi (un santo sacerdote, strumento a suo modo provvidenziale della Via Crucis della Galgani), ma l’opposizione di quasi tutti i suoi conoscenti che la consideravano un’isterica, se non addirittura una posseduta dal demonio. Non entrerà mai quindi nel convento delle Passioniste, non riuscirà a soddisfare la chiamata divina, e morirà dilaniata dalla tubercolosi, abbandonata, a soli 25 anni, il Sabato Santo del 1903. Un fallimento totale, vero, sofferto all’estremo, non la posa artificiosa dell’ennesimo “poeta maledetto”, di un vanesio coccolato dalla cricca intellettuale, come Cioran. Nella umile vergine toscana c’è il dramma autentico, dietro la sua evidente sconfitta esistenziale, cresceva però di giorno in giorno la santità, e accanto alle sofferenze fisiche e morali, le consolazioni portate direttamente da Gesù, da Maria Santissima, da San Gabriele dell’Addolorata. Già San Pio X intuì che nella storia di quella apparentemente semplice e povera ragazza si nascondeva una forza immensa, capace di risvegliare il senso sovrannaturale in un popolo indaffarato con le vane cose del mondo. Sarà Pio XII, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, il 2 maggio 1940, a proclamarla santa, esempio di eroismo e fortezza per tutti i cristiani che vivono nelle acque agitate del nostro tempo.

Per chi volesse approfondire il meraviglioso mondo di questa Santa, c’è il bellissimo libro di Cornelio Fabro, “Gemma Galgani testimone del soprannaturale” (CIPI 1987). La saggezza della Croce è il miglior antidoto al nichilismo che attanaglia il nostro mondo disperato e dimentico dell’unico vero Dio.

ANDREA COLOMBO








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