Economia
12 marzo 2021

Negli Usa torna l’inflazione, Bce in trappola: ma che strategia ha in mente Mario Draghi?

La nostra ora d’aria sta per finire. Con l’inflazione da fine lockdown in arrivo dagli Stati Uniti, i tedeschi preparano battaglia per porre fine al QE/PEPP della Bce. Ma sarebbe insostenibile per i titoli di stato italiani. Di fronte ad un simile rischio, la reazione di Draghi pare essere quella di non affrettare la fine del lockdown e di insistere per la monetizzazione del debito, in barba ai Trattati e al Nein tedesco. Sarà la rivoluzione inflazionista degli Usa a riportare i rapporti monetari tra Germania e Italia indietro a 40 anni fa?

Negli Stati Uniti, come spiegavamo ieri su Atlantico Quotidiano, i tassi dei titoli di Stato sono in rialzo, nell’anticipazione di una inflazione che potrebbe risultare dalla congiunzione di politiche monetarie e fiscali entrambe estremamente espansive. E nell’Eurozona?

La classica inflazione – Della politica fiscale è presto detto. Il Recovery Fund è poca cosa (per l’Italia, la miseria di 69 miliardi in trasferimenti cosiddetti a fondo perduto, entro il 2026). Pure addizionandolo tutto intero agli stimoli nazionali, la somma sarebbe la metà di quella americana. Le ratifiche nazionali procedono lentamente e la Germania approverà una legge che riserva al Bundestag il diritto di veto sugli stanziamenti imposto a Conte lo scorso luglio. Un mitico bilancio federale è impedito dai Trattati vigenti. La riforma del Patto di Stabilità è rinviata a dopo l’intronizzazione del nuovo cancelliere tedesco. Il finanziamento monetario da parte di Bce è destinato a finire, dice il presidente di Bundesbank Weidmann, “anche se i costi di finanziamento per gli Stati altamente indebitati aumenteranno”, perché “i mercati dei capitali devono disciplinare le finanze pubbliche”.

Quanto alla politica monetaria, ciò che sta facendo la banca centrale americana (Fed) si fonda su una reinterpretazione dei propri tre obiettivi (massima occupazione, prezzi stabili, tassi di interesse a lungo termine moderati). Bce, al contrario, non ha la stessa fortuna: “l’obiettivo principale è il mantenimento della stabilità dei prezzi”. Così, taluni hanno cercato la scappatoia degli obiettivi secondari: “fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi … sostiene le politiche economiche generali nell’Unione” (“senza che ciò pregiudichi” nel testo francese, “sino a che ciò è possibile senza pregiudicare” nel testo tedesco). Purtroppo, gli obiettivi secondari mirano a “lo sviluppo sostenibile dell’Europa … basato sulla stabilità dei prezzi”, casomai il concetto di obiettivo principale non fosse stato abbastanza chiaro. E non v’è chi non veda come qualsivoglia politica espansiva è inflattiva, al contrario delle mitologiche riforme (lavoro, pensioni, …), che sono tutte deflattive e non mirano mai alla massima occupazione, se non nei modelli di qualche economista, onirici e di lunghissimo periodo. In tal senso, risulta perfettamente coerente coi Trattati la volonterosa partecipazione di Bce alla Troika che ha imposto le riforme, per esempio alla Grecia: un monito sufficiente, crediamo, a chiunque voglia servirsi, per emulare gli americani, della scappatoia degli obiettivi secondari.

Insomma, non è un caso che l’Eurozona sia caduta in deflazione tre volte negli ultimi 11 anni e che, perciò, Bce sia divenuta la banca centrale meno credibile del mondo: a Trattati vigenti, l’Eurozona è strutturalmente incapace di generare inflazione.

L’inflazione da fine lockdown – Eppure, l’aumento dei tassi americani ha cominciato a trasmettersi all’Eurozona, a causa di un fenomeno di emulazione ed arbitraggio, detto contagio (contagion o spillover). Alla notizia, Weidmann, si è precipitato a descriverlo come ininfluente. Egli avanza due argomenti. (1) I rialzi dei tassi di mercato dipendono da un miglioramento dello scenario economico e non da un innalzamento delle aspettative di inflazione. Osservazione fatta propria pure dal governatore olandese Knot e sottile, in quanto ciò cui si assiste è certamente un innalzamento delle aspettative di inflazione, ma da parte dei mercati, probabilmente non ancora da parte del parco buoi (la grande platea dei produttori e consumatori), che se ne accorgerà quando vedrà salire i prezzi al dettaglio (i prezzi nei supermercati, ad esempio, che si muovono con un certo ritardo rispetto alla quotazione del prezzo dell’etilene, dal quale sono derivate le plastiche da imballo). (2) Il secondo argomento è quello giuridico consueto: il divieto di finanziamento monetario ai governi ed il dovere di riprendere la riduzione dei debiti pubblici.

