Pizzetto
incolto, capelli lunghi, occhialini tondi da scrittore, la veste
talare bianca un po’ lisa con un pugnale alla cintura. Pavel
Florenskij entra in un’aula stracolma di studenti, e dopo aver
posato il suo quaderno di appunti sulla scrivania, esclama: “Cristo
è risorto! Amore, amore, amore e ancora amore…”. Iniziano così
le lezioni sulla “Filosofia del culto”, tenute da questa
multiforme figura di sacerdote ortodosso, un religioso che è allo
stesso tempo padre di famiglia, matematico, filosofo, storico
dell’arte e scienziato.
Era
il maggio del 1918. L’anno prima aveva trionfato la rivoluzione
bolscevica, che aveva spazzato via la monarchia e promesso di
liberare i russi dalla religione “oppio dei popoli”. Padre Pavel
non era né un reazionario né un nostalgico zarista, tuttavia era
fermamente contrario al materialismo marxista. E così, dalle aule
dell’Accademia della società dei professori di Mosca, lanciava la
sua originale sfida allo Stato comunista. Una sfida che gli costerà
cara e culminerà con il martirio, in una fredda notte dell’8
dicembre 1937, quando venne fucilato insieme ad altri 500
“controrivoluzionari” nei boschi che circondavano Leningrado.
Le
edizioni San Paolo hanno mandato alle stampe queste lezioni di
“Filosofia del culto” (a cura di Natalino Valentini) in cui
emerge la visione del mondo di un pensatore dai mille volti, capace
di passare dalla teologia delle icone alla filosofia platonica,
dall’ingegneria elettrotecnica alla geometria non euclidea. Per
Pavel Florenskij il culto non è un residuo del passato, un lascito
di superstizioni superate, ma è la fonte della nostra esistenza. È
la radice delle nostre attività, tanto che i sette sacramenti, dal
battesimo all’unzione degli infermi passando per il matrimonio,
marcano tutte le principali tappe dell’uomo. Lo stesso termine di
cultura deriva dal culto. Negare questa evidenza, spiega, è come
rinnegare l’essenza più profonda dell’umanità. D’altronde il
tempo è marcato dai rintocchi delle ore dei campanili e dal
calendario liturgico. E, similmente, lo spazio richiede un’attività
di orientamento intellettuale, che ha un unico punto di riferimento:
“la Persona Assoluta Divino-umana incarnata”.
Il
pensiero mistico di Florenskij è di una radicalità che affascina.
Tanto che le sue riflessioni sulle geometrie perfette
dell’iconografia ortodossa s’incontrano con le sperimentazioni di
artisti come Malevich, che in quegli stessi anni respingono la
tradizione occidentale della figurazione e ritornano al primitivismo
astratto dell’estetica bizantina, culla della civiltà russa.
Scrive Florenskij: “Tutto è Croce, tutto è fatto a forma di
Croce. La Croce sta a fondamento di tutto l’essere” e sembra che
commenti un quadro suprematista. Fedele alla tradizione della sua
terra, questo sacerdote scienziato si scaglia contro la “sacrilega
indipendenza” della “civiltà umanistica europea occidentale:
putrefazione, disgregazione e quasi morte della cultura dell’uomo”.
Per Florenskij la modernità, nata nel Rinascimento, è “estranea
alla religione”. E i russi devono marcare la loro differenza
rispetto al pensiero occidentale.
Particolarmente
toccanti le pagine dedicate al cristianesimo come testimonianza e
martirio, che anticipano quella che sarà la sua tragica fine. Quasi
un oscuro presagio. Il martirio, scrive Florenskij, è “il sangue
che parla della verità”. E nella morte per la fede, il testimone
diventa “un combattente e, nello spirito, un vincitore”. Nel
1937, dopo innumerevoli arresti e vessazioni, già privato da tempo
dell’insegnamento, Florenskij viene accusato di “svolgere
attività controrivoluzionaria inneggiando al nemico del popolo
Trockij”. Gli stalinisti non potevano formulare accusa più
assurda. Alla vigilia della sua uccisione, rinchiuso nel gulag, nel
giugno di quell’anno scrive ai figli: “Tutto ormai è finito
(tutto e tutti)”. Pochi mesi dopo il suo volto, trasfigurato dalle
violenze, si troverà “faccia a faccia con l’Eternità amata,
solitaria, misteriosa”.
Andrea Colombo