Ciò che colpisce, è l’enfasi particolare posta sul primo argomento, quello dell’inflazione. Così era stato già nei primi anni della sua presidenza di Bundesbank, nel 2011-2012, quando l’inflazione stava effettivamente risalendo. Poi, però, l’inflazione crollò e Weidmann prese a parlare più diffusamente degli argomenti giuridici (faceva così ancora lo scorso ottobre), nonché a fare il piagnisteo pei poveri risparmiatori tedeschi penalizzati dai bassi tassi. Oggi, se egli ritiene di tornare a concentrarsi sull’argomento dell’inflazione, vuol dire che giudica che l’inflazione stia effettivamente tornando.

La sua convinzione non è fondata, né su previsioni ottimistiche di ripresa, né sull’aumento del costo delle materie prime (un classico motore di inflazione), né sul balzo dell’inflazione tedesca a gennaio (dal -0,7 per cento di dicembre al +1.5 per cento). La sua convinzione è fondata sulla fine del lockdown (“molti saranno portati ad andare nelle birrerie all’aperto e nei ristoranti, un ragionamento simile vale, per esempio, per i viaggi”), il quale finanziariamente può essere interpretato come una forma di risparmio forzoso (il reciproco di pent-up demand, domanda repressa), nonché come distruttore della capacità di offerta di interi settori (aspetto sul quale si sofferma Dragoni). Certo, il lockdown ancora dura e, sui vaccini, l’Eurozona è in solare ritardo, ma è pur vero che, prima o poi, il ritardo verrà colmato e, allora, assisteremo alla liberazione del risparmio forzoso, quantificato da Jörg Krämer, capo economista di Commerzbank, in “oltre il 10 per cento, quasi il valore più alto dalla fondazione dell’unione monetaria, entra in circolazione troppo denaro, si costruisce un potenziale di inflazione”.

Ormai molti sono gli analisti che vedono l’inflazione tedesca sopra al 3 per cento entro fine anno (la stessa Commerzbank, ING, IfW, IMK, …). Certo, questi ultimi aggiungono che sarebbe una fiammata, ma ciò che conta è come essa verrà interpretata: Lagarde parlerà di un fenomeno transitorio (Visco ha già detto, “l’aumento dell’inflazione non sarà durevole”), ma che dirà Weidmann?

Attacco tedesco – Beh, Weidmann ha deciso di cavalcare la tigre e, anziché rassicurare i buoni borghesi e lavoratori tedeschi, ha speso parole inequivoche per aizzarli: “il tasso di inflazione continuerà a crescere ancora, verso la fine dell’anno il tasso di inflazione in Germania dovrebbe attestarsi oltre il 3 per cento”. Il modo migliore per attirare l’attenzione del parco buoi ed ancorarne le aspettative di inflazione (inflation expectations) a quelle dei mercati. Dopo una simile dichiarazione, che aumento di salario dovrebbe chiedere il sindacato tedesco? Tanto più dopo che Berlino ha fatto ciò che persino Washington ha evitato di fare: innalzare il salario minimo, a decorrere dal 1° gennaio 2021? Almeno il 3 per cento, ovviamente.

Insomma, Weidmann sta chiamando un aumento dei salari in Germania. E perché? Beh perché, dice lui, “i tassi di inflazione cominceranno a salire in modo davvero sostenibile, solo se aumenteranno anche i salari”, cioè un aumento dei salari in Germania sarà un segnale inflattivo che Bce faticherà ad ignorare. Insomma, Weidmann prepara battaglia sul terreno dell’inflazione da fine lockdown: vuole che Bce la scambi per inflazione classica e si comporti di conseguenza, ponendo termine ai programmi di acquisto (PEPP e QE) ed ai tassi ufficiali negativi.

Bce in trappola – Ciò crea a Bce un bel problema, che ha nome tasso di interesse reale, cioè la differenza fra i tassi nominali e l’inflazione. Se i tassi di interesse nominali dovessero seguire quelli americani, mentre l’inflazione nell’Eurozona resta ferma, allora i tassi di interesse reali di quest’ultima salirebbero. Cioè, il contrario di quanto avviene negli Stati Uniti. Con un effetto deflattivo moltiplicato dall’apprezzamento, che ne deriverebbe, dell’Euro sul dollaro, ciò che preoccupa alcuni dentro Bce ma non Weidmann.

Di fronte a tutto ciò, Lagarde ha definito i maggiori tassi di mercato come unwarranted, ingiustificati e ripete allo sfinimento (ultimamente pure con una filastrocca), che manterrà “condizioni di finanziamento favorevoli sino alla fine della pandemia”. Ma non è chiaro cosa quest’ultima espressione significhi, né come Bce potrebbe farlo. In linea teorica, Bce ha due linee di difesa: (1) il PEEP. Ha indicato di non volerlo ulteriormente alzare, con l’approvazione di Weidmann il quale concederebbe al massimo di usarne la flessibilità (cioè comprare più attivi per qualche mese soltanto) senza aumentarne il volume complessivo. Se anche lo aumentasse, l’effetto non potrebbe che essere limitato, perché Lagarde ha esplicitamente legato la durata del PEEP agli effetti del Covid e la fine del lockdown si avvicina. (2) Il QE. Per conseguenza, si è pensato di incrementare il QE, la cui durata non è legata al Covid. Ed è per questo che Weidmann ha ammonito: “Non appena sarà prevedibile che raggiungeremo il tasso di inflazione che ci siamo prefissati come obiettivo, è importante che il Consiglio direttivo di Bce ritiri tempestivamente la sua politica monetaria molto espansiva”, si tratti pure di inflazione da fine lockdown. Egli ha pure mandato un segnale concreto cancellando, per quest’anno almeno, quella forma di creazione di massa monetaria che sono i dividendi annuali versati da Bundesbank al governo tedesco.

Così stando le cose, le vaccinazioni innescheranno l’inflazione da fine lockdown che, a sua volta, innescherà la fine del PEEP (e forse pure del QE) che, a sua volta, innescherà la crisi del Btp. A marzo scrivemmo che Bce ci aveva concesso l’ora d’aria. Ecco, l’ora d’aria sta per finire.

Tattica italiana – Per l’Italia (ed il paese latino) si riaprono le porte della Geenna. Draghi non può non sapere che il Btp (e lo Oat e i Bonos) non si reggerebbe senza gli acquisti di Bce. Draghi è un banchiere. E quale può essere la reazione di un banchiere, di fronte ad un simile rischio, innescato dall’inflazione da fine lockdown? Beh, è ovvio, non affretta la fine del lockdown. Acciocché non sorgessero equivoci, egli ha mandato avanti il membro italiano del Consiglio Bce, Panetta, a fare un discorso tanto esplicito che non ci si crede: sì, ci sono i vaccini, ma siamo tanto lenti ad inocularli e poi ci sono le terribili varianti del virus; sì, c’è risparmio forzoso, ma lo possiedono solo i vecchi; sì, riapriremo qualcosa, ma non viaggi e turismo … quindi l’inflazione non c’è e non ci sarà. Draghi stesso, lunedì, ha elencato le “tante persone che soffrono per la crisi economica, che rischiano di perdere il posto di lavoro”, per poi sibilare: “siamo solo all’inizio”.

Cosa pensare di 3 milioni di vaccini nei frigoriferi? E come giudicare il piano vaccinale, veloce come Fregoli a mutarsi, ma non ad attuarsi (sino a 13 mesi, ma solo se si facesse il doppio o il triplo delle vaccinazioni giornaliere rispetto ad oggi)? E come scordare i fiumi di parole, da Draghi dedicate agli studenti nel suo discorso di Rimini? Giunto al governo, egli ha impedito loro l’accesso alle scuole. E che dire delle promesse, da Draghi fatte alle imprese nel suo articolo di marzo sul FT? Nel primo giorno del proprio governo, egli ha rovinato la montagna, poi quel che resta dei bar e della ristorazione, domani pure la gran parte dei negozi. Tutti costoro, non vorremmo egli li consideri alla stregua di vittime collaterali di una guerra più grande di loro.

In ogni caso, Weidmann ora sa che, se pur avrà avuto successo ad alzare l’inflazione da fine lockdown in Germania (e magari pure nel paese germanico), questa sarà compensata dalla abbruttente depressione e deflazione in Italia e nel paese latino. In altre parole, sino a dopo che la Germania sarà ripartita, noi dobbiamo stare a cuccia, depressi oltre misura. E la guerra continua.

Strategia italiana – Quale guerra? Prosegue Panetta, (1) le politiche fiscali devono “rimanere espansive nel 2021” e ciò è possibile grazie a “l’impegno della Bce”, che deve continuare (e tanti saluti al Recovery Fund che “è volto a finanziare riforme”). (2) L’altra volta, dopo il 2008, “la crescita della domanda interna era rimasta troppo a lungo contenuta”, ma questa volta è diverso: non possiamo, di nuovo, “intrappolarci in un contesto di bassa inflazione, crescita stentata e alta disoccupazione”, ma dobbiamo continuare “finché l’inflazione non raggiungerà su base durevole l’obiettivo del 2 per cento, in un contesto di crescita elevata e di occupazione in aumento”. (3) Per combattere il contagio dagli Stati Uniti, che fa salire i tassi reali, Bce deve “ancorare i rendimenti nominali” (yield curve control, controllo della curva dei rendimenti), ergo “definire l’area in cui si collocano i rendimenti nominali che essa considera adeguati, decidere i propri acquisti in coerenza con questo obiettivo ed essere pronta a intervenire nella misura necessaria”, cioè in misura potenzialmente illimitata. Coerentemente, non solo il QE deve continuare ed i tassi ufficiali eventualmente abbassarsi, ma pure “non vi è motivo di esitare ad aumentare il volume degli acquisti e a spendere l’intera dotazione del PEEP – o anche più, se necessario”.

Insomma, Draghi fa chiedere a Panetta nientemeno che: la monetizzazione del debito, l’oblio dell’obiettivo del 2 per cento, l’acquisto illimitato di titoli di Stato. In altre parole, copiare ciò che sta facendo la Fed: la rivoluzione americana. Tutto ciò è contrario ai Trattati europei vigenti. Ergo, sarebbe indispensabile una riforma dei Trattati. Ma tale riforma è impossibile perché, francamente, non c’è modo che la Germania la accetti: successivamente all’annuncio rivoluzionario di agosto da parte della Fed, Weidmann ha speso parole pesanti contro l’average inflation targeting, contro il mandato di massima occupazione, contro la revisione dell’obiettivo del 2 per cento, contro il finanziamento monetario, contro il controllo della curva dei rendimenti cioè l’acquisto illimitato di Titoli di Stato. Nein vuol dire Nein.

L’arma-fine-di-mondo – Poteva Draghi non prevederlo? No. E, allora, come conta di reagire? Può darsi che lo abbia accennato al Senato, dove ha auspicato “politiche monetarie e fiscali espansive”, per poi definire l’Euro come “irreversibile”. Ci pare voler significare che, in assenza di politiche monetarie e fiscali espansive, l’Euro non sarebbe più irreversibile. Questa è l’arma-fine-di-mondo. Vero è che Draghi non ha ancora dimostrato di poterla veramente azionare. Potrebbe essere un artificio, un raggiro dei poveri sovranisti, l’ennesima beffa ai danni degli italiani. Ma anche no.

Per intuirlo, occorre tornare a prima dell’Euro, prima di Mitterand e Reagan addirittura. Al principio del 1980, Mario Monti e Pier Luigi Gilibert spiegavano che, pure se gli Stati Uniti erano divenuti inflazionisti, la Germania persisteva tenacemente deflazionista, nel senso di sistematicamente accettare la rivalutazione della propria divisa, come prezzo per non inflazionare pure lei. Con una intransigenza “che ha trovato ampia giustificazione in trent’anni di prosperità ininterrotta ed è stata continuamente influenzata da una profonda avversione a qualsiasi segno di degrado monetario ed è, senza dubbio, il risultato dell’ascesa della Germania al rango di colosso industriale”. Tuttavia, siccome il costo in termini di commercio internazionale delle continue rivalutazioni era elevato, Berlino aveva fatto sì che venisse costruito un sistema di cambi semi-fissi (il sistema monetario europeo, o SME), attraverso il quale veniva concessa, a lei sola, “la possibilità di perseguire politiche indipendenti” e che, dunque, le serviva come mezzo per “creare un clima più favorevole al perseguimento dei propri obiettivi deflazionisti”.

Monti e Gilibert vedevano tale diktat con favore, perché volevano che pure l’Italia seguisse politiche deflazioniste, col gusto macabro che al primo non è mai venuto meno. Al contrario, fra gli altri economisti, quelli dotati di un minimo di empatia per i propri compatrioti, non molti scommettevano che la cosa sarebbe stata in piedi: già l’Italia era uscita dal precedente tentativo del 1972 (il serpente monetario), perché aveva preferito rimanere agganciata al dollaro. Ma, dall’agosto 1979, alla Fed si era insediato Paul Volcker, il quale aveva invertito la direzione della politica monetaria americana, alzando furiosamente i tassi sino al massimo dell’aprile 1980. Così, pure gli Stati Uniti divennero deflazionisti e la cosa europea poté stare più o meno in piedi per i successivi 40 anni.

Il 27 agosto 2020, qualcosa di determinante potrebbe essere cambiato. L’attuale presidente della Fed, Powell, ha annunciato una rivoluzione, nel senso letterale di rotazione attorno ad un asse e ritorno al punto di partenza: quello precedente a Paul Volcker. Se, come sembra, i fatti seguiranno alle parole, allora pure i rapporti monetari fra la Germania e l’Italia (e, più in generale, fra il paese germanico ed il paese latino) torneranno indietro a 40 anni fa. Di nuovo, la Germania potrà scegliere: se farsi pure essa inflazionista, oppure restare deflazionista ma in tutta solitudine. Just in case, Dio benedica gli Stati Uniti d’America.



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